Guicciardini, Francesco
Nacque a Firenze il 6 marzo 1483, terzo dei cinque maschi di Piero (→), padre amato «più ardentemente che non sogliono essere amati e’ padri da’ figliuoli» (Ricordanze, in Opere, 9° vol., Scritti autobiografici e rari, a cura di R. Palmarocchi, 1936, p. 72), e di Simona di Bongianni Gianfigliazzi. La famiglia era tra le più cospicue, per ricchezza e prestigio politico, nella Firenze laurenziana. Fu tenuto a battesimo dal maggiore filosofo contemporaneo, Marsilio Ficino, tra le frequentazioni del padre, che al figlio trasmise una sincera e inquieta sensibilità religiosa.
Avviati nel 1498 gli studi giuridici in Firenze, li continuò tra Ferrara e Padova, sotto la guida del celebre giurista Filippo Decio, per tornare quindi ad addottorarsi in Firenze nel 1505. Gli anni di studio dovettero essere intensi e fecondi, stando alla rapidità della successiva carriera universitaria e forense, e a quanto G. stesso scriverà in età matura, lasciandoci intravvedere un’adolescenza e una giovinezza del tutto aliene dagli svaghi.
Lasciata cadere, per l’opposizione paterna, un’occasione di prendere gli ordini subentrando a un parente nei ricchi benefici, praticò l’avvocatura con successo crescente. Lungo tutta la vita continuò a esercitare la professione forense, sia pure con diversa intensità e lunghe interruzioni (Cavallar 1991). In ogni caso, l’incedere giuridicamente atteggiato dell’argomentare, le larghe sopravvivenze del lessico e della fraseologia della giurisprudenza, il gusto e quasi la necessità gnoseologica prima ancora che psicologica di percorrere fino in fondo gli argomenti in favore di una tesi, per poi ribaltarli percorrendo con altrettanto impegno e persuasività gli argomenti in favore della tesi opposta – tutto ciò indica come della formazione giuridica e delle attitudini che si forgiò nella pratica forense molto e di sostanziale passò nel G. maturo e maggiore.
Mentre esercitava l’avvocatura, G. si volse a un ulteriore passo nella costruzione della propria carriera, ossia a prendere moglie. In un giovane che andava scrutando la scena cittadina con inquieta ambizione, la scelta non poteva che essere eminentemente politica: contro l’avviso del padre, che avrebbe voluto una scelta meno politicamente schierata, sposò (2 nov. 1508) Maria, figlia di Alamanno Salviati, autorevolissimo esponente dell’opposizione ottimatizia al gonfaloniere perpetuo Piero Soderini. A tali circostanze, probabilmente, si deve il primo impulso in G. a farsi scrittore, e cioè, per il momento, indagatore del passato familiare e memorialista del proprio presente. Risale infatti a quest’epoca l’avvio delle Memorie di famiglia e delle Ricordanze (in Opere, 9° vol., cit., pp. 1-50 e 51-98), testi ascrivibili a un genere di scrittura privata largamente praticato dai fiorentini del suo tempo e del suo ceto, sul cui tronco nasce quindi il primo cimento più propriamente storiografico di G., le Storie fiorentine, interrotte sulle vicende della presa di Pisa nel 1509.
G. andava intanto facendo le sue prime prove sulla scena politica cittadina. Già nel marzo del 1509 era stato chiamato dalla Signoria a prendere parte a una ‘pratica’, ma la vera occasione giunse nell’ottobre del 1511, allorché, neppure trentenne, venne eletto ambasciatore alla corte di Ferdinando il Cattolico, presso il quale aveva il difficile compito di giustificare la persistente fedeltà della sua città al maggiore nemico della Spagna, ossia alla Francia. Lasciata Firenze il 29 gennaio 1512, vi sarebbe rientrato due anni dopo. I lunghi ozi della diplomaticamente sterile residenza spagnola non passarono invano e, con una regola che diverrà costante nella sua vita, il diradarsi delle faccende pubbliche fu occupato con un’intensa attività di riflessione e di scrittura, alla quale tuttavia G. non intese mai, né allora né poi, dare alcuna divulgazione. All’epoca dell’ambasceria spagnola risalgono: un diario del viaggio compiuto per raggiungere la corte del Cattolico (Diario del viaggio in Spagna, in Opere, 9° vol., cit., pp. 101-24); una relazione sul genere di quelle che gli ambasciatori erano tenuti a redigere al loro rientro per fornire alle proprie autorità un quadro delle istituzioni e della società del Paese visitato (Relazione di Spagna, in Opere, 9° vol., cit., pp. 125-46); alcuni testi sulla nuova situazione determinatasi dopo la battaglia di Ravenna (11 apr. 1512), i quali, nel loro insieme, testimoniano un’esigenza di chiarimento intellettuale su questioni specifiche di politica interna e internazionale a cui, nel segreto dello scrittoio, G. non si sottrasse mai, e che spesso trova espressione in ‘discorsi’ concepiti nella forma di opposte arringhe giudiziarie pro e contra la questione che è oggetto della sua riflessione (in massima parte questi testi sono riuniti nei Discorsi, in Opere, 7° vol., Dialogo e discorsi del reggimento di Firenze, a cura di R. Palmarocchi, 1932, pp. 175-281, e nei Discorsi politici, in Opere, 8° vol., Scritti politici e ricordi, a cura di R. Palmarocchi, 1933, pp. 69-219).
All’estate del 1512 risale anche un’intensa riflessione sulle istituzioni politiche di Firenze, che da tempo G. considerava minate da gravi contraddizioni e ormai prossime a una svolta critica: ne è espressione il cosiddetto Discorso di Logrogno (in Opere, 7° vol., cit., pp. 218-55). Del periodo spagnolo sono inoltre le prime testimonianze della sua disposizione non solo a fissare su carta brevi pensieri in bilico tra l’autonomia della scrittura aforistica e l’appunto provvisorio – pronto a essere richiamato e svolto in un più ampio contesto ragionativo –, ma anche a entrare in colloquio con sé stesso, trascorrendo dall’impegno pubblico, ardentemente ricercato e perseguito con tenacia, a un ripiegamento sincero sulla propria interiorità, in cui dava voce a un dolente disincanto che quasi sconfessava il senso e le motivazioni dell’attività quotidiana. Furono in effetti redatte in Spagna le brevissime riflessioni che formano il nucleo generatore dei Ricordi (cfr. in generale l’ed. critica a cura di R. Spongano, 1951, nonché il singolare ‘soliloquio’ in Opere, 9° vol., cit., p. 99).
