Francesco Guicciardini
L’immagine dell’«uomo del Guicciardini» delineata da Francesco De Sanctis (1869) sembrava riassumere tutti i vizi della «razza italiana»: la simulazione, l’opportunismo, l’interesse per il tornaconto individuale, la divaricazione massima tra il pensiero e l’azione. L’autore dei Ricordi incarnava il paradigma di quella degenerazione che, con parola machiavelliana, costituiva la «corruttela» della società intera. Per i lettori della modernità la questione guicciardiniana e il giudizio desanctisiano prendono un’altra forma. Sul piano della politica come della morale, lo scrittore fiorentino appare testimone drammatico di una crisi epocale, che obbliga a riflettere con pensieri differenti intorno a una «qualità de’ tempi» radicalmente nuova.
Francesco Guicciardini nasce a Firenze il 6 marzo 1483, terzo figlio di Piero. Questi apparteneva a un’antica famiglia che aveva consuetudini consolidate con il potere cittadino. Piero era stato, tra l’altro, uno dei principali sostenitori del ritorno a Firenze di Cosimo de’ Medici nel 1434. A sottolineare il grado di aristocrazia della famiglia Guicciardini occorre registrare che Francesco fu tenuto a battesimo da Marsilio Ficino. Come lo stesso scrittore ricorderà, Marsilio «era il primo filosofo platonico che fusse a quegli tempi nel mondo» (Ricordanze, in Id., Scritti autobiografici e rari, a cura di R. Palmarocchi, 1936, p. 53). La formazione giovanile avviene sotto la guida del padre. Francesco si applica «a studiare in cose di umanità, ed oltre alle lettere latine» (pp. 53-54) apprende anche qualche nozione di greco, si abitua a far di conto e si interessa perfino di logica. Tutti questi elementi sono secondari rispetto alla direzione principale che il corso di studi prende poco dopo. Alla fine del 1498 comincia, infatti, a studiare ‘ragione civile’ e poi, sotto la guida di un maestro del diritto come Filippo Decio, ‘ragione canonica’. La conoscenza del diritto si trasforma in un vero abito intellettuale, di cui si ritrovano segni in molti aspetti delle opere: dal gusto per i dibattimenti tra punti di vista diversi alla conquista di un lessico che penetrerà in molte pagine successive. Da Firenze Francesco si sposta a Ferrara nel 1501, soprattutto per volere del padre, intento a cercare alternative a una sempre più complicata situazione fiorentina. Nel novembre del 1502 si trasferisce ancora a Padova, dove ritrova Filippo Decio e dove resta fino al luglio del 1505.
Ritornato a Firenze, Guicciardini si addottora in ‘ragione civile’ e comincia subito la carriera di avvocato, che procede benissimo fin dall’avvio. Intanto anche la vita privata trova un importante equilibrio. Francesco, vincendo anche le resistenze del padre, si sposa, nel 1508, con Maria Salviati, figlia di Alemanno e appartenente a una gente assai influente nella vita della città. Nonostante il nome prestigioso dei casati, il matrimonio si svolge con discrezione. La natura delle vicende cittadine obbliga a un compromesso necessariamente austero «perché correva uno temporale che tutti gli uomini dabene e savi facevano mal volentieri feste» (Ricordanze, cit., p. 61). In questi anni nascono anche le prime opere, destinate a restare, come tutte le successive, senza pubblicazione. Guicciardini lavora alle Storie fiorentine, ma anche a scritture autobiografiche come le Ricordanze e le Memorie di famiglia.
Nel 1511, prima dei trent’anni necessari per iniziare qualsiasi carriera politica, Guicciardini è nominato ambasciatore presso il re di Spagna. L’incarico è prestigioso e permette al giovane un tirocinio fondamentale a contatto con un re abile come Ferdinando il Cattolico. Questa esperienza produce alcuni testi di non poco rilievo. Lo scritto più importante ha un intento propriamente politico ed è il discorso Del modo di ordinare il governo popolare, conosciuto come Discorso di Logrogno (1512): una riflessione organica sulle soluzioni idonee a garantire gli effetti migliori per la democrazia fiorentina. L’ambasceria è bruscamente interrotta quando arriva notizia della caduta del governo democratico a Firenze e del ritorno dei Medici al potere. Sul manoscritto del Discorso Guicciardini annota: «In Spagna l’anno 1512 ed ero presso alla fine quando ebbi nuove che e’ Medici erano entrati in Firenze» (Del modo di ordinare il governo popolare, in Id., Dialogo e discorsi del reggimento di Firenze, a cura di R. Palmarocchi, 1936, p. 218). Il mandato che gli era stato affidato si conclude senza risultati concreti, ma «con onore, con sanità con utile» (Ricordanze, cit., p. 74).
Durante il viaggio di ritorno a casa una dolorosa notizia sopraggiunge, quasi in «contrapeso» (p. 74) ai successi riportati. Si tratta della morte del padre, per la cui figura Guicciardini non cessa di nutrire affetto e devozione. A Firenze riprende il lavoro di avvocato. Egli, tuttavia, non cessa di ragionare sulla situazione politica e sui modi possibili per migliorare l’assetto istituzionale della sua città. Nascono così altri due discorsi noti come Del governo di Firenze dopo la restaurazione de’ Medici nel 1512 e, soprattutto, Del modo di assicurare lo Stato alla casa de’ Medici, più che espressioni di una conversione ai nuovi signori della città, riflessioni sulle modalità con cui regolare al meglio la vita collettiva.
Comincia, nel frattempo, una fase particolarmente importante nella vita pubblica di Francesco. Il papa Leone X, nell’aprile del 1516, lo nomina prima commissario pontificio e poi governatore di Modena e del suo distretto. In seguito, le competenze giurisdizionali saranno allargate anche a Reggio. La carica costituisce l’inizio di un lungo servizio alle dipendenze della Chiesa. Guicciardini contrasta l’azione prepotente dei signorotti della zona, ristabilendo con durezza l’ordine e la legalità. Mostra anche insospettate capacità militari, difendendo prima Reggio, nell’agosto del 1521, e poi Parma, nel dicembre dello stesso anno, dall’assalto dell’esercito francese. Nel luglio del 1521 è nominato, in aggiunta alla sua funzione di governatore, commissario generale dell’esercito pontificio e nel 1523, in ricompensa dei servizi prestati, ottiene da papa Clemente VII la presidenza della Romagna.
Dopo la battaglia di Pavia del 1525 Guicciardini difende la necessità di una lega che si opponga allo strapotere di Carlo V in Italia. Ottiene anche il grado di luogotenente generale dell’esercito pontificio, ma i risultati della strategia antimperiale sono fallimentari. Il sacco di Roma decreta la fine di un’intera prospettiva politica. Guicciardini ritorna a Firenze, dove è stata restaurata la repubblica, ma è ormai guardato con grande sospetto e perfino messo sotto accusa. Si sposta a Roma nel 1530, dove pone mano alle Considerazioni intorno ai “Discorsi” del Machiavelli e all’ultima redazione dei Ricordi. Anche quando può ritornare a Firenze, diventa una presenza sempre più marginale. L’ascesa al potere di Cosimo I gli chiude ogni varco. Guicciardini termina la sua vita lavorando alla Storia d’Italia. La morte lo raggiunge il 22 maggio 1540.
