GRASSI, Francesco
Nacque a Genova, intorno al 1750, da Giovan Battista. Mancano notizie su di lui fino al momento in cui si trasferì a Torino (circa 1780), dove intraprese la carriera di professore di retorica e umanità nelle scuole secondarie. Nel luglio 1782 fu chiamato dal viceintendente di Torino, conte A. Ferrero Ponziglione, a far parte dell'appena fondata Patria Società letteraria, che per un decennio sarebbe stata la principale accademia letteraria della capitale sabauda. Fino al settembre il G. prese regolarmente parte alle riunioni, leggendo diversi poemi; all'inizio dell'ottobre 1782, però, si dimise dall'incarico di professore, lasciò Torino e si recò a Londra, portando con sé una lettera di raccomandazione del 26 settembre del conte J.-F. Perret d'Hauteville, primo segretario della segreteria di Stato agli Affari esteri, a V.-A. Sallier de la Tour marchese di Cordon, ambasciatore sabaudo in Inghilterra. Perret vi aveva scritto che il G., non soddisfatto dello stipendio di insegnante, aveva ottenuto da Vittorio Amedeo III di trasferirsi in Inghilterra "pour y exercer la profession de maitre de langue". Non è noto se durante la permanenza in Inghilterra egli incontrasse il piemontese più famoso vivente allora a Londra, G. Baretti. Vale la pena ricordare che il 9 maggio 1783 Baretti, scrivendo al conte F. Carcano, ironizzò sul "troppo numero degl'italiani" che, col miraggio di far fortuna come maestri di lingua, si trasferivano nella capitale inglese "più a morire anziché a vivere". Sorte non diversa ebbe il G. che, nonostante l'aiuto del marchese di Cordon, nell'autunno 1784 fu costretto a tornare a Torino. Dal 1784 al 1790 fu uno dei più assidui membri della Patria Società letteraria, presenziando a quasi tutte le riunioni. Il 4 nov. 1784 vi lesse una dissertazione sull'organizzazione delle accademie letterarie in Inghilterra, seguita nel marzo 1785 da una "cicalata sopra i club inglesi". Nel dicembre dello stesso anno fu la volta del Saggio sopra le lingue ed i dialetti.
Il saggio, una delle prime e più esplicite riflessioni sul problema della lingua in Piemonte, si basava sulla considerazione politica che i popoli che parlano un dialetto sono da considerare privi d'un "carattere nazionale". Per creare, quindi, una nazione piemontese era necessario sostituire il "barbaro" dialetto con una lingua "fiorita e colta". Poiché i popoli che aspirano a ingrandirsi devono avere una lingua e il Piemonte non poteva che guardare all'Italia per il suo futuro politico, la lingua da adottare doveva essere l'italiano, ed era quindi necessario che il ceto elevato abbandonasse l'uso del francese. Il G., anzi, non esitò a polemizzare con la corte (quindi con lo stesso Vittorio Amedeo III) per il suo uso del francese: sovrano e nobili avrebbero dovuto parlare italiano affinché, per l'influenza della corte sul popolo, questo fosse adottato come lingua anche nel parlare quotidiano. Già nel testo letto nel 1784 il G. aveva usato espressioni abbastanza forti e dirette contro l'uso del francese da parte della nobiltà: ciò suscitò un dibattito nella Società, che accettò di pubblicare il suo saggio a patto che il G. lo depurasse delle espressioni più dure, a prova di quanto scabroso potesse apparire il tema in uno Stato per sua struttura bilingue. Egli accettò di tagliare alcune parti e il Saggio fu pubblicato nel 1787 a Torino nel secondo volume degli Ozi letterari, raccolta di poesie e prose dei membri della Società.
In questo periodo il G., come uno dei soci più attivi e organici, fu incaricato insieme con il conte Prospero Balbo e Ferrero Ponziglione di compilare gli statuti. Nel luglio 1785 iniziò a leggere nella Società lo Spettatore piemontese, un giornale che aveva ideato sul modello dello Spectator di J. Addison. Si trattava al momento d'una sorta d'esperimento, perché il giornale era manoscritto e, a quanto è dato sapere, circolava solo entro la Società. Dopo un anno, però, il G., ottenute le necessarie autorizzazioni, decise di renderlo pubblico, mutando il titolo in Spettatore italiano-piemontese. Il primo numero uscì, per i tipi di Briolo, il 15 maggio 1786.