Rientrando a Firenze all’inizio del 1514, G. riprese l’attività forense, ma più ancora si impegnò nelle cariche pubbliche che gli procurarono il prestigio dell’ambasceria appena conclusa, la prossimità che i Guicciardini avevano ben saputo rinfrescare con i Medici, e soprattutto l’ambizione e la voglia sua di emergere. In particolare, entrò nel consiglio privato di Lorenzo de’ Medici, il quale – essendo sempre più malato e lontano dal potere lo zio Giuliano – era stato eletto capitano generale della Repubblica e si apprestava a divenire l’autentico signore della città. E proprio sul giovane Lorenzo, e sull’intrigante e ambiziosa madre di lui Alfonsina Orsini (→), G. avrebbe contato per le successive fasi della sua carriera. Alla fine del 1515 il papa Leone X lo nominò avvocato concistoriale.
In uno scritto del principio del 1516, l’importante Del modo di assicurare lo stato alla casa de’ Medici (in Opere, 7° vol., cit., pp. 267-81), si colgono chiaramente tanto il fastidio e la preoccupazione per i comportamenti e i metodi poco ‘civili’ dei signori medicei, che si mostrano diffidenti verso gli ottimati fiorentini, quanto, per altro verso, la percezione che proprio i Medici rappresentino comunque il male minore per una città ormai incapace di trovare un’autentica risposta alla grave crisi istituzionale che la attraversa, e che in ogni caso quella a favore del loro campo è la scelta che G. ha fatto con nettezza. Di qui la decisione con cui egli si schierò dalla parte dei Medici, mettendo con fermezza e anche con sostanziale lealtà a loro disposizione i non comuni talenti di cui era dotato. Sono queste le premesse ideologiche e personali nelle quali matura quel salto di qualità nella sua carriera che lo doveva portare oltre gli orizzonti della politica cittadina: la nomina a commissario pontificio di Modena (5 apr. 1516). Insediatosi nella città emiliana a fine giugno con una carica che nel frattempo si era trasformata in quella più prestigiosa e remunerata di governatore, avviò un’energica azione di ristabilimento dell’ordine e della legalità. L’anno seguente al governatorato di Modena si aggiunse quello di Reggio, dove continuò la sua opera di risanamento e di pacificazione, ingaggiando un aspro duello con alcuni elementi della nobiltà locale, assuefatta a un sostanziale spregio del potere centrale. Sono anni di attività straordinariamente intensa per G., che dà prova di eccezionale attitudine alle responsabilità politiche, di rigore inflessibile nell’amministrazione della giustizia civile e penale, di rapidità ed energia nel mettere in atto le proprie decisioni.
Ai primi del 1520 fu coinvolto in una trama, fallita sul nascere, che papa Leone aveva ordita contro Ferrara. A un progetto analogo, che comunque abortì nuovamente, prese parte l’anno successivo, e proprio alle fasi culminanti di tali maneggi, ossia al maggio 1521, risalgono quelle che per noi sono le prime testimonianze dei suoi contatti con Niccolò Machiavelli.
Il 12 luglio 1521 G., che nello scontro tra impero e Francia per Milano si era trovato a dover difendere Reggio da un attacco francese, venne nominato commissario generale dell’esercito pontificio, pur conservando i governatorati di Modena e Reggio. Un ulteriore balzo, insomma, nella sua carriera: venivano premiati gli inattesi talenti militari che aveva saputo mostrare e ancora più avrebbe mostrati in futuro. Un ruolo decisivo vi aveva avuto la protezione del cardinale Giulio de’ Medici, il quale, morto nel 1519 il nipote Lorenzo, era divenuto il suo nuovo referente politico. Durante la campagna antifrancese in Lombardia, G. approfittò dei momenti di ozio – lui che, come scriverà in un ‘ricordo’, non amava svagarsi con le «primiere» o altri passatempi – per stendere un Dialogo del reggimento di Firenze in cui il tema dell’assetto istituzionale della città diveniva anche la base per una riflessione generale sull’essenza della politica e del vivere civile.
Alla morte di Leone X (1° dic. 1521) G. si trovò a dover far fronte alle turbolenze che sempre investivano i domini della Chiesa nelle vacanze del soglio pontificio. Attese quindi alla difesa di Parma, nuovamente attaccata dai francesi e dai loro confederati, e in una situazione fattasi improvvisamente disperata – anche per l’infedeltà delle poche truppe di cui disponeva e per la volontà dei parmensi di una pronta resa agli assedianti – mostrò ancora una volta notevoli capacità organizzative e militari, suscitando nella cittadinanza quella reazione che consentì di respingere, al di là di ogni ragionevole aspettativa, gli sforzi compiuti dai pur preponderanti francesi e veneziani (cfr. la Relazione della difesa di Parma, in Opere, 8° vol., cit., pp. 147-61, e quindi Ridolfi 1960, 19822, pp. 124-30).
Dopo il breve pontificato di Adriano VI, il 18 novembre 1523 venne eletto papa il cardinale de’ Medici – che prese il nome di Clemente VII –, e G. non dovette attendere per raccogliere i frutti della sua intimità con il nuovo pontefice: già il 25 dicembre il fido agente che teneva a Roma – il modenese Cesare Colombo, destinatario di tanta sua corrispondenza – gli annunciò che Clemente lo voleva alla presidenza della Romagna. Nella nuova veste tagliata apposta per lui G. riprese e potenziò l’azione di risanamento amministrativo e di inflessibile repressione del particolarismo feudale. Forte del consenso papale, il suo potere e il suo prestigio erano enormi, così come le ricchezze personali, accortamente gestite insieme ai fratelli, in continuo aumento. Ai primi tempi della presidenza della Romagna risalgono il compimento del Dialogo del reggimento di Firenze, una prima organizzazione dei Ricordi – frattanto notevolmente aumentati – e il compendio della trecentesca cronaca di Jean Froissart, avvicinata per chiarirsi le ragioni storiche e dinastiche delle pretese francesi e imperiali sull’Italia (cfr. Compendio della Cronica di Froissart, a cura di P. Moreno, 1999).
