Francesco Guicciardini: Opere - Introduzione
Francesco Guicciardini nacque a Firenze nel 1483 da Piero Guicciardini, confilosofo ficiniano; e dal «primo filosofo platonico che fossi a quegli tempi nel mondo» - come scrive egli stesso non senza una punta di soddisfazione nelle Ricordanze - , dal divino Marsilio fu tenuto a battesimo. E della sua famiglia, «stata sempre, massime per stato ..., delle prime famiglie della città», egli ebbe sempre, tutta la sua vita, un orgoglio giusto e senza iattanza, un senso quasi religioso, come di chi sente la memoria degli antenati quasi retaggio severo, obbligante al dovere e all'onore, ad una vita spesa nell'operosa e costante costruzione di qualcosa che quel retaggio accrescesse, e mandasse accresciuto per l'orgoglio dei posteri. Tanto si può sentire nella vita tutta del Guicciardini: a lui scrisse un ignoto Giovanni che l'animo e i costumi suoi potevano testimoniare la verità di un sogno, che mai Francesco era stato giovane, ma che aveva saltato quel grado e quell'esperienza per attingere precocemente una maturità di pensieri e di vita rara in un uomo della sua età. E il Guicciardini di questo sembra quasi vantarsi, dove ricorda di una sua esperienza di studente di diritto a Ferrara: l'ingente somma che Piero, intimorito delle vicende interne di Firenze, gli aveva dato da custodire, il giovane non andò in giro a spenderla in bevute e bagordi, ma conservò attentamente, e ne rendè diligente conto.
Francesco, che aveva studiato a Ferrara e a Padova, si addottorò il 1505 e tornò subito a Firenze per iniziare una fortunata carriera di avvocato: ma tra le pandette l'ambizione del giovane doveva essere assai male frenata se è vero che i contemporanei lo chiamavano celiando Alcibiade. E certamente la vocazione non era di muffir tra le cause, se il ragazzo che aveva pensato, pur senza vocazione, di subentrare nei benefici ecclesiastici dello zio Rinieri con la speranza di farsi grande nella Chiesa, divenuto adulto procurò a se stesso, contro l'autorità del padre, il matrimonio con Maria Salviati. Matrimonio politico, perché i Salviati «di parentadi, ricchezza, benivolenzia e riputazione avanzavano ogni cittadino privato che fussi in Firenze» e il giovane avvocato si sentiva assai volto a queste cose. Matrimonio pericoloso anche, che nel pieno del gonfalonierato di Pier Soderini sposar la figlia di Alamanno Salviati, nemico del gonfaloniere, imparentarsi con una famiglia continuamente travagliantesi nelle cose pubbliche, era già mettersi in evidenza, farsi notare dagli uomini al potere, e non precisamente come loro amico. Ma il 1508 il matrimonio si celebrò, e nello stesso anno il Guicciardini cominciò a scrivere la sua prima opera, quella che il primo editore chiamò le Storie fiorentine.
A Firenze, dopo la fuga o espulsione di Piero de' Medici, il governo moderato degli uomini da bene era stato ben presto soppiantato dal governo popolare: portato dalla logica stessa degli avvenimenti ad un atteggiamento antitirannico e scopertamente democratico, il governo moderato non poteva resistere all'usura della posizione di governo, alla pressione sempre crescente, e complicantesi di motivi non precisamente politici mercé la predicazione del Savonarola, del partito più popolare. E d'altro canto, fallito il tentativo moderato, resasi impossibile, anche per l'atteggiamento di Piero, una restaurazione medicea, non restava che una sola alternativa di governo, quella popolare. Di qui il partito popolare sembrava trarre le ragioni del suo mantenersi al potere; qui era la sua forza e, diciamo pure, la sua più grave debolezza. Perché in questa situazione di equilibrio forzato e necessariamente instabile, dove la classe di governo non aveva dietro sé una classe politica omogenea e consapevole, né aveva essa stessa un programma politico che andasse più lontano di un generico democraticismo, in un momento in cui gli avvenimenti esterni alla città parevano assumer le tinte apocalittiche della rovina generale dell'Italia, bastava anche il più leggiero spostamento di forze, perché l'equilibrio si scomponesse e tutto andasse in aria. Questo spostamento sembrò che si creasse appunto nel 1508 con l'improvvisa popolarità del cardinale de' Medici: il successo della nuova propaganda medicea si inseriva nella situazione che abbiamo detta, scontava a suo favore la grave crisi economica e il cattivo andamento della politica estera fiorentina, segnatamente dell'impresa di Pisa, si avvantaggiava soprattutto dello scontento degli uomini da bene, i quali vedevan la città governata da incompetenti che noveravano le fave e non le pesavano. In realtà fu necessario un urto esterno, il sacco di Prato, perché il fatto nuovo si producesse: e tuttavia la nuova fortuna dei Medici sembrò dovesse provocare quel cedimento di opinione e al tempo stesso portar una ventata di nuova aria, offrire delle occasioni politiche ... In questa situazione il Guicciardini inizia la sua esercitazione: è necessario raccogliere i dati della situazione, fermare il punto (l'espressione è guicciardiniana), per esser pronti, per sapere operare. Ma l'occasione sembra svanire e l'opera gli si amplia tra le mani: le ragioni della sua azione futura si tramutano in quelle della crisi di Firenze, e nasce il più appassionato libro di critica politica che il Guicciardini abbia scritto.