Guicciardini ha fin dalla giovinezza una percezione chiara del contesto in cui è costretto a vivere. Già prima degli anni Trenta, segnala, infatti, con precisa intelligenza il quadro drammatico della storia che ha innanzi agli occhi. L’incipit del citato intervento Del modo di ordinare il governo popolare è una raffigurazione impietosa, lucida come un referto, delle condizioni in cui si trova la società fiorentina, schiacciata tra gli eventi della politica estera e l’irrazionalità dei reggimenti interni:
Due ragione principale mi fanno credere che la nostra città in processo di non molti anni, se Dio evidentemente non la aiuta, abbi a perdere la libertà e stato suo. La prima, che doppo tanti naufragi delle cose di Italia e poi che questi prìncipi aranno combattuto assai, pare ragionevole che in qualcuno sia per rimanere potenzia grande, el quale cercherà di battere e’ minori e forse ridurre Italia in una monarchia; il che ancora mi è più capace, considerando con quanta fatica al tempo che in Italia non erano prìncipi esterni si difendeva la commune libertà, ora quanto più sarà difficile, avendo sì grandi uccelli nelle viscere sue; ed in questo caso io veggo le cose nostre in grave periculo, perché noi non abbiamo forze sufficienti a difenderci, vivendo disarmati e trovandosi la città, a rispetto de’ tempi passati, con pochi danari, per essere declinate le mercatantie, e’ quali ci hanno più volte tenuti vivi (Del modo di ordinare il governo popolare, cit., p. 218).
Firenze e l’Italia, nell’analisi di Guicciardini, sono in correlazione inseparabile. Le invasioni francesi e la lotta con gli spagnoli per l’egemonia nella penisola sono un fattore che trasforma in maniera radicale gli equilibri tradizionali. I «tanti naufragi delle cose d’Italia» preparano una svolta assolutista, giacché il vincitore finale desidererà diventare il signore di tutto, spazzando via ogni Stato troppo piccolo, e perciò incapace di resistere. Ambirà, probabilmente, a «ridurre Italia in una monarchia» e cancellare la «commune libertà» che l’insieme dei singoli Stati era riuscito a mantenere. I «grandi uccelli» che hanno posato gli artigli nelle «viscere sue» non lasciano alcuno scampo. Costituiscono la novità di una storia mutata, uscita dai cardini soliti, e perciò completamente diversa da qualunque precedente.
Il nome Italia è, nel passo di Guicciardini, l’indicatore di uno spazio, riempito da molteplici soggetti politici, ognuno dei quali, singolarmente, è incapace di far fronte alla «tempesta» (la parola è guicciardiniana) che sta arrivando. Perciò il contraccolpo che la crisi scatena è esteso e coinvolge tutti. Gli Stati che occupano la penisola sono tutti indistintamente accerchiati: tutti messi in gioco, minacciati nella loro autonomia e a rischio di morte. Questa condizione non lascia nessuno spiraglio. Guicciardini assume le conseguenze che ne derivano e applica la sua riflessione al solo ambito in cui l’azione della politica possa trovare un senso. Questo ambito è la costituzione di un sistema di governo adatto alla natura delle vicende, tale da conservare la vita della città e degli uomini contro una «ruina» (altra parola del vocabolario guicciardiniano) incombente.
Perciò, escluso il piano relativo alle «cose d’Italia», espressione riassuntiva di un intreccio unico di fatti e di conseguenze connesse, l’uomo saggio non può che impegnarsi a considerare le possibilità di azione che restano. Gli eventi accaduti definiscono i limiti che circoscrivono le decisioni degli uomini e determinano le scelte utili e opportune. Guicciardini traccia per Firenze il modello di un reggimento che sia in grado di costituire il rimedio migliore agli sconvolgimenti presenti. Se le malattie generali della vita pubblica non possono essere tutte guarite, c’è però il mezzo di controllare le loro degenerazioni, governare il decorso che esse hanno e impedire che accelerino la fine di una città. Così, il Discorso mira ad annullare gli squilibri del governo repubblicano a Firenze ed esamina quale assetto istituzionale convenga alla storia e agli umori della città:
La seconda ragione è che el vivere nostro civile è molto difforme da uno ordinato vivere di una buona republica, così nelle cose che concernono la forma del governo, come nelli altri costumi e modi nostri: una amministrazione che porta pericolo o di non diventare tirannide, o di non declinare in una dissoluzione populare; una licenzia universale di fare male con poco respetto e timore delle legge e magistrati; non essere aperta via agli uomini virtuosi e valenti di mostrare ed esercitare la virtù loro, non proposti premi a quegli che facessino buone opere per la republica; una ambizione universale in ognuno a tutti li onori, ed una presunzione di volersi ingerire in tutte le cose publiche di qualunque importanza; gli animi degli uomini effeminati ed enervati e vòlti a uno vivere delicato e, rispetto alle facultà nostre, suntuoso; poco amore della gloria ed onore vero, assai alle ricchezze e danari. Queste ragione mi fanno male sperare di noi ma non desperare, perché io crederrei che se ne potessi sanare una gran parte e che se bene la cura è molto difficile, non sia però impossibile (Del modo di ordinare il governo popolare, cit., pp. 218-19).
In questo caso, le «cose d’Italia» costituiscono la cornice dentro cui si inscrive la vita di Firenze. E la salvezza della città è il fine principale della riflessione e dell’analisi che il politico svolge. Anche se non ha la stessa libertà incondizionata con cui aveva operato Licurgo per dare a Sparta buoni ordini, il politico avveduto ha nondimeno la responsabilità di pensare a soluzioni possibili e ragionevoli. Ottenere una forma di «buona istituzione e buono governo» vale qualunque sforzo. Il non ancora trentenne Guicciardini può arrivare perfino a scrivere che, per raggiungere un tale risultato, sarebbe pronto a qualsiasi cosa: «io senza alcuno reservo vi metterei e le facultà e la vita» (p. 259).
È nel successivo Dialogo del reggimento di Firenze, scritto alcuni anni dopo, che Guicciardini riprende in maniera organica la questione del governo di Firenze. L’opera costituisce la trattazione più globale compiuta da un pensatore programmaticamente asistematico come Guicciardini. Il dialogo pone, fin dal suo Proemio, una questione di metodo: quale significato ha parlare di buoni ordinamenti in un tempo di crisi, in un tempo ostile, difficile, che sembra essere impermeabile a qualunque riforma? A questa domanda ne seguono immediatamente altre, connesse alla prima e intrecciate alla sua sostanza: qual è il posto della riflessione politica tra le attività degli uomini? Qual è l’obiettivo dei suoi ragionamenti? E, infine, a quale risultato essi mirano?
