GRASSETTO, Francesco
Ignoto il G. ai pur meticolosi cultori di storia locale del suo paese natio, Lonigo, sarà l'erudito vicentino Giovanni Da Schio ad accorgersi di lui e del suo diario di bordo primocinquecentesco, provvedendo a pubblicarlo in sunto nel 1837 (Viaggio fatto sulle coste dalmate, greco-levante e itale nell'anno MDXI e seguenti, in Viaggi vicentini inediti e compendiati, Venezia, pp. 1-29), mentre all'edizione completa attenderà, nel 1886, Antonio Ceruti (Viaggio sulle coste dalmate, greco-venete e italiche, in Monumenti storici pubblicati dalla R. Deputazione veneta di storia patria, s. 4, IV, Venezia, pp. 17-91). Ma raccontabili della vita - che non sappiamo se lunga o breve - del G. sono solo, grazie al suo riporto diaristico, i tre anni da lui trascorsi in mare. Quel che è certo, perché è egli stesso a dirlo, è che è un prete nativo di Lonigo nel Vicentino; congetturabile soltanto che vi sia nato negli anni Ottanta del secolo XV. Da escludere, con tutta probabilità, un qualche legame di parentela con Niccolò Grassetto vicario generale del vescovo di Padova Fantino Dandolo. Lonigo era, allora, borgo di una qualche consistenza, sin con qualche parvenza di città; poiché, oltre a essere sede di podestaria, vi era un docente di grammatica, è ipotizzabile che a Lonigo il G. abbia potuto avere una qualche istruzione.
Uomo fatto, comunque, il G. nonché "prè" (prete), quando, in qualità di cappellano stipendiato, si imbarca a Venezia, il 20 maggio 1511, in una galea bastarda (nave da guerra, dalla poppa più ampia e solida delle usuali, dotata pure di velatura e di artiglieria), di cui è sopracomito, ossia comandante, Marco Bragadin di Giovanni Alvise. Sotto di lui due nobili veneziani, 12 compagni, 110 balestrieri, 60 galeotti, uno scrivano, un cuoco. Virtualmente tutte anime affidate alle cure spirituali del G., che però di ciò non fa cenno e su questo suo compito sorvola. Gli interessa, invece, annotare le tappe di una navigazione che, dopo Zara, tocca "Camixan" (qui la specialità di "rari salumi") il 29, lo scoglio di Santa Maria il 6 giugno (qui dei "frati bigoti"), Curzola ("ricca e mercantile", con porto, con arsenale) il 7, sfiorando quindi Ragusa, che paga tributo al Turco, per portarsi a Corfù. Quivi il G. annota che 100 telai stanno lavorando la seta e assiste consenziente alle severe punizioni impartite dal provveditor d'armata Girolamo Contarini: impiccagione di un paio di galeotti, atroci supplizi (frustate, bollature, cavamento d'occhi) a dei balestrieri. E "uno garzon", assolto, a suo avviso meritava anch'egli l'impiccagione. Seguono Cerigo, "Malvasia vechia, olim dicto Epidauro", l'"ampio porto de Millo", la piccola isola di Sifovia, nella quale anticamente s'adorava Pan, Napoli di Romania, Zante, di nuovo Corfù. Movimenti di cui il G. non intende gran che il senso, a meno che non si tratti di far "legne" oppure non sia esplicito l'ordine di muoversi da Corfù per "sigurare", per far da scorta, alle galee provenienti da Beirut. Ma gli preme di più, una volta a Creta, ricordarsi che vi è nato Giove, che vi regnò Minosse, mentre l'impressiona la gran "abundantia" di vini e formaggi. L'accompagna lungo il viaggio un esiguo bagaglio di cose lette, di cose sentite, di reminiscenze. E quando può le tira fuori, ne fa sfoggio se non altro con se stesso: sicché, nei pressi di Rodi, gli viene in mente che un tempo "chiamavasi Ophinisa, dopo Stadia et Thelechine et anche Colosais, ali quali" - aggiunge - "Paulo apostolo" scriveva, appunto, le proprie epistole ad Colocenses; sicché, a Cipro, eccolo recitare che, al tempo degli dei "busardi", vi è nata Venere. Forse per questo le donne vi sono facili, "putane" e, come afferma "Iustino", dedite alla "luxuria", a tempo pieno "lascive".