Non è qui il caso di indugiare molto sull'atteggiarsi di questa critica, sul suo sviluppo coerente e spietato, la sua violenza polemica, la lontananza di questo libro dall'opera storiografica. Basti accennare che l'analisi si esercita così sul reggimento tirannico (in modo speciale contro Lorenzo e Piero de' Medici) come su quello popolare, mostrandoli simili nel risultato finale, la rovina della città. E allo scopo dell'autore non v'è argomento che non rechi aiuto: perfino il riconoscer la grandezza del Magnifico, di quello che è detto piuttosto padrone che buon cittadino, serve a sottolineare la sconsideratezza di un regime del tipo di quello instaurato da Lorenzo, che non ha argini da opporre al caso, ché se il dominio da un savio viene in un pazzo cade il tiranno e la città rovina. Le azioni di Lorenzo non trovano mai altra motivazione che quella di «assicurarsi lo stato»; quelle di Piero sono raccontate solamente, tanto esse rivelano da sole la natura «tirannesca ed altiera» dell'uomo, la sua totale incapacità politica. L'accanimento contro i Medici trova il suo riscontro in quello che si manifesta contro Pier Soderini, il simbolo della classe dirigente popolare, l'uomo più eminente di quel governo. La cattiva amministrazione della giustizia, il proceder cervellotico e avventato, l'imprudenza e la stoltezza, lo sciocco autoritarismo e la caparbia inconcludenza, sono le caratteristiche della politica di questo gonfaloniere, su cui grava l'epigramma famoso attribuito al corrosivo umorismo di Niccolò Machiavelli.
Ma mentre il pathos polemico si esercita contro il reggimento politico tirannico e quello popolare nel chiuso dello studio, e sembra attestare un'incoercibile vocazione all'azione politica che sogna di esprimersi nella costruzione dei «buoni ordini», Francesco Guicciardini è bruscamente sottratto ai suoi clienti e si trova di colpo nel pieno del gioco della politica europea.
Nel 1511, poco men che trentenne, egli è designato unico ambasciatore alla corte di Ferdinando il Cattolico. Il Guicciardini è incerto, gli pare avventato lasciare in tronco la sua brillante carriera di avvocato, ma l'autorità paterna, di quel padre ch'egli non doveva più rivedere in vita, vince ogni esitazione, lo induce ad accettar la carica che mai prima era stata data ad uomo della sua età. L'esperienza spagnuola allarga gli orizzonti oltre Firenze, oltre l'Italia: da essa nascerà quella Relazione di Spagna, così attenta e sapiente, accorta e profonda; il politico vedrà nel concreto dell'azione uno dei più grandi politici del suo tempo, lo vedrà da vicino e si sforzerà di valutare i moventi del suo agire, il peso di questo nella politica europea. Che cosa dovesse significare tutto ciò come sforzo, come tensione nervosa, può provare la pagina scorata di Francesco Guicciardini a se stesso, datata appunto dalla Spagna, ove affiora come una crisi religiosa. Perché il Guicciardini non fu l'ateo, l'uomo senza religione che si è creduto per molto tempo, e si può tracciare uno sviluppo della sua religiosità, nel quale certi motivi ancora medievali si accompagnano ad accesi toni savonaroliani e il problema della riforma dei costumi della Chiesa trova piena soddisfazione. Pure l'esperienza di Spagna non fu l'esperienza decisiva e conclusiva: in Spagna il Guicciardini comincia a scrivere l'ideale conclusione della sua prima opera: e il problema è sempre quello di Firenze.