Sono aspetti capitali nell’impianto dell’opera, dalla cui articolazione deriva l’architettura stessa delle idee, la legittimità che esse ricevono nello sviluppo delle tesi e la valutazione della loro efficacia. Il Dialogo nasce negli anni di massima responsabilità governativa di Guicciardini e procede con una lenta gestazione, che passa per tre fasi di stesura. Come ci informa l’autore nella seconda redazione del Proemio, poi scartata, i termini di inizio e di fine della composizione del testo coincidono con importanti novità pubbliche e con un aumento degli incarichi individuali:
avendole cominciate a scrivere [queste cose] a tempo di Leone, trovandomi per lui commessario generale nello esercito cesareo e suo nella guerra contro a’ franzesi, cura di tanto travaglio e occupazione che a pena lo può comprendere chi l’ha provato, le ho finite ora che per Clemente sono preposto al governo di tutte le città di Romagna, le quali sono turbulentissime e piene di infinite difficultà per le novità seguite in loro doppo la morte di Leone (Dialogo del reggimento di Firenze, a cura di G.M. Anselmi, C. Varotti, 1994, p. 244).
Si va, dunque, all’incirca, dal 1520 al 1526. Nel passaggio appena citato, il quadro politico fiorentino è rievocato solo indirettamente, ma è del tutto presente. Il richiamo ai due papi medicei, infatti, rinvia implicitamente all’assetto politico della città e al dominio restaurato degli antichi signori, tornati al potere nel 1512. Le «faccende» in cui è coinvolto, come l’autore stesso le riassume, sono, dunque, sul piano sia privato che generale, di «tanta importanza». Perciò, ancora più sorprendente può sembrare, a un testimone esterno, la volontà di Guicciardini di spendere il tempo e di consumarlo, «senza alcuna necessità e utilità» − come ancora lo stesso autore dichiara − nell’inseguire le elaborazioni astratte del suo «pensiero» (pp. 244-45). Per dare veste alle proprie riflessioni, egli sceglie, in aggiunta, la forma più prestigiosa della trattatistica classica: il dialogo, adottato nella maniera mimetica, senza il filtro, cioè, di un soggetto narrante, e affidato alle voci uniche degli interlocutori. Se Piero Guicciardini, padre di Francesco, nell’opera assolve piuttosto la parte di chi vuole ben intendere le ragioni messe in campo, Bernardo del Nero incarna il modello dell’uomo sapiente, dotato di esperienza e di giudizio. I suoi antagonisti polemici sono Piero Capponi, simbolo del partito degli ottimati, e Pagolantonio Soderini, sostenitore di Girolamo Savonarola e difensore del governo popolare. Ci sarebbero tutti gli estremi per giudicare questo testo guicciardiniano, per come egli lo annuncia, una stravaganza privata: un ulteriore «ghiribizzo», un’idea curiosa, un capriccio, una costruzione bizzarra, nata questa volta, però, a differenza dei lontani quaderni di note che costituiscono il nucleo dei successivi ricordi, nel pieno delle attività. Nel vivo del negotium e non nella quiete dell’otium.
A complicare il quadro si aggiunge un ulteriore elemento di ambiguità. Rispetto alla data di composizione, Guicciardini riporta drasticamente la scena del dialogo a una stagione remota, arrestandosi su un anno che aveva già assunto, agli occhi suoi e a quelli di un’intera generazione di storici, uno straordinario valore simbolico: il 1494. Questo spostamento all’indietro non è irrilevante, ma aiuta a comprendere il disegno del libro che sta nascendo. Se le tesi che si discutono sono sfasate rispetto all’attualità, sono utili per riflettere intorno al lungo periodo delle vicende fiorentine. Le osservazioni contenute nelle pagine del Discorso non riguardano, dunque, il tempo breve della cronaca. A questo, d’altra parte, Guicciardini aveva già reagito con indicazioni ben precise in due diverse occasioni: Del governo di Firenze dopo la restaurazione de’ Medici nel 1512 e Del modo di assicurare lo Stato alla casa de’ Medici. Nel discorso, l’analisi si estende, piuttosto, all’intero processo aperto dalla cacciata dei Medici: quell’evento che aveva prodotto, in mezzo al conflitto tra le diverse anime politiche della città (savonaroliani, aristocratici e filomedicei), la costituzione della repubblica.
Come si vede, tutti gli indizi portano verso una volontaria, esplicita dimensione inattuale dell’opera. Essa, in altre parole, si distacca dal presente, trascende i suoi vincoli e allarga lo sguardo all’intero orizzonte, di cui questo presente è ancora parte e senza il quale non può essere inteso. Anche se scritta negli anni Venti, si rivolge, così, all’indietro: al momento stesso in cui è cominciato un tempo nuovo, rinnovato nei modi di governare, nella tecnica della guerra, nel rapporto tra gli Stati. Il Dialogo si colloca, esplicitamente, all’inizio di quella storia drammatica che era stata inaugurata dalle guerre d’Italia e che aveva sconvolto ogni equilibrio. Cambia, con lo spostamento all’indietro, anche il quadro istituzionale che sta intorno all’intera discussione. Lo scenario diventa la repubblica, mentre, al contrario, nella realtà contemporanea degli anni Venti, i Medici sono al governo e hanno ripreso il loro sistema di alleanze e di potere. Se Guicciardini intende delineare un modello di reggimento per Firenze, lo fa con la cognizione della distanza che c’è tra il pensiero e i fatti: tra il ragionamento dei suoi personaggi, le possibilità che si stanno sviluppando intorno a loro, e la storia precisa degli anni vicini.
Tuttavia, Guicciardini ritiene che il confronto tra posizioni diverse che egli registra non sia inutile. A difendere la legittimità del ragionamento che si appresta a riprodurre, rivolgendolo a un pubblico interamente virtuale, quale è sempre quello dei testi che scrive, egli allega, nel Proemio dell’opera, l’autorità e l’esperienza di Platone. La situazione del filosofo greco sembra essere la più simile a quella che egli vive. Le idee dell’autore della Repubblica erano deliberatamente lontane dalla realtà specifica degli ateniesi. Esse nascevano, anzi, precisamente in antitesi a comportamenti ritenuti inadeguati e irrazionali:
[gli ateniesi] a tempo suo erano in modo diventati licenziosi e insolenti, che, non che egli tentassi di fargli ricevere buona amministrazione, ma, come si truova scritto in una sua pistola, disperato che mai più s’avessino a governare bene, non volle mai mescolarsi né travagliarsi della loro republica (p. 13).
Come si capisce, non c’è alcuna illusione di mettere in atto un programma che resta, sotto il profilo dei fatti, ipotetico e astratto e che si propone, perciò, come un modello di buon governo. La dignità e il risarcimento di quanto si scrive consistono interamente in un piacere intellettuale: nell’«applicare l’animo» e «consumare ancora qualche parte del tempo nella contemplazione di sì onesta e sì degna materia» (p. 13).
In modo analogo, l’opera che Guicciardini compone può essere distante dalla situazione del popolo fiorentino contemporaneo e non direttamente applicabile al contesto in cui la città si trova. La forza che il Dialogo rivendica non sta, perciò, nella trasferibilità pratica dei suoi contenuti a una congiuntura specifica, come se si trattasse di un intervento mirato, necessario a risolvere un problema circoscritto e urgente. Consiste, invece, nella capacità di dare coerenza alle questioni discusse e di sistemare all’interno di una cornice teorica chiara, rigorosa, ben fondata, le azioni, le scelte, le decisioni degli uomini di Firenze nelle guerre d’Italia.
