Guicciardini, Francesco
Francesco Guicciardini nacque a Firenze, il 6 marzo 1483, da importante famiglia fiorentina. Dottore in legge nel 1505, nel 1511 fu ambasciatore in Spagna. Tornato a Firenze all’inizio del 1514, nel 1516 venne nominato da papa Leone X (Giovanni di Lorenzo de’ Medici) governatore di Modena. Nel 1521 fu commissario generale dell’esercito pontificio, alleato con l’imperatore Carlo V contro Francesco I re di Francia. Quando, dopo la morte di Leone X e il breve pontificato di Adriano VI, nel novembre 1523 divenne papa, col nome di Clemente VII, Giulio de’ Medici, a Guicciardini fu affidata la presidenza della Romagna. Dopo la sconfitta di Francesco I a Pavia (24 febbraio 1525) Clemente VII, di fronte alla prospettiva di un dominio incontrastato di Carlo V, aderì allo schieramento antimperiale comprendente Francia e stati italiani (lega di Cognac, 22 maggio 1526); Guicciardini fu allora nominato luogotenente dell’esercito papale. In seguito alla spedizione in Italia di Carlo V, conclusasi col Sacco di Roma (6 maggio 1527), Firenze si ribellò ai Medici. Guicciardini vi ritornò ma venne accusato di concussione e si ritirò nelle sue residenze di campagna. Il 29 giugno 1529 Clemente VII stipulò con Carlo V un trattato che prevedeva anche il ritorno dei Medici a Firenze. Guicciardini si riunì col papa e nel dicembre il governo fiorentino, ormai sotto l’assedio delle truppe imperiali, lo accusò di attività antirepubblicane e lo condannò in contumacia. Firenze capitolò il 12 agosto 1530 e a «riformarla» fu inviato Guicciardini (24 settembre 1530-20 giugno 1531), che passò poi a governare Bologna mentre a Firenze s’insediò, come duca, Alessandro de’ Medici. Morto Clemente VII (25 settembre 1534), papa Paolo III nominò un altro governatore di Bologna e Guicciardini rientrò a Firenze. Dopo l’uccisione di Alessandro (6 gennaio 1537), il ducato passò a Cosimo de’ Medici. Guicciardini, emarginato, si ritirò a vita privata e morì il 21 maggio 1540.
Diplomatico, uomo di governo e comandante militare, Guicciardini non pubblicò in vita nessuna opera. La Historia di Italia fu edita a Firenze nel 1561 (primi sedici libri) da Lorenzo Torrentino e quindi nel 1564 (restanti quattro libri) dal Giolito di Venezia: queste stampe sono però caratterizzate da ammodernamenti grafico-linguistici e da interventi censori. Data la fama internazionale dell’autore, della Storia d’Italia si fecero rapidamente compendi e traduzioni nelle principali lingue europee; anche l’opera oggi nota come Ricordi uscì, variamente intitolata, a Parigi (Morello 1576: Consigli e avvertimenti), Venezia (Bertano 1578: Concetti politici), Anversa (1585: Precetti e sententie), ecc.
I suoi testi più significativi furono stesi in periodi di minore impegno politico, dato che, come egli stesso dice a proposito dei «ghiribizi» destinati a divenire i Ricordi, «benché l’otio non faccia ghiribizi, pure e ghiribizi non si fanno sanza otio» (Guicciardini 2009: XVII). Le Storie fiorentine, come le chiamò il primo editore Giuseppe Canestrini (1857-1867), furono iniziate nel 1508, quando l’autore aveva solo impegni professionali; al ritiro in villa tra il 1527 e il 1529 si associano le Cose fiorentine, così denominate nell’edizione di Roberto Ridolfi (Guicciardini 1945), e la revisione dei Ricordi, cui Guicciardini diede forma definitiva nel 1530, trovandosi a Roma dopo la condanna fiorentina; a questa fase risalgono le Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli. Secondo Ridolfi (1939) il primo nucleo della Storia d’Italia (attuali libri XVI-XVII) si colloca nel 1535, dopo la morte di Clemente VII. Il completamento dell’opera, che va dalla discesa in Italia di Carlo VIII (1494) alla morte di Clemente VII, fu la principale occupazione del Guicciardini dopo l’avvento al potere di Cosimo de’ Medici.