Dopo la battaglia di Pavia (24 febbr. 1525), con l’estromissione della Francia dalla politica italiana e dalla penisola a discrezione delle vittoriose armi imperiali, G. fu condotto, meglio e più precocemente di altri osservatori, a considerare le cose italiane nel quadro della grande politica europea, cogliendo la drammatica dinamica di subordinazione che veniva instaurandosi. L’inquietudine era profonda e il futuro gli appariva assai fosco, come scriveva il 7 agosto 1525 a M., con il quale si erano fatti sempre più frequenti e amichevoli i rapporti: «credo che ambuliamo tutti in tenebris, ma con le mani legate di dietro per non potere schifare le percosse» (Lettere, p. 397). Ma G. era anzitutto uomo d’azione, e a reagire mirò con mirabile coerenza e costanza tutto il suo operato nei mesi successivi all’evento di Pavia, come mostrano il fitto carteggio che tenne con Roma (cfr. Le lettere, ed. critica a cura di P. Jodogne, 9° vol., Dicembre 1523-aprile 1525, 2005, e 10° vol., 1° maggio 1525-20 giugno 1526, 2008) e una serie di ‘discorsi’ che allora compose sulla situazione politica, diplomatica e militare europea (in Opere, 8° vol., cit., pp. 120-219). Sul piano delle concrete scelte strategiche, la questione di Milano in particolare gli appariva decisiva: l’imperatore Carlo V, già saldo signore di quello che era stato il Regno degli aragonesi, si avviava a divenire padrone anche del ducato sforzesco. Seguendo una secolare esigenza della politica pontificia, G. avvertiva il pericolo che la Chiesa si trovasse accerchiata da un unico principe signore tanto del Sud quanto del Nord della penisola, il che a termine si sarebbe rivelato esiziale per la stessa Firenze. Donde l’esigenza di impedire tempestivamente il consolidamento della strepitosa vittoria di Pavia, sfruttando le difficoltà della politica imperiale sul piano europeo. Che è ciò a cui G. si consacrò da Roma a partire dai primi di febbraio del 1526 e nei mesi che seguirono, in cui redasse una serie di testi per chiarirsi e chiarire al papa il quid agendum (cfr. Scritti inediti di Francesco Guicciardini sopra la politica di Clemente VII dopo la battaglia di Pavia, a cura di P. Guicciardini, 1940). Si tratta di un importante zibaldone, da lui stesso allestito, che contiene istruzioni per i nunzi pontifici, appunti sull’avanzamento delle trattative diplomatiche, estratti di documenti: insomma, una sorta di diario dell’azione politica e diplomatica che svolse tra l’inverno e la primavera del 1526, e che portò alla stipulazione della lega conclusa a Cognac il 22 maggio 1526 tra Chiesa, Francia, Inghilterra, Venezia e svizzeri. Logica conseguenza ne fu, ai primi di giugno, la sua nomina a commissario dell’esercito pontificio e luogotenente generale del papa, «con pienissima e quasi assoluta potestà», come poi scriverà nella Storia d’Italia (XVII iii). Aveva ormai un ruolo da protagonista sulla scena della politica europea, e quella «Lega santissima» da lui voluta era un estremo tentativo diplomatico e militare per arginare la supremazia imperiale in Italia, e con ciò stesso allontanare lo spettro della fine della libertà; un tentativo certo perseguito per buona parte con il vecchio metodo di contrapporre straniero a straniero, e cioè, in questo caso, inglesi, svizzeri e soprattutto francesi, a spagnoli e tedeschi, ma era un tentativo lucido e realistico, l’unico forse concretamente perseguibile in quelle circostanze, e tale che faceva tutto il possibile per riportare il centro dell’iniziativa politica in Italia.
Il 17 giugno G. era già in Lombardia per condurre un’azione rapida e d’urto, nella quale poneva «la salute et libertà di Italia» (Le lettere, 10° vol., cit., p. 638), contro le truppe imperiali che assediavano il castello di Milano, dove ancora resisteva il duca Francesco Sforza. Poco dopo lo raggiunse al campo M., che a più riprese gli sarebbe stato al fianco nella campagna militare. Un’iniziativa così lungamente maturata sul piano diplomatico, e avviata con tanta energia su quello militare, si arenò tuttavia ben presto per le diffidenze e i dissidi che sorsero tra i vari responsabili militari, e in particolare tra lo stesso G. e Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino e capitano generale dei veneziani. L’azione del duca di Urbino sotto Milano, allorché sarebbe stato possibile cacciarne gli imperiali, fu debole, lenta e incerta, e finì con lo spegnere lo slancio dell’impresa, ridando in qualche modo l’iniziativa al fronte nemico.
Nulla poterono la «sollecitudine e diligenzia di Messer Francesco» (così M. nell’ott. 1526 in una lettera dal campo a Bartolomeo Cavalcanti: Lettere, p. 449) per impedire che tra l’inverno del 1526 e la primavera del 1527 gli eventi precipitassero con una rapidità che sembrò assumere il carattere della fatalità: fino a che le truppe imperiali non giunsero a Roma (7 maggio), mettendola orrendamente a sacco. E nel frattempo il reggimento mediceo veniva estromesso da Firenze. Era il completo fallimento della linea politica da G. avviata con grande determinazione all’indomani della rotta di Pavia e che dopo un anno aveva preso forma con la lega di Cognac. La sua sagacia e la sua energia non avevano potuto compensare le gravi divisioni tra i confederati italiani, le incredibili viltà dei comandanti degli eserciti, la mancanza di determinazione e l’insipienza del papa, e più in generale l’incapacità dei principi italiani di mettere in piedi un esercito in grado di confrontarsi con la nuova realtà delle guerre europee.
Nonostante il tragico e inappellabile esito della lega di Cognac, rimane che tra la battaglia di Pavia e il sacco di Roma G. esperì un estremo tentativo, all’altezza delle sue eccezionali capacità politiche e diplomatiche, per contrastare il corso della crisi italiana. Fu un tentativo che aveva una propria innegabile grandezza, e che se anche non avesse avuto il seguito di riflessione storiografica che poi ebbe, basterebbe da solo a conferire al suo autore un rilievo speciale sulla scena delle guerre d’Italia e a fare di lui uno dei maggiori, se non il maggiore, politico italiano dell’epoca. Ben lo comprese M., che in una lettera del 17 maggio 1526 si rivolse al più giovane, ma tanto più di lui potente amico con i toni concitati di una vera e propria exhortatio a liberare l’Italia dai barbari, intima, ma non per questo meno solenne:
Voi sapete quante occasioni si sono perdute: non perdete questa, né confidate più nello starvi, rimettendovi alla Fortuna et al tempo, perché con il tempo non vengono sempre quelle medesime cose, né la Fortuna è sempre quella medesima. Io direi più oltre, se io parlassi con uomo che non intendesse i segreti o non conoscesse il mondo. Liberate diuturna cura Italiam, extirpate has immanes belluas, quae hominis, preter faciem et vocem, nichil habent («Liberate l’Italia da questo lungo tormento, scacciate queste bestie feroci che non hanno nulla di umano, a parte il volto e la voce», Lettere, p. 427).
E quando purtroppo ormai tutto precipitava, M., che nelle corrispondenze ufficiali aveva pur dato conto di come «il Luogotenente vive in angustie grandi, e riordina e rimedia a tutte quelle cose che può» (M. agli Otto di guardia, 30 marzo 1527, LCSG, 7° t., p. 219), si era lasciato andare, in una lettera a Francesco Vettori del 16 aprile 1527, a una dolente e appassionata confessione, che era di disperazione e di orgoglio al tempo stesso, nella quale connetteva il proprio amor patrio al sentimento con cui guardava alla grandezza di G.: «Io amo messer Francesco Guicciardini, amo la patria mia...» (M. a Francesco Vettori, 16 apr. 1527, Lettere, p. 459; i puntini corrispondono a un intervento censorio nell’unico testimone della lettera, per cui cfr. Lettere a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini, 1513-1527, a cura di G. Inglese, 1989, p. 384 nota 9).