Per esaltare la dimensione intellettuale del proprio ragionamento, Guicciardini evita ogni confusione con l’attualità politica e proietta la sceneggiatura del suo Dialogo in un momento anteriore, in cui le cose fiorentine potevano ancora prendere qualunque direzione. Il 1494 è l’anno zero: l’origine che segna una netta cesura tra il prima e il dopo. L’opera, in questo modo, acquista valore perché riflette su un tema più che su una circostanza. Mostra quale possa essere la migliore soluzione per la storia di Firenze e, perciò, considera, nei suoi protocolli costitutivi, la forma dei «governi publichi, da’ quali dipende el bene essere, la salute, la vita degli uomini e tutte le azione egregie che si fanno in questo mondo inferiore» (p. 13).
Il Dialogo si inserisce a pieno titolo, per questa via, in una tradizione precisa di scritture politiche, che poteva andare dal Trattato di Savonarola agli stessi Discorsi di Niccolò Machiavelli, e lo fa adottando una tipologia formale classica come quella dialogica, diversa sia dall’impianto savonaroliano sia dal commentario liviano di Machiavelli.
A queste considerazioni va aggiunto un ultimo corollario, ripreso ancora da un passaggio del Proemio. Guicciardini utilizza un’ulteriore osservazione per rivendicare la legittimità della propria fatica. Richiama, infatti, l’imprevedibilità degli eventi, che possono sorgere dal nulla e cambiare, all’improvviso, l’assetto delle cose: nelle esperienze ordinarie o nella vita degli Stati. È una legge generale delle vicende naturali che, come è noto, torna con continuità nei testi di Guicciardini. Anzi, essa è l’assioma su cui si fondano le sue analisi. Così, in nome di questa imprevedibilità degli
accidenti che tuttodì portono seco le cose umane, può a ogn’ora nascere, che così come in uno tratto da uno stato populare la venne allo stato di uno, possi ancora con la medesima facilità ritornare dallo stato di uno alla sua prima libertà (p. 14).
Conta, dunque, al di fuori della ciclicità possibile delle forme politiche, servirsi soprattutto di analisi efficaci. La loro inattaccabilità storica e concettuale è la sola garanzia di una riflessione ben esercitata.
D’altra parte, come Bernardo del Nero ricorda ai suoi interlocutori, «noi ragioniamo per trovare la verità, non per disputare» (p. 64), ed essa non può che emergere attraverso il confronto dei punti di vista, il conflitto delle opinioni volta per volta manifestate, le obiezioni rivolte alle affermazioni altrui: secondo l’autentico valore argomentativo del dialogo e secondo quella procedura di discorsi contrapposti che sarà anch’essa cara al futuro scrittore della Storia d’Italia. Questa procedura offre da sola «documenti accomodati e utili a molte parte del vivere nostro» (p. 13).
Non sorprendono, in una tale prospettiva, i nomi con cui l’autore classifica, volta per volta, il proprio Dialogo. Egli, infatti, definisce l’insieme del ragionamento sotto l’etichetta riassuntiva di «pensiero» o, con una variante ancora più pregnante, sotto la qualifica di «discorso». L’impiego di questo secondo termine richiama naturalmente il titolo dell’opera machiavelliana, che Guicciardini mostra di conoscere assai bene e che discute in molti passaggi di questa stessa opera, ancor prima di arrivare, pochi anni dopo, alla stesura delle Considerazioni sui “Discorsi” del Machiavelli.
Adottando lo stesso lemma anche per la sua opera, Guicciardini inscrive risolutamente il lavoro appena compiuto in un ambito teorico precisamente caratterizzato. Definisce il testo con vocaboli che vanno tutti nella medesima direzione:
potrebbe ancora questo pensiero e discorso non essere del tutto inutile (Dialogo del reggimento di Firenze, cit., p. 14);
in questo discorso non sarà parte alcuna di invenzione (p. 15);
Come se la volontà ed el desiderio degli uomini non potessi essere diverso dalla considerazione o discorso delle cose, o come se da questo ragionamento apparissi quale di dua governi male ordinati e corrotti mi dispiacessi manco (p. 18).
La sua opera è, dunque, un ragionamento: una considerazione, un pensiero o discorso, che trae autorità dall’efficacia degli argomenti utilizzati. Tanto più tale pensiero è in grado di essere persuasivo quanto più spiega i possibili esiti, riconosce relazioni tra aspetti diversi e ne sa vedere le motivazioni profonde. In questo modo soltanto diventa teoria politica: un sapere rigoroso, innanzi tutto, che si fonda sulla forza esclusiva delle dimostrazioni prodotte e che non può trascurare nessun dettaglio, pena la riuscita dell’intera elaborazione. Senza il rispetto di questi protocolli non c’è alcuna garanzia di conoscere bene e, dunque, di bene operare. Per questo, chi ragiona di politica non può fissare modelli universali, ma deve conoscere le particolarità della città, i suoi umori, la condizione dei tempi, le competenze che sono al suo interno, e dall’insieme di questi fattori può ricavare la forma di governo che meglio si adatti a una determinata realtà. Senza questa intelligenza, qualunque discorso è generico e infecondo, e corre il medesimo rischio che corse Platone, il quale cercò «uno governo immaginato e che sia più facile a apparire in su’ libri che in pratica» (p. 146).
In questa censura Platone non è l’unico colpevole. Guicciardini unisce in una sola ironica condanna l’atteggiamento di tutti i filosofi, responsabili di un’uguale astrattezza. Essi percorrono l’opposto delle vie da seguire affinché un ragionamento sulle cose della politica sia vantaggioso. Esattamente come i teologi, che «scrutano le cose sopra natura o che non si veggono» (Ricordi, a cura di G. Palumbo, 2009, ric. 125), sono metodologicamente inadatti a guidare al risultato maggiore a cui la politica può arrivare: conservare la vita e la salute di un’intera comunità.
Se Guicciardini, nella lotta tra gli schieramenti rivali nella Firenze e nell’Italia sconvolte dei suoi anni, fu un ‘conservatore’, lo fu in questo significato drammatico e severo: «del buono governo ne seguita la salute e conservazione di infiniti uomini, e del contrario ne resulta la ruina ed esterminio della città» (Del governo di Firenze dopo la restaurazione de’ Medici, in Id., Discorsi del reggimento di Firenze, cit., p. 261). Tra le tre forme classiche di governo (di uno, di pochi, di molti), egli rinuncia a scegliere in base a principi universali, e ritiene che la validità di ciascuna di esse sia giudicabile solo in base agli «effetti» prodotti. Questo pragmatismo metodologico, che ancora la legalità di una tesi alla realtà a cui si applica, impedisce ogni utopia o qualunque pregiudiziale astratta. Gli unici elementi di valutazione, positivi o negativi, dipendono dai benefìci ottenuti o dai danni procurati. Non è perciò possibile approvare un ordinamento senza riferirsi alla concretezza di una città e senza considerare la sua condizione. Ogni procedura diversa è difettosa e irreale.