Rispetto all’opera di ➔ Niccolò Machiavelli, quella guicciardiniana, che include anche relazioni, orazioni, ambascerie e un vasto epistolario, è tutta legata alla sfera storica e politica, senza apparenti interessi per quella letteraria. In uno dei Ricordi (Guicciardini 1951: 191) Guicciardini rievoca anzi le beffe che si faceva da giovane «dello scrivere ancora bene», collocando questa attività tra il «sapere sonare, ballare, cantare» e il «sapere cavalcare» o il «vestire accomodato». Le stesse opere cui deve la celebrità venivano da lui definite «ghiribizi» (i primi Ricordi) o anche «cantafavola», come chiama la Storia d’Italia sottoponendola all’amico umanista Giovanni Corsi (Guicciardini 1919: LXXIII). Sotto questa apparente «sprezzatura» si coglie però un vigoroso ideale stilistico, animato da una «autentica ascesi della scrittura, praticata quotidianamente con un esercizio indefesso, incontentabile» (Cutinelli-Rendina 2009: 262) e nutrito da «un senso vivissimo del valore della parola, un gusto tutto suo dell’esattezza verbale» che fa di questo autore «un conoscitore raffinato delle sfumature del linguaggio» (Fubini 1948: 179). Questo ideale stilistico è realizzato con esiti di straordinario rilievo, tanto che nella Storia d’Italia si è vista «forse la prosa più grande che sia stata scritta in Italia» (Mengaldo 2001: 59) e anzi «un culmine di potenza linguistica paragonabile solo a quello raggiunto dalla poesia della Commedia» dantesca (Nencioni 1988: 236).
Sotto i profili grafico, fonetico e morfologico, Guicciardini condivide con Machiavelli (e con un più vasto ambito fiorentino: cfr. Pozzi 1975: 54) l’adesione alla norma fiorentina del Quattrocento e agli abiti grafici latineggianti diffusi nelle cancellerie, in opposizione alle scelte propugnate da ➔ Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua (1525). A quest’opera Guicciardini dedicò una specifica attenzione, traendone spogli e annotando le principali difformità tra i dettami di essa e il proprio uso scrittorio (cfr. Poggi Salani 1994: 442-447; Trovato 1994: 274-282). Uno di questi quesiti o appunti linguistici, ossia «Deliberato di scrivere vel Deliberato scrivere», rimanda al proemio della Storia d’Italia nella quinta redazione dell’opera, databile all’autunno 1538 (Ridolfi 1982: 424, nota 18), sicché queste note sono successive. Per la prassi scrittoria dell’autore un sicuro riferimento, sino al 1530, è l’edizione dei Ricordi curata da Spongano (Guicciardini 1951), cui si aggiunge lo studio di Moreno (1999) sul compendio delle Chroniques di Jean Froissart, copia del 1525 circa stesa sotto il controllo di Guicciardini e con suoi interventi autografi. Le edizioni novecentesche della Storia d’Italia presentano una veste grafica e fonomorfologica ammodernata, secondo una tendenza già della stampa del 1561: per l’ultima stesura dell’opera (oggi ms. Mediceo Palatino 166 della Biblioteca Laurenziana di Firenze = L), cfr. Rostagno (1919), il facsimile del ms. cit., c. 1r, nell’edizione di Lugnani Scarano (Guicciardini 1970-1981: vol. 2°, tav. 1) e le osservazioni di Trovato (1994) sulle correzioni redazionali precedenti la stampa.
Rispetto ai dubbi grafici («Se s’ha a usare la x o la ss doppia o semplice […] Exemplo, Extravagante», «se dove el latino ha el b e s, Observare e simili […] si scriva Osservare», «Prudentia, Temperantia, Scientia, Magnificentia e simili, se per z o per ti», ecc.), i Ricordi e il ms. L mostrano l’aderenza al modello grafico latino. In opposizione alle indicazioni bembiane a favore di loda, lode e Podesta, nei Ricordi sono normali laude, laudo ed è «costante potesta» (Guicciardini 1951: LXXXIII, CI). Sul piano morfologico sono conservate le innovazioni del fiorentino «argenteo» (Manni 1979), contro le quali il Bembo riproponeva i tratti del fiorentino aureo, poi fissatisi in generale nell’italiano moderno. Le principali alternative riguardano l’articolo determinativo maschile («Gli articuli se per E o per I: cioè il o el, i o e»), il plurale in -e anziché in -i di nomi e aggettivi della terza declinazione, come in le provisione, le cose ragionevole («Se [...] s’ha a finire in I sola, o può finire in I e E, come usa el latino») e varie forme verbali («Io amava, Faceva e simili, o Amavo, Facevo; cioè se finiscono in O o in A», «Cominciorono, Amorono e simili della prima, se per A o per O nella antepenultima», «Potrebbero o Potrebbono, e simili», «Fusse vel Fussi vel Fosse», ecc.). Su questi e altri punti gli studi sui Ricordi (Guicciardini 1951) e sul compendio del Froissart (Moreno 1999) mostrano la costante adesione all’uso vivo fiorentino, che complessivamente domina (Poggi Salani 1994; Trovato 1994) anche l’ultima stesura della Storia d’Italia.