L’arco della biografia di G. eccede quella machiavelliana per un tredicennio, quanto era peraltro la loro differenza di età. Dopo la catastrofe del 1527, la carriera politica guicciardiniana risultò inevitabilmente spezzata, anche se in qualche modo, rientrati i Medici in Firenze nell’estate del 1530, Francesco seppe rimontare alquanto la propria disgrazia politica, al prezzo però di una scelta quanto mai netta della parte medicea, che ormai escludeva ogni ‘civiltà’. Ma se G. non ritrovò le altezze conosciute a monte del 1527, e dovette anzi fare fino in fondo l’esperienza umiliante di chi ha scelto di stare dalla parte del signore assoluto, quel che qui conta è che le sue alterne e ormai relativamente mediocri fortune pubbliche gli dettero maggior agio per concentrarsi sul lavoro letterario: dalla stesura di alcuni importanti testi autobiografici composti a ridosso della propria sconfitta politica (Consolatoria, Oratio accusatoria, Oratio defensoria, in Opere, 9° vol., cit., pp. 163-281), alla redazione, che risulterà poi definitiva, dei Ricordi (1530), pervenuti ad assumere l’inedita fisionomia di una raccolta di brevi testi in cui austere e malinconiche meditazioni sul senso dell’esistenza si innestano sulla più generale sapienza politico-civile maturata dal grande ottimate nella sua lunga carriera; dall’avvio di nuovi esperimenti storiografici poi lasciati incompiuti (i Commentari della luogotenenza e le Cose fiorentine), a una puntuale meditazione sui Discorsi machiavelliani; fino quindi al frutto più maturo e amaro della sua complessiva esperienza politica: quella grandiosa Storia d’Italia dell’ultimo quarantennio – l’unico suo scritto che avrebbe voluto rendere pubblico – a cui si volse con singolare fervore negli ultimissimi anni, e sul quale ancora lavorava quando la morte lo colse il 22 maggio 1540.
Come si è osservato, sono del 1521 i primi documenti di un rapporto personale e diretto tra M. e G.: attestano chiaramente una consuetudine umana già ben avviata, e anche, da parte di G., la conoscenza del pensiero politico machiavelliano (Ridolfi 1954, 1978, p. 300; più in generale Sasso 1984, pp. 47 e segg.). È probabile che i primi incontri risalissero a molti anni prima. Comunque, durante gli anni del gonfalonierato soderiniano M. era stato in rapporti di amicizia con il maggiore dei fratelli di Francesco, Luigi (→), al quale aveva dedicato il capitolo in versi “Dell’Ambizione” e, durante la legazione presso l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo nel 1509, aveva indirizzato un paio di importanti missive private. In quella del 29 novembre concludeva: «Se voi scrivete a messer Francesco vostro, ditegli che mi raccomandi a la combriccola» (Lettere, p. 203); probabilmente alla stessa «combriccola» di amici alludeva, già due anni prima, Filippo da Casavecchia chiudendo una lettera a M. nella quale chiedeva di essere raccomandato «a Luigi» e «a Messer Francesco» (F. da Casavecchia a M., 30 luglio 1507, Lettere, p. 163). Le parole rivolte a Luigi, tributario di una confidenzialità un po’ cameratesca che M. non si consentirà mai nei confronti di Francesco, mostrano dunque rapporti con i fratelli Guicciardini che certo valicavano l’asprezza dei contrasti tra gli opposti schieramenti politici a cui allora appartenevano il Segretario della seconda cancelleria e la famiglia di grandi ottimati. Vanno altresì ricordati i contatti personali, talvolta assai tesi, con il suocero di Francesco, Alamanno Salviati, specie nelle fasi finali dell’assedio di Pisa.
Qualche sparsa menzione di M. si trova nei carteggi guicciardiniani di quegli anni: Francesco lo nomina a Luigi come prossimo inviato all’imperatore il 3 novembre 1509 (Le lettere, cit., 1° vol., 1499-1513, 1986, p. 42); sempre scrivendo a Luigi, da Logrogno il 22 agosto 1512, nota la passionalità con cui il Segretario aveva dato conto della battaglia di Ravenna: «el Machiavello ne scriv[e] a passione, e massime circa al numero de’ morti, diminuendoli da una parte e dall’altra accrescendoli» (p. 203); quindi il padre Piero gli annuncia il 20 novembre che, dopo il rientro dei Medici in Firenze, «la Signoria cassò el Machiavello» (p. 301). Inoltre, in una lettera a Vettori del 29 aprile 1513, M., ormai estromesso da Palazzo Vecchio, si mostra a conoscenza delle lettere ufficiali di G. dalla Spagna.
Senza questa familiarità, che intuiamo con sicurezza, non sarebbe pensabile il tono confidente, e persino d’intesa goliardica, nella corrispondenza intercorsa tra Carpi e Modena nel maggio del 1521, tutta tramata, nel breve giro dei suoi sei pezzi distribuiti su tre giorni (17-19 maggio), intorno a mordaci lazzi sul mondo fratesco presso il quale M. svolgeva la sua missione, e a una beffa dei due amici ai danni dell’ospite di M., Sigismondo Santi. Il governatore pontificio vi si mostra con tratti meno gravi e compassati di quelli che gli erano consueti, e anzi cordialmente disposto a scendere sul terreno di un’affabile complicità con il più anziano ma assai meno prestigioso concittadino che proprio allora andava rimontando, in particolare con la commissione delle Istorie fiorentine, la china della propria disgrazia politica. Tra le linee delle sue punzecchiature beffarde, G. finisce per tracciare un mirabile e commosso ritratto di quel suo così singolare amico, «sempre stato – scrive nella seconda lettera del 18 maggio – ut plurimum estravagante di opinione dalle commune et inventore di cose nuove et insolite» (Lettere, p. 378). Se aprendo il breve scambio G. ironizza sull’incongruità di quella missione per chi, come M., aveva «sempre vivuto con contraria professione», ossia con ostentata avversione alle cose della religione, per cui avergli chiesto di scegliere un predicatore per la prossima quaresima era come affidarsi a un noto omosessuale per trovare «una bella e galante moglie» (p. 371) – poi, nel chiuderlo, medita sulla varietà della fortuna che ha fatto sì che colui che ebbe a negoziare con «re, duchi et principi» debba ora occuparsi di una tale «baia» (‘sciocchezza’), osservando tuttavia, con brusco trapasso tonale e tematico che trattiene la commozione, che comunque anche una tale missione potrà essere di una qualche utilità perché offrirà a Niccolò materia per le sue ‘comparazioni’:
molto è da comendare chi vi ha dato la cura di scrivere annali [le Istorie fiorentine]; e da esortare voi che con diligenzia esequiate lo officio commesso. A che credo non vi sarà al tutto inutile questa legazione, perché in cotesto ocio di tre dì arete succiata tutta la repubblica de’ zoccoli et a qualche proposito vi varrete di quel modello, comparandolo o ragguagliandolo a qualcuna di quelle vostre forme (p. 377; su questa lettera, cfr. Sasso 1984, pp. 6-8).