All’altezza di quest’opera, la politica, come in Machiavelli, occupa l’intero orizzonte dell’esistenza. È un sapere autosufficiente, incondizionato, regolato solo dalla legittimità delle scelte che compie. Non ha limiti esterni e si regge sulla coerenza delle decisioni volta per volta assunte. Quasi a vidimare l’emancipazione di questa scienza dalle interferenze estranee ai suoi obiettivi, Guicciardini scrive, nelle pagine finali del suo Dialogo, che Bernardo del Nero ha parlato «secondo la ragione e uso degli stati». Aggiunge, inoltre, quasi a sottolineare le conseguenze di una tale affermazione, che «è impossibile regolare e’ governi e gli stati, volendo tenerli nel modo si tengono oggi, secondo e’ precetti della legge cristiana» (p. 231) e che «chi vuole vivere totalmente secondo Dio, può mal fare di non si allontanare totalmente dal vivere del mondo, e male si può vivere secondo el mondo sanza offendere Dio» (p. 231). Buoni ordini, precisa ingegneria istituzionale, regolamenti rigorosi nel fissare il reciproco rapporto tra gli organismi della repubblica: sarà il modo guicciardiniano per proteggere la vita che ancora resta e impedire che «precipiti mille volte». L’equilibrio politico, a cui ciascuna parte sociale arreca il contributo di cui è capace, in termini di competenze e di mansioni, rappresenta per lui un rimedio ancora possibile, capace di garantire quella soluzione che le condizioni dei tempi permettono.
Il Dialogo ritrova un modello logico e storico conveniente agli «umori» di Firenze, alle tradizioni che l’hanno formata, alla concretezza della sua identità, ma evita, simultaneamente, che le soluzioni identificate si riducano a comprendere un solo caso. L’ambientazione inattuale in cui esso si svolge trasferisce la sostanza dei ragionamenti in un tempo anteriore, congiunto al presente, ma anche distinto dalla sua contingenza. La repubblica dei buoni ordini si trasforma, così, nell’espressione di un’idea: il punto di arrivo di una riflessione globale, che considera l’insieme delle forze attive nel vivo della storia e le compone in un sistema rigorosamente bilanciato. Per intendere una tale soluzione si potrebbe utilizzare la formula adottata da Giancarlo Mazzacurati per descrivere l’operazione compiuta da Pietro Bembo: un «platonismo ‘storicizzato’», che costituisce «una concreta indicazione di modelli storici e reali cui uniformarsi» (G. Mazzacurati, Misure del classicismo rinascimentale, 19902, p. 140).
Grazie a questo compromesso, che unisce le costruzioni della mente con l’ineliminabile realtà delle cose, Guicciardini allestisce un bilancio di quel passato, che era nato dalla «fiamma e dalla peste» dell’invasione francese, e ne estrae un promemoria per sé e per Firenze.
In Del governo di Firenze dopo la restaurazione de’ Medici Guicciardini avverte che
in tutte le cure ed amministrazioni che hanno li uomini, nessuna cosa si appartiene più a uno uomo savio e circunspetto che, esaminata diligentemente la qualità del peso che hanno in mano, capitolarla una volta e fermare el punto (in Id., Discorsi del reggimento di Firenze, cit., p. 260).
«Capitolare» e «fermare el punto»: sono i due presupposti di ogni conoscenza. Guicciardini rinuncia «a parlare generalmente», sapendo che «una medesima regola non basta», e sceglie di «ristrignersi a uno particulare solo». I suoi discorsi hanno innanzi un problema specifico, di cui si provano a indicare la soluzione. Si propongono come esempio di quel genus ad dicendum a cui l’oratoria classica dava la qualifica di quaestio finita: un protocollo logico e procedurale relativo a de certa definitaque causa, quales sunt quae in litibus, quae in deliberationibus versantur («intorno a una precisa e determinata causa, quali sono quelle che riguardano le controversie o le deliberazioni», Marco Tullio Cicerone, De oratore, II, 15, 66).
Con frequenza, nel suo lessico, ricorre la metafora organica e classica della città come «corpo»: un corpo composto di parti distinte, con interessi e bisogni separati, che tuttavia è necessario saper disciplinare e ridurre in armonia. Il dovere del riformatore politico è quello del «medico», e analogamente la sua funzione elementare consiste nel «conservare la vita» del malato. Perciò deve «usare» la
più esatta diligenzia [...] in conoscere quale sia la natura del male, e capitulare un tratto le qualità e tutti li accidenti sua per resolversi poi con questo fondamento quale abbi a essere el reggimento dello infermo, di che sorte e in che tempo si abbino a dare le medicine; perché non fermando bene questo punto, ordinerebbono spesse volte una dieta, darebbono medicine non proporzionate alla malattia, contrarie alla complessione ed essere dello infermo; donde ne seguirebbe la totale ruina e morte del loro ammalato (Del governo di Firenze dopo la restaurazione de’ Medici, cit., p. 260).
Una conferma immediata di un tale empirismo si trova nella strenua e continua difesa del ruolo dirigente assegnato agli «uomini savi ed esperimentati», destinati a occupare il culmine dell’ordinamento istituzionale, qualunque questo sia. Essi rappresentano infatti il complemento decisivo del potere; appartengono per natura al suo luogo, ne sono un predicato essenziale, una figura necessaria. Garantiscono razionalità, equilibrio, duttilità, preservando lo Stato dagli eccessi in cui lo possono trascinare la supremazia del popolo, «animale pazo, pieno di mille errori, di mille confusione, sanza gusto, sanza delecto, sanza stabilità» (Ricordi, cit., ric. 140) oppure il governo assoluto e incontrollato di un tiranno «bestiale et crudele» (ric. 101). È così inevitabile che essi costituiscano l’asse di ogni programma istituzionale e che a loro sia affidato il «timone» della vita pubblica. Di fatto, non ci sono ragioni giustificate perché i savi di una città non cerchino, in ogni momento, di convivere con chi governa, provando a dirigerlo o almeno, nei casi estremi, ad arginare le degenerazioni del suo comando. Anche «quando la patria viene in mano di tyranni», «uficio di buoni cictadini» è «cerchare d’havere luogo con loro per potere persuadere el bene et detestare el male» (ric. 220).
La ricerca ininterrotta di una corrispondenza tra la forma del potere e la guida invariabile degli «uomini savi», che hanno ereditato dalla storia la legittimità della loro egemonia, è l’idea persistente degli interventi politici di Guicciardini. In ciascuno di essi si afferma l’esigenza di controllare e di governare, fin dove sia lecito ai progetti umani, il corso degli eventi. All’impegno della ragione si affianca tuttavia la consapevolezza di dover subordinare i propri desideri, come testimonierà il ricordo 138, alla curva inalterabile del destino:
Né e pazi né e savii non possono finalmente resistere a quello che ha a essere: però io non lessi mai cosa che mi paressi meglo decta che quella che dixe colui: “Ducunt volentes fata, nolentes trahunt”.
La speculazione teorica, in qualsiasi ambito, consiste essenzialmente, per Guicciardini, nell’indagine di una realtà data, da cui la ragione deve saper estrarre l’ipotesi logicamente più forte e inattaccabile. Questa esigenza congiunge opere diverse e collega i testi d’impostazione esplicitamente politica con le opere che nascono negli anni Trenta: i Ricordi, riscritti completamente nel 1530 rispetto alle precedenti sistemazioni, le Considerazioni intorno ai “Discorsi” del Machiavelli, che nascono come note a margine, come glosse laterali e indicano il lavoro capillare di decostruzione punto per punto delle tesi machiavelliane, e, infine, la Storia d’Italia, che diventa l’ultimo giudizio sulla storia vissuta.