Ma quando, l'11 novembre, si scatena nottetempo la tempesta - tuoni, lampi, fulmini, grandine - e la nave, sballottata da onde gigantesche, rischia di infrangersi sui "nodosi scogli" di Tripolizza, il G. si scorda di Giove tonitruante. Atterrito, è alla "misericordia de Dio" che si aggrappa; e questa si manifesta soccorrevole tramite "santo Antonio", il cui "foco miraculoso" appare a poppa, "lume" di speranza. E la navigazione riprende con il "rubicondo sole", con il "mar quieto" e l'"aere stellato". Allora il G. torna a rovistare nella sua bisaccia di nomi dei pagani, estraendone Proserpina e Plutone. A Pafo cita Virgilio e Petrarca, quello del canto III del Trionfo d'amore. Quando può, il G. esibisce letture - è probabile che i versi di sua fattura e le citazioni siano aggiunte sue posteriori a infiorettare gli altrimenti scarni appunti diaristici - senza, nel contempo, desistere da goffi tentativi di prosa preziosa. La nave esce al mattino da Stampalia, all'inizio del 1512: il G. convoca l'aurora che rosseggiante scaccia le stelle, il gallo "cristato" che saluta il giorno. Toccata Cefalonia, approdata la galea nella città di Circe, il 18 gennaio, nella chiesa di S. Maria, il G. battezza un ragazzetto arabo, una "puta" turca, una bambina "mora"; "schiavo" il ragazzetto, "comprate" a Rodi le due bambine: non pare il battesimo liberi i tre. Ma dopo il pattugliamento e la scorta della galea nell'arcipelago in Levante, le operazioni si svolgono a Occidente. Così il G. può annotare che Otranto abbonda di grano e limoni, di meloni e peperoni, che Gallipoli è "città bella et amorosa", che a Monopoli vi è penuria di acqua, che a Brindisi l'aria è malsana, che a Bari, nella cattedrale, ove i canonici sono 42 e i preti e cappellani almeno 100, il corpo di s. Nicola emana miracoloso "licor". Ben governata la città da Isabella d'Aragona. Poi Molfetta: qui la messa e poi la degustazione di pollame e frutta. Intanto a palazzo ducale - come informano i Diarii sanutiani in data 3 luglio - i savi del Collegio decidono che le "galee nostre" (quella di Barbarigo, quella di Pietro Bollani e di Francesco Contarini) "vadino" a Genova "a obedientia dil papa". Donde la Sicilia - "a Siculo Neptunii filio", etimologizza il G., rinviando poi a Giustino e a Plinio -, con Messina e di qui Napoli festosa e piena di vita, con "done bellissime" si entusiasma il Grassetto. Ma ancor più affascinanti - una volta in Liguria, dove Genova risulta "città clarissima", superiore di gran lunga a tutte le altre "città maritime" italiane, seconda solo a Venezia - le donne di Savona. Nei pressi di questa avviene l'incontro in una verdeggiante vallicella - evidente qui il ricalco della cornice del Decameron- con un tentante gruppo di "nymphe canterine". Fra queste la più seducente è Violantina: ammaliato, il G. è soprattutto a lei che guarda "cum luxurioso ochio", fissandola con "ardente desio". Peccato non finisca qui, nella valletta, il viaggio del cappellano di bordo, tenuto, invece, a condividere i movimenti della galea. Questa più che tanto non può sostare. Lasciata Genova all'inizio di dicembre, per Pisa, disceso il Tirreno sino a Lipari - il G. ne approfitta per una digressione sui fenomeni vulcanici -, nel gennaio 1513 oltrepassato lo stretto di Messina, la galea è a Corfù, donde, nel maggio, circa, ritorna a Venezia. E con giugno si interrompe bruscamente il testo del G., poiché mancano le ultime pagine del manoscritto sul quale poggia l'edizione, già di Giovan Vincenzo Pinelli e ora alla Biblioteca Ambrosiana di Milano (collocazione F.11 superiore).
E, a questo punto, sparisce pure il G., di cui restano ignoti data e luogo di morte.