Proprio la composizione delle Istorie è oggetto di un frammento di lettera, del 30 agosto 1524, che è tutto quanto ci è pervenuto tra il maggio 1521 e il luglio 1525: in essa M. dichiara a G. che ‘pagherebbe’ pur di averne il consiglio nell’affrontare certi snodi delicati del passato prossimo (e potrebbe, forse, essere questa la circostanza che portò M. a prendere conoscenza delle guicciardiniane Storie fiorentine: per la questione in generale cfr. Pieraccioni 1989).
Tra il giugno e il luglio del 1525 M. soggiornò a Faenza presso G. per organizzare un’ordinanza militare in Romagna, progetto che aveva incontrato il favore del papa, non però quello di G., che lo riteneva difficilmente attuabile (un’acuta ed equilibrata valutazione di tale progetto nella lettera di G. a C. Colombo del 23 giugno 1525, in Le lettere, 10° vol., cit., pp. 106-11, e cfr. quindi Ridolfi 1954, 1978, pp. 333-36). Comunque, a partire da quel soggiorno la loro corrispondenza ci è giunta relativamente più fitta e regolare, e seguiamo meglio le tracce di un rapporto sempre più intenso fino agli ultimi giorni di Machiavelli. Di un carteggio nel quale si indovinano non pochi pezzi perduti, ci restano 21 lettere familiari tra il 29 luglio 1525 e il 12 novembre 1526 (7 di G. e 14 di M.), e varie menzioni dell’uno e dell’altro in carteggi con terzi (un regesto esaustivo, esteso ai pezzi perduti e alle menzioni nei carteggi con terzi, in Masi 1998; in Le lettere, 10° vol., cit., pp. 165 e 352-53, due frammenti inediti delle lettere di G. a M. del 7 ag. e del 26 dic. 1525). Ma i rapporti privati si intrecciano e si sovrappongono a più riprese con quelli pubblici: vanno quindi aggiunte una commissione ufficiale di G. a M. per visitare l’assedio di Cremona e l’articolatissimo resoconto di quest’ultimo (la commissione guicciardiniana, non datata, e la lettera di M. a G., dell’11 sett. 1526, sono in LCSG, 7° t., pp. 174-81; su quest’ultima, venuta in luce recentemente, cfr. P. Jodogne, Una lettera inedita del Machiavelli al Guicciardini dal campo all’assedio di Cremona, «Studi e problemi di critica testuale», 1984, 28, pp. 39-55), e quindi, ultimo documento datato della vita di M., una lettera a G. del 22 maggio 1527 firmata insieme a Francesco Bandini (LCSG, 7° t., pp. 231-32).
A dare materia allo scambio epistolare sono anzitutto i temi della quotidianità di entrambi: dalle cortigiane frequentate alle pillole che M. fa confezionare in Firenze per G.; da una rappresentazione della Mandragola che G. avrebbe voluto a Faenza per il carnevale del 1526 e in vista della quale probabilmente fece allestire una stampa (Ridolfi 1954, 1978, p. 347), circostanza che suscita in M. diffusi chiarimenti su motti vernacolari e soprattutto la composizione di canzoni da far recitare per l’occasione a Barbara Salutati (→), alle consulenze che un M. con i tratti dell’uomo di fiducia fornisce per acquisti e migliorie di poderi e soprattutto, a più riprese e con particolare impegno, nelle spinose questioni dotali per le figlie di Guicciardini. Ma, accanto e attraverso i soggetti privati e ‘leggeri’, abbondano nella conversazione epistolare, con gli accenti propri a ciascuno e spesso con trapassi repentini, le riflessioni ‘gravi’ sulla situazione politica contemporanea e le angosce per la morsa della dominazione imperiale che andava stringendosi sull’Italia. Ed è proprio la varietà del dialogo che portò M. a sottoscriversi, in una lettera a G. – quasi cifra del loro intero carteggio –, «istorico, comico e tragico» (lettera post 21 ott. 1525; Lettere, p. 411).
Sempre più G., e, attraverso di lui, gli ambienti medicei intorno al papa, cercano il parere di M. su questioni politiche generali, e sempre più M. vede in G. un interlocutore ideale in vista di un estremo tentativo per il riscatto d’Italia. Notevole in tal senso è la lettera di M. del 15 marzo 1526, provocata da una missiva perduta di G., dove con franchezza e concitazione singolari («Io dico una cosa che vi parrà pazza; metterò un disegno innanzi che vi parrà o temerario o ridicolo; nondimeno questi tempi richieggono deliberationi audaci, inusitate et strane»: Lettere, p. 421) M. suggerisce di armare segretamente un Giovanni de’ Medici che ha qualche tratto del Valentino.
La nomina di M. nella primavera del 1526 a «provveditore e cancelliere» dei Cinque procuratori delle mura, che dovevano sovraintendere alle fortificazioni di Firenze (nomina nella quale aveva avuto un impulso decisivo G. stesso: cfr. la lettera di M. a G. del 4 apr., Lettere, p. 424, con il cenno a una lettera di G., oggi perduta, del 1° dello stesso mese), è ulteriore materia di corrispondenza in una serie di missive dal 4 aprile al 2 giugno. E scrivendone il 27 aprile al fratello Luigi, G. riconosce a M. i meriti dell’iniziativa:
El Machiavello è partito con ordine che si faccia la provisione et gli uficiali, et si cominci a fortificare, nel modo che da lui intenderete. [...] Et el Machiavello è stato quello che la promosse, in modo che siate debitori di tractarlo bene di questa sua venuta et le altre cose gli occorreranno, ché ha guadagnato molto bene lo scocto. Et vi conforto ad attenderci con diligentia, perché è cosa utilissima (Le lettere, 10° vol., cit., p. 417).
Tra il luglio del 1526 e l’aprile del 1527, M. è ancora inviato a più riprese presso G. (la documentazione ufficiale delle missioni effettuate da M. presso G. per conto della magistratura degli Otto di pratica è in LCSG, 7° t., pp. 182-89 e 191-230). Al primo di questi soggiorni al campo della lega risale la lettera di G. a Roberto Acciaiuoli del 18 luglio 1526, nella quale ci ha lasciata una valutazione differentemente intonata, rispetto a quella tramandata da Matteo Bandello (→), dell’impegno di M. per disciplinare le sgangherate milizie della lega: «El Machiavello si trova qua. Era venuto per riordinare questa milizia, ma, vedendo quanto è corrotta, non confida averne onore. Starassi a ridere degli errori degli uomini, poi che non gli può correggere» (Carteggi di Francesco Guicciardini, 9° vol., 14 luglio 1526-11 settembre 1526, a cura di P.G. Ricci, 1959, pp. 15-16). Questo primo soggiorno durò vari mesi e, a parte la già ricordata missione sotto Cremona nel settembre, G. dovette avvalersi di M. in più modi: non solo come una sorta di segretario e cancelliere informale (ci è giunta una lettera di G. al fratello Luigi, del 15 sett. 1526, tutta di mano di M., firma compresa: cfr. O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 2° vol., t. 2, 1911, pp. 1249-50; pochi giorni dopo G. avvisava ancora il fratello: «delle nuove vi farò scrivere dal Machiavello», Carteggi di Francesco Guicciardini, 17° vol., Appendice prima, 14 ottobre 1509-1° marzo 1540, 1972, p. 199), ma anche, con ogni probabilità, in missioni delicate presso i vari comandanti del campo della lega. Una, tra il 9 e il 18 ottobre, è congetturalmente ricostruita, con buon fondamento, in Masi 1998, pp. 512-13, dove si propone di individuare in M. un personaggio da G. non nominato nei suoi carteggi altrimenti che come «el mio segretario» o «el cancelliere mio».