L’intelligenza delle cose, la capacità di intendere il loro flusso, la comprensione dei meccanismi con cui gli uomini osservano e decidono, si identifica, nel vocabolario di Guicciardini, con una categoria mobile, duttile ed empirica, che è la discrezione. Questo atteggiamento è al cuore della riflessione messa in atto nei Ricordi. Il concetto che la parola definisce, infatti, è alla base del metodo che egli edifica e a cui affida la correttezza di ogni decisione: sia speculativa ed esistenziale quanto fattuale e politica. La discrezione consente l’azione ragionevole e ben calcolata, qualunque sia l’ambito a cui si applichi: militare, pragmatico, logico, linguistico. Riduce, per quanto è lecito, i margini di arbitrio o di casualità e di oscuro che avvolgono le cose degli uomini. Obbliga all’osservazione minuziosa di ogni particolare, impedisce di trascurare ciascun dettaglio, anche quello apparentemente più irrilevante e, raccogliendo tutti i fattori possibili, formula la spiegazione di un evento (se pensiamo al discorso storico), oppure illustra il presupposto di un provvedimento (se ragioniamo secondo le modalità politiche del reggimento degli Stati), o anche suggerisce l’interpretazione di un lemma, o autorizza lo scioglimento di un proverbio, oppure illumina il significato di un detto (se consideriamo le procedure argomentative con cui sono sviluppati tanti ricordi). Dal rispetto o dalla negligenza del protocollo metodologico che essa impone dipende, perciò, il giudizio positivo o negativo sulle scelte che gli uomini compiono. L’uso del vocabolo si colloca sul confine sottile che congiunge e insieme separa un termine antico e un’esigenza moderna. Mantiene la nominazione classica che una tradizione ha assegnato e, tuttavia, riempie la sua ridefinita identità con la ricchezza semantica di pensieri nuovi. Anche la «discrezione», così, entra nel vocabolario con cui la generazione maturata nella crisi di fine Quattrocento pensa la politica e, globalmente, riflette sulla storia e intorno all’esperienza degli uomini.
Disponibilità perennemente mobile, forma senza contenuto, adeguamento alla morfologia frastagliata e discontinua delle vicende: la discrezione sollecita ininterrottamente la capacità del soggetto di osservare l’intero fenomeno su cui ferma il proprio occhio. Solo attraverso un minuzioso e implacabile esame, che dona unicità alla questione, questo soggetto, innalzato veramente alla condizione di «uomo savio», può scegliere le soluzioni pertinenti al caso che ha dinanzi. L’elogio massimo di questa qualità, che si sottrae a qualunque classificazione tenti di bloccarla in una formula, si ha, ovviamente, nel ricordo 6:
È grande errore parlare delle cose del mondo indistinctamente et absolutamente et, per dire così, per regola, perché quasi tucte hanno distinctione et exceptione per la varietà delle circunstantie, [le quali] a non si possono fermare con una medesima misura: et queste distinctione et exceptione non si truovano scripte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discretione.
Nelle righe finali di questo ricordo deflagra definitivamente, come un postulato ormai acquisito, l’idea di una riduzione in gruppi finiti dei fatti umani. La legge che li riguarda si smarrisce nella serie inesauribile delle «distinctione et exceptione»: due requisiti connessi nella sintassi del ricordo, in una successione plurale, che prolunga nel numero stesso la moltiplicazione dei dati. La discrezione è il sapere consapevole di questa inesauribile «varietà delle circunstantie».
La coscienza acuta di un reale mai uguale determina una conseguenza inevitabile. Se le radici su cui la discrezione si fonda sono così poco tenaci, libere e flessibili, pronte ad attecchire su qualunque terreno, qualsivoglia conformazione esso abbia, per quali canali può apprendersi la scienza di cui ha bisogno e di cui si nutre? Le risposte che Guicciardini fornisce, nella trama concettuale dei Ricordi, descrivono un apprendimento complesso, composito, che ha bisogno di più fattori, ognuno dei quali collabora all’acquisizione di quella particolare sapienza, atta a descrivere e a comprendere gli accidenti del mondo. Il sapere che la discrezione mette in atto nasce dalla sintesi perfetta, difficile come un complicato gioco d’equilibrio, tra due requisiti, entrambi indispensabili e necessari. Tali requisiti sono fattori distinti, che pure, tuttavia, si combinano in un’inseparabile unità. Da una parte, occorrono le capacità e le doti naturali. Ma esse da sole non bastano. Per poter dare i loro frutti, hanno bisogno di intrecciarsi con un altro elemento, storico e pratico, che le completi e le renda feconde. Fuso, mescolato con l’intelligenza istintiva, occorre qualcosa d’altro, che sappia trasformare la qualità virtuale della mente in un esercizio reale, in grado di intendere l’unicità dei fenomeni.
Questa comprensione autentica non si raggiunge senza l’aggiunta imprescindibile dell’esperienza. Nessuna delle due parti da sola basta. La destrezza della mente è insufficiente senza la ricchezza e la variabilità dell’esperienza. Ma quest’altra non va scissa dal controllo e dalla disciplina che la ragione introduce. La sintesi equilibrata tra l’una e l’altra congiunge l’astrazione della mente con i dati della vita. A questa disposizione sempre cangiante, che affronta i casi uno per uno e che rinuncia programmaticamente a giudicare le cose del mondo da lontano, obbligando, invece, a «giudicarle et resolverle giornata per giornata» (ric. 114), Guicciardini dà il nome antico e nuovo di discrezione. La duttilità che essa pretende non si sostituisce ai principi buoni della ragione, ma ne costituisce, piuttosto, il complemento dinamico e creativo.
Nel ricordo 10 il confronto che lo scrittore istituisce è precisamente tra la «prudentia naturale» e «l’accidentale della experientia». Nessuno può credere che la prima da sola sia sufficiente. Al contrario, è proprio l’accidentale che l’esperienza offre a perfezionare la virtù naturale e a darle valore. Lasciata sola, essa sarebbe statica, inerte; nutrita delle convalide che l’esperienza offre, si potenzia e, grazie al suo riscontro, «si aggiugne a molte cose alle quali è impossibile che el naturale solo possa aggiugnere». La dinamica delle varianti, che Guicciardini introduce nella scrittura del ricordo, consente di mettere a fuoco la genesi del ragionamento e il modo con cui la sua sostanza si precisa e si definisce. La prudentia naturale, di cui in prima stesura si dice «quella bastare sanza el naturale della experientia», evolve nella successiva formulazione in «quella bastare sanza l’aggiunta della experientia», per approdare, infine, a «quella bastare sanza l’accidentale della experientia», con recupero della «contrapposizione tra naturale e accidentale [che] si ripropone in C 47» (G. Palumbo, introduzione a F. Guicciardini, Ricordi, cit., p. LIV).
Ai fini del nostro ragionamento conta quel processo di sostituzione sempre più mirato, che corregge e integra, con uno sforzo di massima distinzione, il «naturale» prima con l’aggiunta e, infine, ricorrendo a un termine così guicciardiniano, con l’accidentale dell’experientia. Solo quando l’accidentale, che unifica la memoria dei casi e la concretezza del loro molteplice essere, «si riscontra col naturale buono, fa gli huomini perfecti et quasi divini» (ric. 47).