Lo Spettatore apparve, con periodicità settimanale, per circa un anno, sino all'aprile 1787. L'impresa non fu da poco, se si considera che gli articoli erano tutti scritti dal G. e così anche le lettere che, sotto nomi fittizi, si fingevano inviate alla redazione: una struttura che ricorda il più illustre precedente della barettiana Frusta letteraria. A differenza di questa, però, nello Spettatore erano pressoché assenti i toni sarcastici e polemici: qualche garbata allusione a protagonisti della scena culturale torinese era velata dietro pseudonimi assai difficilmente decifrabili. Quasi tutti gli articoli trattavano questioni letterarie e linguistiche: alla difesa della lingua italiana si accompagnava una moderata (e non priva di distinzioni) difesa del teatro di Metastasio. A questo proposito va ricordato l'interessante Piano di riforma pe' teatri d'Italia (17 luglio 1786), che proponeva di instaurare in ogni grande città italiana compagnie stabili di attori e cantanti ("comici" e "musici"), operanti in un teatro capace di ospitare rappresentazioni di tutti i generi, purché rispondenti a un determinato livello qualitativo. Nel 1786, in un dibattito con V. Marenco, il G. sviluppò sulla metrica tesi che, nel giudizio di C. Calcaterra, anticiparono certe soluzioni carducciane nelle Odi barbare. Recensioni e commenti a opere inglesi confermavano l'anglomania del G., attestata anche dalla scelta di dedicare il primo numero dello Spettatore a C.B. Perrone di San Martino, segretario di Stato agli Esteri, già ambasciatore sabaudo a Londra e noto anglofilo.
Pur senza un esplicito riconoscimento, il periodico divenne l'organo ufficiale della Società. Ciò nonostante, già nella primavera del 1787 fu chiaro che esso non otteneva il successo sperato e che il G. sarebbe stato costretto a sospenderne la pubblicazione. Fu allora che il Balbo, suo amico e sostenitore (e anch'egli fervido anglofilo), gli propose a nome della Società di acquistare lo Spettatore. In un primo momento il G. acconsentì, ma le sue resistenze a essere affiancato da altri nella direzione condussero alla definitiva chiusura. La Società, in realtà, aveva già trovato un nuovo e più valido organo nella Biblioteca oltremontana, fondata all'inizio del 1787 da alcuni soci, fra cui il conte G.F.F. San Martino della Motta. Anche il G. vi collaborò per diversi anni con articoli e recensioni, fra cui va ricordata almeno quella all'opuscolo Colpo d'occhio sullo stato attuale del governo inglese (Londra 1788), in cui la sua tradizionale anglofilia sembra assumere toni più moderati, pur persistendo l'ammirazione per il sistema istituzionale britannico. L'anglofilia è alla base dei sonetti letti nella Società all'inizio del 1790, coi quali il G. sembrò partecipare all'involuzione antifrancese e antirivoluzionaria di molti membri dell'accademia. Nello stesso 1790 pubblicò la tragedia Rosmonda, tentativo di fondere la tradizione del teatro greco con quella elisabettiana (pochi anni prima aveva letto nella Società una dissertazione sull'Amleto, e su Shakespeare sarebbe tornato in seguito), che poteva esser letta come una polemica contro l'omonima tragedia dell'Alfieri. L'opera fu però accolta freddamente dalla stessa Biblioteca oltremontana e l'insuccesso non fu forse estraneo alla decisione del G. di allontanarsi dalla Società. Dal 10 marzo 1791 al 20 marzo 1794, infatti, disertò le riunioni, ricomparendo episodicamente solo nella primavera del 1794.
Dal 1791 il G. scomparve dalla scena culturale torinese per circa un decennio. Vi fece ritorno nel gennaio 1801, quando, in un Piemonte ormai occupato dalle truppe francesi, fu chiamato a far parte dell'allora costituita classe di scienze morali dell'Accademia della scienze di Torino. Fra 1801 e 1806 ne fu uno dei soci più attivi, anche se quasi tutte le sue pubblicazioni avvennero al di fuori delle Memorie accademiche.
Nel marzo 1801 il G. vi lesse un Discorso accademico sopra la presupposta unione del Piemonte alla Francia, considerata secondo i rapporti di sicurezza, arti, commercio e letteratura. Tesi dell'opera era che, poiché l'annessione era inevitabile, gli intellettuali piemontesi avrebbero dovuto dimostrarsi "ad un tempo stesso e italiani e francesi", cercando di svolgere un ruolo di mediazione fra le due nazioni. Ma era all'Italia che egli sembrava soprattutto guardare. "Tenere l'istoria nazionale ed i pubblici fasti in maniera che il fuoco di libertà degli antenati si riaccenda intiero nei posteri" e "conservare la purezza della lingua": questi alcuni dei compiti che il G. conferiva all'Accademia (e con essa al Piemonte), in modo da dare all'Italia le opere di cui avrebbe avuto bisogno per realizzare compiutamente la propria rivoluzione. Il Discorso, che in un'apparente ingenuità si prestava a un'interpretazione non in linea con la politica del governo, fu al centro d'un lungo dibattito da parte degli accademici, che si rifiutarono di pubblicarlo nelle Memorie. Il G. decise allora di pubblicarlo a proprie spese (Voti poetici e discorso accademico del cittadino Francesco Grassi, Torino anno IX [1800-01]), così come fece, nel luglio 1802, con il poema La ragione nella adolescenza, virilità e vecchiezza (ibid. anno X), che s'inserì nel dibattito sull'educazione repubblicana. L'11 dic. 1802 il G. fu nominato bibliotecario aggiunto dell'Accademia, con pieno controllo sulla scelta dei libri da acquistare, e il 14 genn. 1804 segretario della classe di scienze morali. Fra le opere di questi anni vanno ricordati almeno il poemetto Sul galvanismo (1803), i Saggi di poesia metrica italiana (1804, 1806) e, soprattutto, la Grammatica comparativa d'ambo le lingue italiana e francese… (Torino 1806, spesso citata come Nuovo Goudar, ossia Grammatica francese-italiana e italiana-francese: cfr. Marazzini), in cui compiva un paragone interessante e didatticamente efficace fra le due grammatiche.