Pur nell’intesa politica sempre più profonda e nella stima intellettuale reciproca – per cui si avverte, com’è stato ben detto, che la loro era una relazione nella quale «ciascuno voleva essere degno dell’altro» (J.-L. Fournel, J.-C. Zancarini, La politique de l’expérience. Savonarole, Guicciardini et le républicanisme florentin, 2002, p. 141) –, permane tra i due una non completa sintonia, testimoniata piuttosto dai testi di G. che non da quelli di Machiavelli. C’erano evidentemente il prestigio sociale e il ruolo politico di G. a creare in qualche modo un divario che M. sentiva di non poter oltrepassare. Lo si avverte, e G. stesso lo avverte, nelle formule epistolari, perché se G. si rivolge al «Machiavello carissimo» siglandosi «uti frater», quelle del più anziano amico mantengono per questo verso, né forse avrebbe potuto essere diversamente, un registro alquanto più formale. E una volta Francesco, con una movenza in lui inconsueta, lo fece notare a M., senza peraltro ottenere soddisfazione:
Machiavello carissimo […] principalmente vi ho a dire che se voi onorerete le soprascritte mie con lo illustre, io onorerò le vostre con il magnifico, e così con questi titoli reciprochi ristorerèno del piacere l’uno dell’altro, il quale si convertirà in lutto quando alla fine ci troverreno tutti, io dico tutti, con le mani piene di mosche. Però risolvetevi a’ titoli, misurando i miei con quelli che vi dilettate siano dati a voi (G. a M., 7 ag. 1525, Lettere, p. 397).
Di questa nota dissonante che si percepisce nel rovescio della solida trama amicale, ulteriore testimonianza sul piano privato è una singolare lettera faceta, significativamente dello stesso giorno e forse accompagnata proprio da quella, appena citata, in cui G. chiedeva all’amico di abbreviare le distanze nelle formule epistolari. In essa un podere appena acquistato per procura da G. (e intorno al quale M. aveva fatto all’amico un rapporto assai sfavorevole) scrive a M. in prima persona e assumendo il genere femminile: «Madonna Possessione di Finocchieto desidera al Machiavello salute et purgato giudicio» (cfr. R. Ridolfi, Studi guicciardiniani, 1978, pp. 307-16, che a ragione coglie nel testo guicciardiniano «qualcosa del risentito o almeno dell’indispettito»). Riconosciute a M. dottrina ed esperienza singolari («tu che hai letto et composto tante historie e veduto tanto del mondo»), G., sempre scrivendo in nome della «possessione di Finocchieto», tiene tuttavia a sottolineare una sostanziale divaricazione di disposizioni intellettuali e caratteriali:
se pure per la lunga pratica di simili [scil. ‘donne dai costumi facili’], che intendo non sei mai vivuto altrimenti, hai fatto sì malo abito, che le corrotte loro usanze ti paiono buone e degne delle nostre pari, dovevi pure ricordarti che era temerità fare giudicio in uno momento; e che le cose s’hanno a giudicare non dalla superficie, ma dalla sustanzia loro; e che sotto quella rigidità et asprezza che a primo aspetto si mostrava in me, potevano esserci nascoste tante parti di bene, che io meritavo essere laudata, non così ingiuriosamente biasimata (Lettere, pp. 398-99).
Comunque, il confronto serrato che G. istituisce con i testi machiavelliani dà più veracemente conto di questa nota dissonante, la cui radice è ben più profonda di quanto le circostanze e le distanze sociali non dicano.
È certo, come si è osservato, che G. non dovette attendere l’epoca di quelle che per noi sono le prime testimonianze dei loro contatti per prendere conoscenza dei testi machiavelliani. Sappiamo che nella sua più stretta cerchia familiare i testi di M. erano quelli di un contemporaneo che si cita e con cui ci si confronta: se il suocero era stato il dedicatario del primo Decennale e il fratello Luigi di un capitolo in versi, il nipote Niccolò (→), figlio di Luigi, in una lettera del 29 luglio 1517 ci ha lasciata la prima citazione esplicita del Principe (cfr. J.N. Stephens, H.C. Butters, New light on Machiavelli, «English historical review», 1982, 97, pp. 68-69), e il cognato Lodovico Alamanni, scrivendogli nel 1518, citava versi dal capitolo “Dell’Ingratitudine” per chiosare la triste fine che a Gian Giacomo Trivulzio (→) riservava il re di Francia (cfr. P. Jodogne, Una citazione sconosciuta del capitolo De la ingratitudine di Machiavelli in una lettera di Lodovico Alamanni a Francesco Guicciardini, «Studi e problemi di critica testuale», 1983, 26, pp. 29-34). In ogni caso, già le giovanili Storie fiorentine mostrano chiare tracce della conoscenza da parte di G. dei dispacci delle legazioni presso Cesare Borgia e poi presso il conclave da cui uscì papa Giulio II, nonché del primo Decennale e degli scritti sull’ordinanza del 1506 (cfr. Sasso 1984, p. 55 e nota 22, e più in generale pp. 55-70). Ai primi del 1516 il Del modo di assicurare lo stato alla casa de’ Medici attesta l’avvenuta lettura e la riutilizzazione del Principe (cfr. Sasso 1984, p. 94).
Il confronto più approfondito e tenace con il pensiero machiavelliano G. lo instaura nel Dialogo del reggimento di Firenze (1521-1525). Per quanto il suo pensiero politico nelle grandi linee si fosse costituito indipendentemente da quello machiavelliano, per potergli dare compimento e confermarselo nei suoi fondamenti G. avvia una analitica confutazione dei capisaldi della teoria machiavelliana. In effetti, il Dialogo, nel secondo libro in particolare, prova che G.
ha così fortemente assorbito in sé il pensiero dei Discorsi, a tal punto ne ha misurato il significato, l’importanza e la profondità che, per sopravvivere alla stretta che quest’opera aveva eseguita del suo stesso personale pensiero come in una morsa inesorabile, è stato costretto a capovolgerne, punto per punto, le tesi fondamentali (Sasso 1984, p. 96).
Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, M. si era fondato sull’esemplarità della storia romana arcaica, deducendone la positiva produttività istituzionale delle lotte sociali, e aveva biasimato le costituzioni di quelle città che, come Sparta e Venezia, ponevano il baricentro dei loro ‘ordini’ nell’elemento aristocratico, chiudendosi all’integrazione di nuovi ceti sociali e rendendosi con ciò inidonee a correre l’avventura della conquista. In un lungo excursus sulla storia romana, Bernardo Del Nero, portavoce dell’autore nel Dialogo, ribalta con accanimento i termini essenziali dell’impostazione machiavelliana, indicando nell’inclinazione ‘popolare’ degli ordini romani la radice del carattere «tumultuoso e pieno di sedizioni» della città. Respingendo i nessi causali stabiliti da M., e la stessa cronologia che presupponevano, Bernardo legge la storia romana all’insegna della più schietta negatività istituzionale, contestando in particolare che le divisioni sociali e i tumulti della plebe avessero avuto una qualsiasi funzione positiva nel processo istituzionale. Sul piano propositivo G. esalta nell’aristocratica Venezia una perfetta e realizzata costituzione mista, in cui la centralità dell’elemento ottimatizio tempera e media tra le opposte istanze, da cui invece Firenze era periodicamente lacerata, che si esprimevano in pulsioni popolari e assolutismo signorile. La Repubblica lagunare incarna il suo ideale di società ordinata, equa e quieta, in cui ciascuno sta al suo posto perché ognuno ha un posto; una società nella quale il merito trova il giusto riconoscimento, e il prestigio sociale anche; una società, infine, resa a tal punto tetragona dalla propria coesione interna e dalla concordia delle proprie componenti che, di fatto, le tensioni sociali che la attraversano sono depotenziate sul nascere, le minacce esterne sembrano non scalfirla, e insomma le insidie della storia appaiono remote dal suo orizzonte. Ecco perché al fondo il politico ideale di M. non può non essere anche un grande uomo d’armi, per l’urgenza e il pericolo che sempre incombono sullo Stato e con cui l’azione politica deve sapersi confrontare fino all’estremo ricorso alla forza e alla violenza; e per contro il profilo del politico ideale che emerge dal testo guicciardiniano è piuttosto quello del giurista sorretto dalla fiducia che un sistema costituzionale sagacemente congegnato e prudentemente vigilato sia in grado di governare la ricca materia sociale che si agita nelle viscere della città. Per M. le lotte sociali costituiscono una realtà ineliminabile, che però può essere fonte di positività istituzionale; per G. il valore supremo è la concordia, la pace sociale (cfr. Sasso 1984, pp. 181-253).
Se il Dialogo del reggimento di Firenze costituisce il momento più intenso e costruttivo del confronto con il pensiero di M., non ne è però la conclusione: G. riprende in mano i Discorsi, non ancora a stampa, tra la fine del 1529 e la prima metà del 1530 per allestire un capillare commento organizzato capitolo per capitolo, anche se poi non interamente realizzato (le cosiddette Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli). In queste chiose antimachiavelliane si esprime in modo ancor più esplicito il rifiuto del punto di vista generale di un autore che nei fatti storici, e magari nei racconti dei fatti storici, aveva creduto di reperire la ‘regola’ in grado di orientare l’azione politica: proprio per questo, a dispetto dei riconoscimenti di acume che pure non poteva mancare di tributargli, G. giudica l’ex Segretario, se non proprio prigioniero di un’illusione libresca, troppo radicale e troppo rigido, incapace di cogliere la complessità e la varietà della realtà nel suo individualizzarsi secondo i tempi, i luoghi, le circostanze, e in sostanza mancante di quella attitudine al distinguere e alla «discrezione» che per lui G. era tutto. In un luogo – e pare di avvertire l’eco di discussioni personali – ammonisce a non prendere «per regola assoluta» quel che dice uno «scrittore al quale sempre piacquono sopra modo e’ remedi estraordinari e violenti» (Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli, glossa a Discorsi I xxvi), dove forse la punta più aspra non è tanto nell’indicazione della radicalità e violenza dei «remedi» proposti, quanto nel fatto che siano «remedi» di uno «scrittore». L’infastidita critica di G. ha anzitutto di mira la fonte stessa delle ‘regole’ machiavelliane, ossia l’inflessibile classicismo politico dell’ex Segretario, con la sua fede nella sostanziale uniformità della storia che rende possibile l’imitazione degli antichi.
A fondare il rifiuto del classicismo machiavelliano c’è la sfiducia nella possibilità che la storia sia realmente il terreno da cui le ‘regole’ nascono, se non interviene una specialissima qualità, la «discrezione» appunto, che non si apprende nello studio della storia, poiché semmai è ciò che rende possibile una proficua lettura della storia. Si tratta quindi di un’aggressione scettica alla lezione degli antichi e al mito umanistico della historia magistra vitae che circola senza soluzione di continuità tra le Considerazioni e i Ricordi, soprattutto quelli aggiunti nell’ultima redazione che G. veniva allora allestendo. Tra questi, uno dei più celebri si direbbe provocato proprio dal rinnovato contatto con i Discorsi machiavelliani:
Quanto si ingannono coloro che a ogni parola allegano e’ romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era loro, e poi governarsi secondo quello esemplo; el quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facessi el corso di uno cavallo (Ricordi, redazione C, 110; per la presenza di M. nei Ricordi, cfr. Sasso 1984, pp. 8 e segg.; Cutinelli-Rendina 2001).
Nel suo insieme, la complessiva riflessione storico-politica di G. costituisce un documento tanto precoce quanto penetrante di esegesi machiavelliana, ma anche, per altro verso, di antimachiavellismo.
Storico scrupolosissimo alla ricerca di metodi e di prospettive personali, nei suoi testi storiografici G. instaurò con la storiografia machiavelliana un confronto altrettanto attento e largo, ma in qualche misura meno drammatico di quello che aveva ingaggiato con il pensiero politico dell’ex Segretario. Le Cose fiorentine, che per buona parte ripercorrono materia affrontata dalle Istorie machiavelliane, registrano una postilla in cui di fronte a una divergenza rispetto a M., l’autore richiama sé stesso a una più sicura verifica: «Questo passo è contro al Machiavello: però vedilo diligenter» (cfr. Sasso 1984, pp. 131-42, e quindi Fournel, Zancarini 2009, pp. 159-73).