Ragione e prudenza, nel processo che qui si illustra, dipendono dal naturale buono. L’esperienza, invece, accumula le prove che rendono il sapere incisivo ed efficace. Al punto di incrocio tra l’una e l’altra, collocandosi tra la bontà astratta del giudizio naturale e la varietà insostituibile dei fatti, la discrezione procede a un esercizio ogni volta esclusivo e rischioso. Sceglie adattandosi alla necessità delle cose. Si confronta con la loro irriducibile singolarità e privilegia la soluzione che più appare conforme al loro specifico essere. Nel ricordo 213 Guicciardini richiama la difficoltà di qualunque decisione, giacché
nessuna cosa è sì ordinata che non habbia in compagnia qualche disordine, nessuna cosa sì trista che non habbia del buono, nessuna sì buona che non habbia del tristo.
Davanti alla complessità di un tale intreccio, gli uomini esitanti, «rispectivi», restano «sospesi», incerti sul partito da prendere. In opposizione alla indecisione che li cattura, esiste un’altra strada:
Non bisogna fare così, ma, pesati gli inconvenienti di ciaschuna parte, risolversi a quelli che pesano manco, ricordandosi non potere piglare partito che sia necto et perfecto da ogni parte.
La discrezione è precisamente quest’arte difficile, sempre sperimentale e senza sicurezze predeterminate, di «pesare gli inconvenienti» e di «risolversi a quelli che pesano manco».
La vita degli uomini, ogni ambito del loro conoscere, è assoggettata alla medesima disciplina. Nel ricordo 111 Guicciardini contesta la presenza di regole generali che possano anticipare e comprendere tutti «e casi particulari». Non essendo possibile che siano tutti «decisi a punto dalla legge», «bisogna conietturarli con le opinione degli uomini». E questa condizione è simile in tutti i campi delle scienze umane. Non riguarda solo i giuristi e coloro che devono applicare la legge. Sono «e vulgari» coloro che si illudono di una tale limitazione e che pensano che la molteplicità delle interpretazioni riguardi unicamente questa disciplina e l’insufficienza dei suoi esegeti. Al contrario, la proliferazione dei punti di vista è interna alla forma strutturale della conoscenza e coinvolge qualunque sapere:
Vediamo el medesimo ne’ medici, ne’ philosophi, ne’ giudicii mercantili, ne’ discorsi di quelli che governano lo stato, tra ’ quali non è manco varietà di giudicio che sia tra ’ legisti.
La conoscenza che gli uomini attingono è inseparabile da questo conflitto di opinioni e di interpretazioni. Solo il confronto e lo scontro che esse determinano permette di guardare a fondo nelle cose. Nessuna scelta, tuttavia, impedirà di avvertire, dentro di sé, l’azzardo che qualunque decisione strutturalmente implica. E perciò sarà sempre accompagnata da quel «tormento» che diventa una parola nuova nel vocabolario dei Ricordi.
Si capisce, in tal modo, quale sia ormai il ruolo dell’uomo savio. Da figura politica, garante del funzionamento dei buoni ordini, egli è diventato un soggetto isolato, una pura attività conoscitiva, un teorico delle differenze, che si affida all’occhio della propria mente per afferrare le imprecisabili, mutevoli e sempre nuove circostanze del vivere.
Si sa che Guicciardini pensò, negli anni Trenta, di raccontare i fatti che erano accaduti dopo la guerra di Pavia del 1525. Si trattava di avvenimenti che lo scrittore aveva vissuto da protagonista e che erano sfociati nella catastrofe del sacco di Roma. Guicciardini era stato luogotenente dell’esercito pontificio e aveva in prima persona sostenuto l’utilità di promuovere una lega contro Carlo V. Proprio per la straordinaria importanza di queste scelte e in ragione delle conseguenze che avevano determinato egli pensava di dover analizzare i fatti e mettere ordine nel loro svolgimento. L’impresa, tuttavia, si rivelò ben presto ardua. Per lo storico che intendeva raccontare quello specifico episodio, sempre più espressione della crisi di un mondo intero, diventò soprattutto evidente che bisognava procedere in altro modo. Non era possibile raccontare il sacco di Roma senza fare una specie di anamnesi della storia recente nel suo insieme. Né era possibile isolare un singolo evento dalla rete di rapporti in cui era compreso. Era indispensabile, per capire, andare oltre. Bisognava allargare l’orizzonte di riferimento: sia in senso spaziale, geografico, quanto lungo l’asse del tempo. Gli anni della luogotenenza si fusero, così, con la stagione lunga, tormentata, crudele delle guerre d’Italia. Il saccheggio di Roma, avvenuto nell’annus terribilis 1527, diventò solo l’epilogo di una catastrofe progressiva, la conclusione drammatica di una tragedia sempre più ampia, luttuosa e fatale, cominciata nel 1494. I commentarii, a quel punto, erano insufficienti. Ci voleva un altro e diverso respiro. Da questa prospettiva lunga nacque, allora, la Storia d’Italia.
Stavolta, anche rispetto alle incompiute Cose fiorentine, la storia d’Italia è davvero il centro del ragionamento, l’oggetto pieno della rappresentazione storica. Firenze è uno dei tanti pezzi di un sistema più grande e importante, la cui complessità lo storico prova a sciogliere e dipanare. D’altra parte, la struttura dell’esordio è di tale ricchezza da offrire al lettore i nuclei dell’intera opera e mettere in gioco tutti gli elementi che ne costituiscono l’originale grandezza.
La prima frase della Storia d’Italia mette immediatamente innanzi al lettore i motivi principali che strutturano materia e forma del racconto:
Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia, dappoi che l’armi de’ franzesi, chiamate da’ nostri principi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla (Storia d’Italia, a cura di E. Scarano, 1981, p. 87).
Come in una scenografia rigorosa, l’autore presenta in un ordine consecutivo quattro elementi: la decisione di scrivere, la materia del racconto, fissata con un preciso indice cronologico, la responsabilità dei governanti e gli effetti prodotti dalla discesa delle armi francesi in Italia. Ciascuno di questi fattori assume un proprio ruolo nel quadro generale del ragionamento e l’Italia è il teatro in cui si svolgono gli avvenimenti che lo scrittore s’incarica di raccontare.
L’io che narra si impegna a mettere in ordine la dinamica degli eventi. Determina i rapporti tra le cose accadute, isola le loro cause, spesso complesse e aggrovigliate, scava nei pensieri e nelle decisioni di quanti hanno agito, analizza le passioni che li hanno mossi. L’«acte solennel de fondation» (R. Barthes, Le bruissement de la langue, 1984, p. 166), con cui l’autore delibera di scrivere, dà avvio a un altro tempo, che si oppone al tempo cronologico in cui sono accadute «le cose d’Italia». Lo storico sostituisce la trama misteriosa dei suoi avvenimenti con l’ordine artificiale del racconto. Questa realtà di secondo grado dipende precisamente da quell’atto di creazione che si organizza nel «temps-papier» (p. 167) del discorso storiografico.