Le Storie fiorentine contenevano la critica vigorosa e puntuale delle due opposte ed estreme forme di reggimento politico, la signoria di un solo e il governo dei molti; ma l'opera non era in sé compiuta, perché era necessario indicare quali fossero i «buoni ordini», il modo di instaurarli a Firenze. Così il Guicciardini comincia a scrivere il celebre «discorso di Logrogno»: Del modo di ordinare il governo popolare, quello a cui più tardi aggiunse la postilla: «in Spagna l'anno 1512 ed ero presso alla fine quando ebbi nuove che e' Medici erano entrati in Firenze». E tuttavia, pur mutato il governo popolare di cui si proponeva nel testo il nuovo ordine, lo scrittore non smette e va fino alla fine, e poi scrive un nuovo «discorso», Del governo di Firenze dopo la restaurazione de' Medici nel 1512. Delle due, l'una: o l'autore è un ambizioso senza scrupoli; oppure i due «discorsi» non sono in contrasto. E in effetti chi legga questi due testi e l'altro «discorso» del 1516 (Del modo di assicurare lo stato alla casa de' Medici) e finalmente il Dialogo del reggimento di Firenze (fine 1521 - inizio 1525) con mente sgombra da pregiudizi, si rende conto che in tutti i documenti c'è un coerente filo conduttore, una medesima ispirazione e finalmente uno stesso pensiero politico. Il Guicciardini ha compiuto una scelta: «... se già la necessità non mi costrignessi a biasimare manco quello di che s'ha più speranza potersi riordinare». Ma si badi che questa dichiarazione fatta nel proemio del Dialogo pel governo mediceo avrebbe avuto la medesima validità alcuni anni prima pel governo popolare. E nella scelta egli ha seguito la vocazione potente che aveva dettato la critica dei regimi politici, la costruzione dei «buoni ordini». È questo il motivo ispiratore di tutti i testi guicciardiniani sul problema del reggimento politico. Quel che interessa al Guicciardini non è tanto che vi sia in Firenze un governo popolare o una signoria medicea, un gonfaloniere a vita eletto dal popolo o uno qualsiasi della famiglia de' Medici, quanto che nella città si introduca un sistema che consenta di evitare i due regimi che la conducono alla sicura rovina, che segua i «buoni ordini». Ed il sistema delineato nel «discorso di Logrogno» si ripete nel n libro del Dialogo: sostituite alla figura del gonfaloniere a vita quella di un Medici e l'identità è perfetta. Nell'un testo come nell'altro chi veramente governa è il senato; l'altro, il «padrone» - «non dico che sia signore e che domini», sono ben le parole di Bernardo del Nero nel Dialogo -, assicura la durabilità, la continuità dello stato. Ma sul senato ricade il vero peso del governo, e questo è così incatenato con gli altri organi, che tutti si controllano a vicenda e non v'è prevalenza dell'uno sull'altro. La circolarità dei vari poteri è studiata con molta attenzione: il Guicciardini credè di aver trovato la formula del reggimento politico e la difese ancora quando si trattò di chiamar signore di Firenze Cosimo di Giovanni dalle Bande Nere, dopo l'uccisione del duca Alessandro; difese il suo sistema al punto di impazientire il buon Francesco Vettori, che gli ricordò la vanità di por limitazioni al potere di un principe quando si era stabilito di dare in sue mani l'esercito e le fortezze. In verità come nel ritener indifferente un gonfaloniere a vita o un Medici incideva un errore di valutazione politica che affondava le sue radici nella polemica antitirannica delle Storie fiorentine ed era una cosa con l'erroneo giudizio storico che il Guicciardini dava della signoria medicea; così nello spirito di sistema, nella trasvalutazione di una formula politica a categoria si rivelava quel potente limite ideologico che ci ha indotti a parlare altrove, e proprio a proposito del cosiddetto realista politico ad oltranza, di utopia. Tuttavia queste considerazioni non devono far perdere di vista la parte positiva della costruzione guicciardiniana. Il Guicciardini teorico del reggimento di Firenze rivela un pensiero politico che è andato, per sue vie, al di là del pensiero stesso del Machiavelli: egli avverte l'esigenza di una strutturazione istituzionale dello stato («né è altro la libertà che uno prevalere la legge ed ordini pubblici allo appetito degli uomini particolari»); la necessità che lo stato si articoli, per conservarsi, in istituzioni che superino la figura stessa del «principe»; che si fugga il pericolo di ammettere nelle cose pubbliche «più licenzia e manco ostacoli» e si conservi intatta l'intenzione del buon legislatore: «perché chi introdusse la libertà non ebbe per suo fine che ognuno si intromettessi nel governare, ma lo intento suo fu perché si conservassino le leggi ed el bene commune ...». Ma pur sentendo così fortemente l'arduo problema della struttura istituzionale, lo scrittore ha salda consapevolezza che queste istituzioni non esistono come dati immutabili fuori e sopra le forze politiche che le pongono in essere. Il limite ideologico, l'evasione nell’utopia della forma perfetta di reggimento faranno passare in seconda linea gran parte dell'originalità del pensiero politico guicciardiniano e indurranno a confusioni: quell'originalità di pensieri resta e non pare si possa affermare, come pure è stato fatto, che il Guicciardini fu «un uomo d'azione che non ebbe idee originali sulla formazione e sull'essenza dello stato». Non solo: ma i temi che si sono fuggevolmente accennati inducono a porre al centro della lotta politica l'uomo. La capacità creativa dell'uomo al centro della storia, dunque: il pensiero del Guicciardini si avvia alla meditazione storica.