Rispetto a questa continuità sul piano grafico, fonetico e morfologico, con la maturazione dell’opera guicciardiniana si limitano o eliminano tratti colloquiali, espressioni arieggianti il parlato e colorite metafore care all’ambiente cancelleresco fiorentino. Per es., come pronomi di terza persona soggetto, lui, lei, loro (invece di egli, elli, esso, essa, eglino, ecc.) sono costanti nei Ricordi (Guicciardini 1951: CXIV) e nel compendio del Froissart (Moreno 1999: LXIII), ma nel Dialogo del reggimento di Firenze, iniziato nel 1521, rielaborato e compiuto nel 1525, prima della lettura del Bembo, Guicciardini «sostituisce il lui con l’egli» (Fubini 1948: 174); questa evoluzione è ben percepibile nel confronto tra le giovanili Storie fiorentine e la Storia d’Italia (Boström 1972: 91). Le Storie fiorentine presentano metafore popolaresche come «dare del capo nel muro», «tenergli questo cocomero in corpo», «tenere e’ panni a chi voleva annegarsi», «uno osso in gola al papa [queste terre]» (Pozzi 1975: 59). La rielaborazione del Dialogo del reggimento di Firenze invece elimina simili espressioni colloquiali o gergali: da «comprendere di che acqua tu bea» si passa a «comprendere che inclinazione sia la tua», dal «re che era mastro di bottega» al «re dal quale dependevano alla fine le deliberazione», da «questi caperozzoli di fuora» a «questi tirannelli di fuora» (Fubini 1948: 175-176; cfr. Guicciardini 1932; Cutinelli-Rendina 2009: 269-274). L’autore elimina inoltre i latinismi del linguaggio giuridico e cancelleresco, mentre impiega voci latineggianti a fini di elevamento stilistico. Grazie a questi processi selettivi i Ricordi e la Storia d’Italia acquisiscono uniformità e compiutezza.
Un’evoluzione si riscontra anche nella tipologia del ➔ discorso riportato (Nencioni 1988: 179-192). Nelle Storie fiorentine sono rari i discorsi diretti e prevalgono le infinitive rette da disse ed esposizioni riassuntive. Nelle Cose fiorentine invece i discorsi diretti trovano molto spazio, mentre nella Storia d’Italia divengono più rari, sin quasi a scomparire negli ultimi quattro libri. Torna qui il discorso indiretto, con un discorso indiretto libero non grammaticalizzato secondo l’uso moderno ma caratterizzato da catene di infiniti e talora condizionali riferiti a sviluppi futuri, congiuntivi esortativi e imperfetti indicativi, come in questo brano della Storia d’Italia:
che farebbono, come corresse la fama per tutta Italia che il re con tanto esercito avesse passato i monti? […] in che sbigottimento si ridurrebbe il pontefice […], in che spavento Piero de’ Medici? […] Considerasse non essere più in potestà propria i consigli suoi; troppo oltre essere andate le cose […]. Strignerlo la necessità, quando bene la impresa fusse pericolosissima, a seguitarla; poi che tra la gloria e l’infamia, tra il vituperio e i trionfi […] non gli restava più mezzo alcuno. Che dunque dovere fare a una vittoria, a uno trionfo già preparato e manifesto? (Guicciardini 1970-1981: vol. 2°, 156-157).
Specie la Storia d’Italia, infine, è ammirata (o talora criticata, come nello Zibaldone di Leopardi, 1991: 1168) per le articolate e maestose costruzioni sintattiche, tese ad aderire alle complessità del pensiero rispetto a realtà ed eventi complessi. La funzione di certi costrutti è dunque sviluppata tanto da farne i vettori di particolari operazioni concettuali. Per es., le causali esplicite («i soliti perché guicciardiniani»; Fubini 1948: 184) indicano le condizioni fattuali, psicologiche e logiche degli eventi, talora in modo retrospettivo (Nencioni 1988: 208-209), mentre i costrutti di tipo concessivo esprimono «il compiacimento di capovolgere giudizi che potrebbero sembrare ovvi e di scorgere al di là delle apparenze la vera natura dei problemi» (Pozzi 1975: 68). Allo stesso modo acquistano particolari funzioni costrutti quali il participio passato assoluto invece del gerundio composto, il costrutto nominale e l’impiego dei predicati per esprimere la «funzione giudicante» dell’autore (Nencioni 1988: 203-204, 224-225).
Lo sfruttamento di tutte le risorse sintattiche dell’italiano opera non solo nella costruzione della frase ma anche nel collegamento tra un periodo e l’altro, con un evidente effetto di ‘legato’. In apertura di periodo si trovano riprese anaforiche, pronomi relativi (coniunctio relativa), congiunzioni coordinanti o congiunzioni subordinanti e in particolare causali. Procedimenti analoghi si riscontrano a livello macrotestuale, negli incipit dei capitoli e dei libri (ma solo la suddivisione in libri è originale mentre quella in capitoli è moderna).
La Storia d’Italia, con la sua levigatezza, la sua uniformità tonale e la sua complessa e maestosa architettura, ma anche con effetti di pathos (Pozzi 1975: 70) e movimenti sintattici inattesi (Nencioni 1988: 198-201), segna dunque, come e forse più che le Istorie fiorentine del Machiavelli, il trionfo del volgare, già impiegato dalla storiografia municipale, nella grande storiografia di respiro nazionale ed europeo. Sotto questo profilo possiamo accostare, come faceva già De Sanctis in una pagina non benevola (1970: 541), Guicciardini a ➔ Galileo Galilei, che avrebbe conquistato al volgare il campo della scienza.
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