è invece possibile, sulla scorta dei Diarii di Sanuto, seguire la successiva vicenda della "galea bastarda" comandata da Bragadin: nell'agosto del 1513 è a Zante a "levar li stratioti"; nel gennaio del 1514 è a Chioggia, donde si porta a Venezia "a disarmar". Desumibile dalla medesima fonte che Marco Bragadin sarà senatore, provveditore alle pompe, provveditore sopra camere. Morrà nel 1528. Tra i suoi figli, avuti da Adriana di Giovanni Bembo, riscontrabile il Marcantonio eroico difensore di Famagosta. Da non escludere, a ogni modo, sia stato il sopracomito Bragadin a incaricare in prima battuta il G. di tenere una sorta di scarno giornale di bordo che, letterariamente rimaneggiato e magari posteriormente, è diventato la Navigation facta per mi, il G., con la galia bastarda di Bragadin; così il titolo voluto dal G. che si allunga con "et questo viazo stato per Dalmatia, Gretia, Soria et Puglia, Calabria, insule Aeolidi, tra Scyla et Charibdim, Terra de Lavoro, Campania, Parthenope, Etruria, Latium, Mare thirenicum, ligusticum, hispanum et altre cose, quale intro si contiene".
Non viaggio di esplorazione quello della galea sulla quale il G. è imbarcato, ma andirivieni, da sola o con altre unità, di ispezione, di pattugliamento, di scorta, di ricognizione coincidente con la guerra di rimonta che la Repubblica, già atterrata ad Agnadello, sta sostenendo. L'impressione desumibile dal resoconto del G. è che Venezia, se in terra minacciata, in mare continua a reggere. E se il G. ha delle paure, queste derivano dal tempo; non si avverte, in lui, apprensione per minacce nemiche. Non per questo è ignaro di quel che sta succedendo in Terraferma - Andrea Gritti fatto prigioniero, poi il recupero di Brescia -, mentre l'esultanza con cui apprende la morte di Giulio II, d'Italia "flagello", "pontifice di guai", esprime un'adesione genuina alle ragioni della Serenissima. Quanto alla veste sacerdotale che indossa, lo attraggono troppo i vini e i cibi, lo attira troppo la bellezza muliebre perché si avverta una vocazione religiosa fortemente motivata. Riscontrabile semmai in questo singolare cappellano un violento malanimo antifratesco che schizza fuori ogniqualvolta, lungo il viaggio, incontra "zocholanti" o "cordolieri". Da un lato il G. è allergico a pratiche ascetiche, dall'altro gli paiono più ostentate che vissute, più ipocrita finzione che impegno effettivo. Sensibile ai paesaggi naturali, attento alle configurazioni urbane, alle attività, ai prodotti, nuoce alla resa descrittiva un'evidente ambizione letteraria, la complica un'incontinente esibizione citatoria, l'appesantisce il superfluo dello sfoggio erudito. Spruzzato di cultura umanistica, il G. non si astiene dal cogliere ogni pretesto per convocarla. Infarinato di mitologia, il G. l'adopera come una tastiera sempre disponibile. Non certo ferrato, approfondito, solido l'umanesimo del Grassetto. È fatto di orecchiamenti, di rimasticature, si risolve in ingenui pavoneggiamenti, in goffa e maldestra saccenteria. È però sincera la sua venerazione dell'antico, fermissima la sua convinzione che nell'antichità si sia realizzata l'eccellenza umana. Solo gli antichi capaci di autentico sapere, di comprensione disinteressata, di conoscenza paga soltanto del "premio" di "giovare" alla posterità. Una nobilissima "scientia" l'antica, irriscontrabile nel mondo al G. contemporaneo, nel quale "benché infinita moltitudine navichi […], nientedimeno non per imparare, ma per guadagnare navicano", con "cieca mente", non aperta. Senza volerlo, inconsapevolmente, il G., nel suo indiscriminato innamoramento per l'antico, destituisce di ogni dignità la vicenda trafficante della Venezia marinara, non coglie la portata cognitiva della pratica della mercatura.
Fonti e Bibl.: G. Soranzo, Bibliografia veneziana…, Venezia 1885, nn. 2990, 7911; P. Donazzolo, I viaggiatori veneti minori…, Roma 1929, pp. 76-78; D. Iliadou, La Crète sous la domination vénitienne…, in Studi veneziani, XV (1973), pp. 451-584, ad ind.; E. Franzina, Vicenza…, Vicenza 1980, ad ind.; Storia della cultura veneta, III, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, 2, Vicenza 1980-81, pp. 433, 460-463; E. Mazzadi, Lonigo nella storia, Lonigo 1989, pp. 783-787, 864; L. Rancan, Scrittori leoniceni…, Lonigo 1993, pp. 48 s.; G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle Biblioteche d'Italia, II, p. 93; P.O. Kristeller, Iter Italicum, Index I-VI, ad nomen.