Negli anni in cui queste idee maturavano, la carriera politica del Guicciardini si veniva pienamente dispiegando: governatore di Modena nel 1516, di Reggio nel 1517, di tutta la Romagna nel 1523, egli ha occasione di mostrare tutte le sue fortissime capacità di organizzatore e amministratore. Riporta l'ordine in terre che da anni non ne avevano quasi più memoria; instancabile e tenace ristabilisce l'amministrazione della giustizia, semplifica i processi, controlla tutto il personale, ripristina una sana politica fiscale, fa compilare dei piani catastali, compie degli importanti lavori pubblici. Dovunque passò - ha scritto uno studioso straniero della sua attività di amministratore degli stati della Chiesa - egli ebbe avversi i nobili di cui combatté sistematicamente i privilegi e represse le violenze, riconoscenti i deboli, di cui sollevò i carichi. Che fosse questa l'opinione anche del pontefice è prova il richiamo dal governo della Romagna nel 1526, per organizzare la lega contro Carlo V, la Lega di Cognac. Ma le vicende militari si svolgono rovinosamente pel pontefice: nel 1527 Roma è saccheggiata e al tempo stesso a Firenze i Medici vengono scacciati. È la crisi risolutiva di Francesco Guicciardini: non soltanto la sua crisi personale, l'oppressione e il dolore per l'odio di cui è fatto oggetto dai suoi concittadini, l'indignazione per le accuse ingiuste e terribili che gli vengono mosse; non soltanto il disagio materiale per le gravi tassazioni che gli sono imposte e per la successiva confisca dei beni. È una crisi assai più vasta e grave: lo sbigottimento per il fallimento non tanto del suo successo, quanto del suo sistema. E l'uomo fermo ed austero, sorvegliato e guardingo, si confessa: la Consolatoria, l'Accusatoria e la Defensoria svelano il volto dell'uomo sbigottito dal crollo. Colui che credeva di aver acquistato per sempre un disinteresse scientifico, che riteneva di aver operato pei «buoni ordini», si ritrova a un tratto lontano dall'azione, come svuotato e distrutto. E nasce il problema: perché la crisi di Firenze? perché questa condanna fatale che costringe la città ad oscillare tra i due estremismi? Così il politico che al termine dei suoi trattati sul reggimento si era trovato a concludere con l'uomo creatore di storia; che ancora in quei giorni veniva esercitando il suo acume di politico sui Discorsi del Machiavelli e impegnava col sommo concittadino quello strano dialogo in cui contrapponeva puntualmente alle ragioni politiche del segretario fiorentino le sue ragioni, fino a scrivere la pagina sulla decadenza di Roma (Considerazioni, III, 24) dove l'osservazione politica si fa meditazione storica; Francesco Guicciardini tenta il nuovo approdo col paracadute della storia. Inconfondibile segno di un mutato atteggiamento: perché sarà pur vero che la critica ai Discorsi del Machiavelli spezzando il mito della esemplarità dei Romani indica come la crisi dell'umanesimo; ma gioverà aggiungere che il rinvio ad una proposizione così generale è vano, ovvero non vorrà dire altro che la crisi si produce appunto nel rifiuto guicciardiniano del paradigma di Roma, prodotto appunto dalla ricerca nuova delle ragioni storiche che lo scrittore pone innanzi.
