Guicciardini, Francesco
Letterato e storico (Firenze 1483-Arcetri 1540). Intraprese gli studi di diritto canonico e civile a Firenze, che concluse nel 1505, divenendo, nello stesso anno, lettore di istituzioni di diritto civile e avviando l’anno successivo la carriera di avvocato. Dal 1512 al 1514 fu ambasciatore in Spagna presso Ferdinando il Cattolico; il soggiorno spagnolo ebbe un notevole influsso sul suo pensiero in quanto rappresentò la prima esperienza diretta della vita politica, in un grande Stato, pervenuto allora al massimo della sua forza. Tornato a Firenze ottenne cariche pubbliche: fu degli «Otto di balia» che avevano sostituito i Dieci, e, più tardi, priore e avvocato concistoriale. Divenne governatore di Modena (1516), grazie al favore di Leone X (Giovanni de’ Medici), e le sue attribuzioni furono successivamente estese su Reggio e su Parma; G. predispose provvedimenti volti a ristabilire l’ordine, la sicurezza e la prosperità in quei territori, devastati dalle ultime guerre e, fino a quel momento, abbandonati a sé stessi dall’autorità pontificia. Ma la sua opera di pace venne bruscamente interrotta, nel 1521, dal riaccendersi della guerra tra Carlo V e Leone X da una parte, e Francesco I di Francia dall’altra. Essendo teatro delle operazioni la Lombardia, Modena, Reggio e Parma divenivano piazze di capitale importanza militare: quando i francesi attaccarono Parma, diresse la difesa senza esitare, respingendo l’assalto. Nel 1524, in segno di riconoscimento delle doti di energia e fermezza dimostrate, ebbe la presidenza della Romagna; più tardi entrò in grande dimestichezza con Clemente VII (Giulio de’ Medici) presso il quale si recò a Roma (1526), in un momento critico per la politica di tutti gli Stati italiani per la incombente minaccia di Carlo V, assumendo sostanzialmente la direzione della politica estera della curia. G. concentrò la sua energia nell’esortare il papa, sempre irresoluto, a impegnarsi per la difesa dell’Italia. Il suo obiettivo era di promuovere un accordo tra Roma, Francia, Venezia, Inghilterra e cantoni svizzeri per una resistenza armata contro la Spagna, mirante alla restituzione del ducato di Milano allo Sforza. La desiderata lega fu conclusa a Cognac nel 1526 e come effetto Clemente VII nominò G. suo luogotenente generale. La caduta di Roma provocò a Firenze quella del regime mediceo. Gli eventi costrinsero G. a ritirarsi nella sua villa di Finocchieto, ma nel 1529 fu, come amico del papa, minacciato di arresto e, mentre era a Bologna dove doveva aver luogo la riconciliazione di Clemente VII e Carlo V, il governo fiorentino lo dichiarò ribelle e ordinò la confisca dei suoi beni. Ritiratosi a Roma, tornò a Firenze soltanto dopo la caduta della repubblica (24 settembre 1530). Tornati i Medici, fu ancora tra i sostenitori della famiglia e particolarmente del duca Alessandro, dopo la cui uccisione (1537) caldeggiò l’elezione di Cosimo, figlio di Giovanni dalle Bande Nere. Poi fu la fine dell’attività pubblica. Cosimo I si era deciso ad accettare le richieste imperiali, cioè sostanzialmente a cedere all’inviato di Carlo V le fortezze di Firenze, Pisa e Livorno: con ciò il partito degli antimperiali, alla cui testa stava proprio G., perdeva ogni influenza presso il nuovo duca. Caduto in disgrazia si ritirò nella sua villa di Arcetri, dove si dedicò, sino alla morte, alla compilazione della Storia d’Italia (in venti libri, 1537-40). Con quest’opera, per la prima volta nella storiografia italiana, l’intera vita della penisola era analizzata e raffigurata nella sua complessità: la politica di una singola città divenne semplice parte di un intreccio generale di eventi, i fatti del Napoletano o di Venezia vennero seguiti nelle loro ripercussioni a Firenze o a Milano e si intravedono, sia pure di scorcio, nella storia della penisola le ripercussioni dei fatti di altri Paesi. Ne uscirono quadri dalla prospettiva amplissima, come quello delle condizioni dell’Italia alla morte di Lorenzo de’ Medici, che costituisce come il prologo alla narrazione. Lucido e conseguente nella sua speculazione politica, G. è, nelle opere storiche, osservatore attento, pronto a cogliere anche i particolari degli avvenimenti, interprete e giudice dei fatti politici che guarda con estrema obiettività ma anche con una partecipazione umana che traspare nei suoi ritratti, vivaci interpretazioni di caratteri sullo sfondo di un avvenimento; G. non investe la sua materia delle sue passioni, non cerca di vederla alla luce di un suo ideale, accontentandosi invece di osservare le cose come si sono svolte, e di afferrare i segreti motivi delle azioni, con disincantata impassibilità. Convinto che sia impossibile dedurre regole assolute dallo svolgimento dei fatti storici passati e che sia inutile costruire ideali castelli che la realtà inevitabilmente distruggerà, G., contrapponendosi a N. Machiavelli, concepisce la storia come rotante intorno al «particolare», alla «discrezione» del singolo; questi deve badare alla realtà delle cose, senza spingere lo sguardo al futuro troppo remoto, pronto, se necessario, a stringere patti momentanei e ad accettare compromessi, adattandosi, quanto più possibile, ai fatti storici quali vanno svolgendosi, momento per momento, sotto i suoi occhi. Tra le sue opere, oltre alle Storie fiorentine (1509), che abbracciano il periodo 1378-1509, sono significativi i Ricordi politici e civili (cominciati prima del 1525 e scritti in due riprese), considerazioni e massime acutissime desunte dalla viva esperienza della vita e della storia, e che costituiscono lo specchio dell’ideale guicciardiniano; restano inoltre fondamentali il Dialogo del reggimento di Firenze in due libri (iniziato nel 1521 e terminato nel 1525) e le Considerazioni sui discorsi del Machiavelli (1529), in cui alcune conclusioni di Machiavelli sono discusse e analizzate con rigore logico (particolarmente la fede negli avvenimenti passati e nella storia di Roma). Del 1531 sono i Discorsi del modo di riformare lo stato dopo la caduta della repubblica e di assicurarlo al duca Alessandro. Degli scritti guicciardiniani soltanto la Storia d’Italia e i Ricordi furono pubblicati pochi anni dopo la sua morte; tutti gli altri videro la luce solo nella seconda metà del sec. 19°. Su G. pesò a lungo sfavorevolmente il giudizio limitativo di L. Ranke, e successivamente la polemica di F. De Sanctis, che, isolando artificiosamente i Ricordi dal resto dell’opera, identificò in G. l’italiano che si piega agli eventi per indulgere a un suo esasperato individualismo. A tale non giusto giudizio si è reagito negli anni successivi con un esame filologico e storico più sistematico, volto alla rivalutazione di tutto il suo pensiero storico e politico.