Dal 1806 il ruolo del G. nell'Accademia delle scienze sembra essersi ridimensionato: in quell'anno, infatti, perse tutte le cariche che deteneva e da allora ogni sua richiesta di pubblicare nelle Memorie fu rifiutata (con una sola eccezione, un breve poema in onore di C. Saluzzo, nel 1813).
Da allora si dedicò quasi esclusivamente a comporre versi latini. Nel 1814, quando Vittorio Emanuele I tornò in possesso del Piemonte e l'Accademia tornò alla situazione del 1799, il G. ne fu escluso. Cercò allora d'ingraziarsi il nuovo governo pubblicando poemi encomiastici, fra cui l'apostrofe alcaica Ad Genuam (ibid. 1815), in occasione dell'annessione della città allo Stato sabaudo. Ciò però non gli fu d'aiuto e quando, nel 1816, il sovrano accettò di far rinascere la classe di scienze morali, egli non vi fu richiamato perché considerato compromesso con i Francesi. Ciò nonostante, fra 1816 e 1818 fu più volte invitato dai colleghi d'un tempo a leggere sue poesie latine nelle sessioni dell'Accademia. Nel 1816, poi, il segretario di Stato agli Esteri, probabilmente su suggerimento del Balbo, lo incaricò di redigere una memoria Sulla condizione dei cattolici d'Inghilterra e d'Irlanda dal 1531 al 1813 (Arch. di Stato di Torino, Corte, Carte politiche diverse, m. 7, f. 56).
Povero e malato, il 22 sett. 1818 il G. fece testamento, lasciando i pochi beni alla domestica. Morì a Torino, dopo breve tempo.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Corte, Materie politiche in rapporto agli esteri, Lettere ministri, Inghilterra, mm. 85-86; Ibid., Sezioni riunite, Insinuazione di Torino, 1818, l. 9, cc. 2000r-2001r; Torino, Biblioteca dell'Accademia delle scienze, Verbali della Classe di scienze morali, regg. 1-3; Ibid., Mss., 221: Poesie presentate alla R. Accademia delle scienze (1816-18); T. Vallauri, Storia della poesia in Piemonte, Torino 1841, II, pp. 384-386; C. Calcaterra, Il nostro imminente Risorgimento, Torino 1935, pp. 54, 104, 186, 228, 327, 447, 456, 488, 497 s., 501, 512, 516 s., 573, 595; Id., I Filopatridi, Torino 1941, p. 17; Id., Le adunanze della Patria Società letteraria, Torino 1943, passim; Id., Ideologismo e italianità nella trasformazione linguistica della seconda metà del Settecento: ricerche nuove, Bologna 1946, ad ind.; Storia del teatro Regio di Torino, II, A. Basso, Il teatro della città. Dal 1788 al 1936, Torino 1976, pp. 5, 7 s.; C. Marazzini, Piemonte e Italia. Storia di un confronto linguistico, Torino 1984, pp. 118-122, 132 s., 141; G.L. Beccaria, Intellettuali, accademie e "questione della lingua" in Piemonte fra Sette e Ottocento, in I due primi secoli della Accademia delle scienze di Torino. Realtà accademica piemontese dal Settecento allo Stato preunitario, Torino 1985, pp. 136, 141, 152, 159; G.P. Romagnani, P. Balbo. Intellettuale e uomo di Stato, Torino 1988-90, I, pp. 23, 27, 55, 57-60, 62; II, pp. 36 s., 290; G. Ricuperati, Accademie, periodici ed enciclopedismo nel Piemonte di fine Settecento, in Id., I volti della pubblica felicità. Storiografia e politica nel Piemonte settecentesco, Torino 1989, pp. 220-222; L. Braida, Le guide del tempo. Produzione, contenuti e forme degli almanacchi piemontesi nel Settecento, Torino 1989, p. 229; B. Maffiodo, I borghesi taumaturghi. Medici, cultura scientifica e società in Piemonte fra crisi dell'antico regime ed età napoleonica, Firenze 1996, p. 73; A. Merlotti, "Stranieri al Piemonte": i valdesi nella storiografia piemontese dell'Ottocento, in La Bibbia, la coccarda e il tricolore. I valdesi fra due emancipazioni, 1798-1848, a cura di G.P. Romagnani, Torino 2001, pp. 458 s.