Le Cose fiorentine, recentemente pubblicate per la prima volta, consentono di aggiungere alla catena l'anello importante che mancava: l'opera in cui il politico chiedeva alla storia antica della sua città le ragioni della crisi di cui era attore appassionato e spettatore dolente, chiedeva risposta alle domande che prima ancora che nella mente erano nel suo cuore. E tuttavia, prima ancora che le rimutate sorti politiche lo chiamassero vicelegato di Bologna e poi consigliere del duca Alessandro, la trama stessa dell'opera, l'impostazione del lavoro non soddisfa lo scrittore. Si direbbe che egli avverta già che la crisi è più vasta e profonda, che Firenze è solo una parte del problema, che la sua storia è piccola storia. E gli avvenimenti posteriori di cui il Guicciardini è protagonista, quando l'opera è già abbandonata incompiuta, sembrano confermare quelle esitazioni e quei dubbi che si sono accennati, e che avevano indotto lo scrittore a metter da parte le sue pagine. A Napoli, quando difende innanzi a Carlo V il duca Alessandro contro i fuorusciti fiorentini, quel giudice straniero delle vicende interne della sua città dovè ben apparirgli come la personificazione di un nuovo secolo che si ergeva sulle rovine di un crollo totale, che abbracciava non solo Firenze ma l'Italia tutta. E più tardi l'intervento dello stesso Carlo nelle cose fiorentine dopo l'elezione di Cosimo non potè che riconfermare l'impressione desolante, la lezione di Napoli. Dal 1537 al 1540 la vita del Guicciardini ha un solo nome: si chiama la Storia d'Italia. Ma le prime stesure dell'opera, che iniziava con l'attuale libro XVI, datano dal 1535: che vuol dire che l'impostazione nuova si era venuta lentamente maturando anche nel mezzo dell'azione, non ultima certo la già ricordata difesa di Alessandro a Napoli. Non più storia di Firenze; ma storia della crisi italiana, dal suo inizio, da quel fatale, sciagurato anno 1494, che segnò l'ingresso di Carlo VIII nella penisola e al tempo stesso le sciagure italiane. Lenta maturazione di un problema, come si vede, che inizia nell'agio con degnità del 1528-30 e si compie nella solitudine di Arcetri, nel rinnovato ozio con degnità del 1537-40.
La storia di Firenze non basta a render ragione della crisi della città: la rovina di questa non è fatto isolato e a sé stante, ma trova il suo posto nella crisi più vasta di tutta la penisola. Il giudizio storico si articola, si fa più complesso: e tuttavia conosce ancora i suoi limiti. L'analisi guicciardiniana si muove tutta sulla falsariga di una spietata analisi degli errori, delle debolezze, delle incapacità, delle follie dei principi d'Italia: pure, proprio all'inizio della Storia d'Italia l'autore non mancherà di rilevare la portata europea della decisione di Carlo VIII: il rifiuto di Carlo del prudente atteggiamento di Luigi XI e il suo intervento in Italia spezza l'equilibrio europeo. La narrazione approfondisce via via i temi, ne offre di nuovi alla meditazione dello storico: la crisi italiana non appare più il problema della sola penisola, e il far la storia di essa è far storia europea: «Parrà alieno dal mio proposito, stato di non toccare le cose succedute fuora d'Italia, fare menzione di quel che l'anno medesimo si fece in Francia; ma la dependenza di quelle da queste, e perché a' successi dell'una erano congiunti molte volte le deliberazioni e i successi dell'altra, mi sforza a non le passare del tutto tacitamente.» Si metta a fronte l'indugiarsi dello scrittore sul caso di Paolo Vitelli nelle Storie fiorentine col fuggevole cenno della Storia d'Italia e si avrà chiara la sensazione di quanto apparisse ormai piccola allo storico la vicenda della sua città; si metta a fronte il parallelo di Cosimo e di Lorenzo de' Medici delle Storie fiorentine con quello di Leone X e di Clemente VII della Storia d'Italia e si vedrà come sia compiutamente mutato l'animo dell'autore, come egli sia lontano dalla polemica politica e preso interamente dallo sforzo di penetrazione storiografica.
Il vuoto di potenza che si verifica in Italia alla fine del '400 e le conseguenti contese tra francesi e spagnoli: ecco la nuova guisa in cui si viene atteggiando la più grande opera del Guicciardini. Il problema della crisi italiana come problema dell'assetto europeo è la nuova impostazione della problematica storica guicciardiniana. E la storia si svolge impassibile e tuttavia dolorosa fino alla morte di Clemente VII: con la scomparsa dell'ultimo principe italiano che avesse tentato una grande politica, il dramma si chiude.
Francesco Guicciardini fu colpito da apoplessia nel luglio del 1539: continuò, presago, a dettare con ansia febbrile in una angosciosa gara con la morte, e questa non giunse prima (1540) che lo storico avesse compiuto la sua opera, quella che farà dire a Jean Bodin, non tanti anni dopo: ipse historiae parens Guichardinus ...