Nella assai mutata prospettiva della Storia d’Italia, l’opera e la figura stessa dell’antico Segretario, nominato rapidamente in occasione della presa di Pisa del 1509 (Storia d’Italia VIII viii), si allontanano come appartenenti a un mondo ormai finito. Ma lo scrupolo dello storico richiede che a M. si torni come fonte primaria; e infatti G. utilizza largamente l’archivio dei Dieci – se lo era addirittura portato a casa (cfr. Ridolfi 1960, 1982, pp. 321-22 e 422 nota 4) – con i documenti delle missioni machiavelliane, che qua e là riaffiorano tra le linee della sua narrazione (un caso, relativo alla resa di Pisa del 1509, è studiato in E. Cutinelli-Rendina, Guicciardini, Machiavelli e la resa di Pisa, «Studi e problemi di critica testuale», 1993, 47, pp. 135-39; e per la descrizione di Verona, calcata su quella di una lettera machiavelliana, cfr. E. Cutinelli-Rendina, La geografia nella Storia d’Italia, in La Storia d’Italia di Guicciardini e la sua fortuna, 2012, pp. 324-26).
Bibliografia: Opere inedite, a cura di G. Canestrini, 10 voll., Firenze 1857-1867; Storia d’Italia, ed. critica a cura di A. Gherardi, Firenze 1919 (si vedano anche l’ed. a cura di S. Seidel-Menchi, Torino 1971, e quella a cura di E. Scarano, Torino 1980); Opere, 9 voll., Bari 1925-1936; Carteggi di Francesco Guicciardini, 17 voll., Roma 1938-1972; Scritti inediti di Francesco Guicciardini sopra la politica di Clemente VII dopo la battaglia di Pavia, a cura di P. Guicciardini, Firenze 1940; Le cose fiorentine, a cura di R. Ridolfi, Firenze 1945, rist. anast. Firenze 1983; Ricordi, ed. critica a cura di R. Spongano, Firenze 1951 (si vedano anche l’ed. diplomatica e critica della redazione C a cura di G. Palumbo, Bologna 2009, e l’ed. con introduzione e commento di C. Varotti, Roma 2013); Le lettere, ed. critica a cura di P. Jodogne, 10 voll., Roma 1986-2008 (questa ed., ancora in corso di pubblicazione, giunge per ora fino al 20 giugno 1526); Compendio della Cronica di Froissart, a cura di P. Moreno, Bologna 1999.
Per gli studi critici si vedano: F. Chabod, Guicciardini Francesco, in Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, Istituto della Enciclopedia Italiana, 18° vol., Roma 1933, ad vocem, poi in Opere di Federico Chabod, 2° vol., Scritti sul Rinascimento, Torino 1967, pp. 225-39; V. De Caprariis, Francesco Guicciardini: dalla politica alla storia, Bari 1950, rist. anast. Bologna 1993; R. von Albertini, Das florentinische Staatsbewusstsein im Übergang von Republik zum Prinzipat, Bern 1955 (trad. it. Firenze dalla repubblica al principato. Storia e coscienza politica, Torino 1970); R. Ridolfi, Vita di Francesco Guicciardini, Roma 1960, Milano 19822; F. Gilbert, Machiavelli and Guicciardini: politics and history in sixteenthcentury Florence, Princeton 1965 (trad. it. Torino 1970); R. Starn, Francesco Guicciardini and his brothers, in Renaissance studies in honour of Hans Baron, ed. A. Mohlo, J.A. Tedeschi, Firenze 1971, pp. 409-44; M. Phillips, Francesco Guicciardini: the historian’s craft, Toronto-Buffalo 1977; G. Sasso, Per Francesco Guicciardini. Quattro studi, Roma 1984; Francesco Guicciardini, 1483-1983 nel 5° centenario della nascita, a cura dell’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, Firenze 1984; M. Palumbo, Francesco Guicciardini, Napoli 1988; O. Cavallar, Francesco Guicciardini giurista. I ricordi degli onorari, Milano 1991; Bologna nell’età di Carlo V e Guicciardini, Atti del Convegno internazionale di studi, 19-21 ottobre 2000, a cura di E. Pasquini, P. Prodi, Bologna 2002; P. Jodogne, G. Benzoni, Guicciardini Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 64° vol., Roma 2004, ad vocem; Francesco Guicciardini tra ragione e inquietudine, Atti del Convegno internazionale di studi, Liège 17-18 febbraio 2004, a cura di P. Moreno, G. Palumbo, Genève 2005; V. Bramanti, Gli «ornamenti esteriori»: in margine alla Storia d’Italia di Francesco Guicciardini nelle stampe del XVI secolo, «Schede umanistiche», 2006, 2, pp. 59-91; La «riscoperta» di Guicciardini, Atti del Convegno internazionale di studi, Torino 14-15 novembre 1997, a cura di A.E. Baldini, M. Guglielminetti, Genova 2006; E. Cutinelli-Rendina, Guicciardini, Roma 2009; J.-L. Fournel, J.-C. Zancarini, La grammaire de la république. Langages de la politique chez Francesco Guicciardini, 1483-1540, Genève 2009; C. Varotti, Francesco Guicciardini, Napoli 2009; La Storia d’Italia di Guicciardini e la sua fortuna, Atti del Convegno internazionale di studi, Gargnano del Garda 4-6 ottobre 2010, a cura di C. Berra, A.M. Cabrini, Milano 2012.
Sul rapporto e sul confronto con M. si vedano: R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787, pp. 293301; R. Bizzocchi, Guicciardini lettore di Machiavelli, «Archivio storico italiano», 1978, 136, pp. 437-55; G. Sasso, Guicciardini e Machiavelli, in Id., Per Francesco Guicciardini: quattro studi, Roma 1984, pp. 47-158; G. Pieraccioni, Note su Machiavelli storico. Il Machiavelli lettore delle Storie fiorentine di Guicciardini, «Archivio storico italiano», 1989, 147, pp. 63-98; G. Masi, «Saper ragionare di questo mondo». Il carteggio fra Machiavelli e Guicciardini, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno di studi, Firenze-Pisa 27-30 ottobre 1997, Roma 1998, pp. 487-522; E. Cutinelli-Rendina, Assunzione e metamorfosi del lessico politico machiavelliano nei Ricordi di Francesco Guicciardini, in La lingua e le lingue di Machiavelli, Atti del Convegno internazionale di studi, Torino 2-4 dicembre 1999, a cura di A. Pontremoli, Firenze 2001, pp. 47-60; J. Huber, Guicciardinis Kritik an Machiavelli. Streit um Staat, Gesellschaft und Geschichte im frühneuzeitlichen Italien, Wiesbaden 2004; R. Ruggiero, Machiavelli e Guicciardini davanti alle leggi delle XII Tavole. Da Livio alle Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli, in Text-Interpretation-Vergleich. Fest schrift für Manfred Lentzen zum 65. Geburtstag, hrsg. J. Leeker, E. Leeker, Berlin 2005, pp. 395-418; J.M. Najemy, Carpi, maggio 1521. Amici: Guicciardini e Machiavelli nelle guerre d’Italia, in Atlante storico della letteratura italiana, a cura di G. Pedullà et al., Torino 2010, pp. 774-80; P. Vincieri, Machiavelli e Guicciardini, in Id., Machiavelli. Il divenire e la virtù, Genova 2011, pp. 143-81.