«Scrivere le cose accadute» obbliga a definire la loro verità. Essa è sepolta nelle carte conservate dentro gli archivi, nelle lettere degli ambasciatori, nelle pagine lasciate da altri testimoni o interpreti. Tutte le notizie ottenute dovranno essere messe a confronto, spesso vagliate l’una contro l’altra e giudicate per la coerenza e la ricchezza delle informazioni fornite. Questo esame è il fondamento del lavoro storico. La ricerca rigorosa di fonti o di testimonianze riguarda la responsabilità conoscitiva di colui che scrive. Trova necessità nel compito che l’autore assume, preparandosi a mostrare i fatti atroci di cui, in parte, è stato lui stesso protagonista e spettatore.
La solennità dell’incipit della Storia d’Italia diventa inseparabile dalla specifica materia contenuta nell’opera. Non si tratta di illustrare la storia di uno Stato: come avevano fatto, per es., Leonardo Bruni o Poggio Bracciolini o, sia pure con una prospettiva diversa, lo stesso Machiavelli delle Istorie fiorentine. Il tema, questa volta, è più esteso e originale. Riguarda l’intera penisola italiana, diventata il campo di una contesa che coinvolge tutte le forze europee.
Perciò il capitolo di storia, incominciato dopo il 1494, «dappoi che l’armi de’ franzesi, chiamate da’ nostri principi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla [l’Italia]», separa irreversibilmente gli anni e inaugura un tempo nuovo. Segna la cesura tra la pace e la guerra, tra la stabilità e il disordine, tra la continuità e la crisi, tra la fiducia nei modelli e l’impossibilità di averne. Precisamente in questo spazio di passaggio e di cambiamento si situa l’intero progetto da cui nasce la Storia d’Italia: «la volonté de comprendre et de faire comprendre le sens d’un moment historique que la vision parcellaire des acteurs ne peut pas discerner» (Fournel, Zancarini 2002, p. 312).
Il termine che più di tutti richiama il sentimento drammatico di quanto è accaduto è il verbo «perturbare»: primo esempio di un lessico che, nel corpo dell’opera, inclinerà sempre più vistosamente verso il terribile, fino alla massima apocalisse dell’anno 1527, in cui si sommeranno «mutazioni di stati», «cattività di principi», «sacchi spaventosissimi di città», «carestia grande di vettovaglie», «peste quasi per tutta Italia grandissima; pieno ogni cosa di morte di fuga di rapine» (Storia d’Italia, cit., p. 1719). Di fronte a tali casi l’autore non può offrire il guadagno di nessuna saggezza. Chi legge non troverà esempi positivi a cui rivolgersi. I «salutiferi documenti» che può offrire lo storico, gli insegnamenti che la sua amara scienza indica al lettore implicano solo acquisizioni negative. Non contengono modelli rassicuranti, stabili e universali, il cui premio è la vittoria sull’irrazionale e sul caos. Al contrario, essi descrivono il trionfo incondizionato della Fortuna. Al primo posto delle vicende umane c’è, infatti, l’«instabilità» a cui sono sottomesse le «umane cose», «né altrimenti che uno mare concitato da’ venti». Questa è la suprema lezione che si può trarre «per sé proprio e per bene pubblico».
La potenza della Fortuna è tanto più grande quanto più cieche appaiono le decisioni che dovrebbero contrastarla. La storia d’Italia diventa l’illustrazione delle debolezze degli uomini grandi, le cui colpe hanno una doppia, negativa conseguenza. Non solo, infatti, esse nocciono a coloro che ne sono i primi responsabili, ma estendono i loro effetti sulle sorti della «salute comune». Il giudizio negativo coinvolge, dunque, precisamente i signori della Terra: re, papi, regnanti di ogni genere, che hanno tutti collaborato all’irreversibilità della crisi italiana. Soprattutto attraverso il racconto del loro agire e la verifica degli effetti derivati, emergeranno le ragioni che hanno condizionato gli eventi, imprimendo quella direzione nefasta che ora, post res, lo storico può seguire fino alle estreme conseguenze.
onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà [...] quanto sieno perniciosi, quasi sempre a se stessi ma sempre a’ popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano, quando, avendo innanzi agli occhi o errori vani o le cupidità presenti, non si ricordando delle spesse variazioni della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la potestà conceduta loro per la salute comune, si fanno o per poca prudenza o per troppa ambizione, autori di nuove turbazioni (Storia d’Italia, cit., pp. 87-88).
La sceneggiatura del primo libro contiene, come in un microcosmo, tutti i motivi che, nello sviluppo dell’opera, diventeranno sempre più predominanti. Ne nasce un teatro agitato da desideri cupi e da ambizioni perverse, ognuna delle quali determina le azioni dei personaggi. Si comincia con Alessandro VI, di cui si segnala «la cupidità sfrenata della esaltazione de’ figliuoli» (p. 102). Di Ludovico il Moro si afferma che «era noto quanto egli con sfrenata ambizione ardesse di desiderio di parere l’arbitro e quasi l’oracolo di tutta Italia» (p. 132); sono ancora due passioni devastanti, come «la cupidità di usurpare il ducato di Milano, e la paura che aveva degli Aragonesi e di Piero de’ Medici» (p. 224), a spingere Ludovico a sollecitare Carlo VIII all’impresa italiana.
«Ambizione», «cupidigia», «insolenza», «timidità»: è un concentrato di tutti i disvalori dell’universo guicciardiniano. Niente di diverso accade se ci si riferisce al modo con cui Guicciardini presenta Carlo VIII. Le sue decisioni si fondano, come avviene per Ludovico, più su «la temerità e l’impeto» che sulla «prudenza e il consiglio» (pp. 154-55), fino al punto che l’autore lo rappresenta, in un ritratto tra i più famosi dell’intera Storia, con i tratti «più simile a mostro che a uomo». Né è diverso il profilo di Piero de’ Medici, basato sulla «superbia» e sul «procedere immoderato» (p. 173) o quello di Alfonso d’Aragona. Dappertutto asimmetria tra la serie degli avvenimenti e le scelte dei soggetti. In un modo e nell’altro, le soluzioni prevalenti sono inadeguate.
Di libro in libro Guicciardini segnala, con una progressione inarrestabile, l’estendersi di un disordine che proprio in passioni distorte trova la propria radice. Nel primo capitolo del secondo libro, l’autore, spostando l’attenzione da Roma e Napoli ad altri luoghi, annuncia che
crescevano in altra parte d’Italia le faville d’uno piccolo fuoco, destinato a partorire alla fine grandissimo incendio in danno di molti, ma principalmente contro a colui che per troppa cupidità di dominare l’avesse suscitato e nutrito (p. 203).
Nell’incipit del libro III è stavolta l’ambizione a cancellare le speranze di una pace duratura, conseguente al ritorno in Francia di Carlo. Proprio l’ambizione, segno massimo dell’eccesso, della dismisura, della cecità impetrabile di fronte alle cose, rende vana la speranza. Essa, infatti,
la quale non permesse che alcuno di loro stesse contento a’ termini debiti, fu cagione di rimettere presto Italia in nuove turbazioni, e che non si godesse il frutto della vittoria che ebbono poi contro all’esercito franzese (pp. 295-96).
La struttura elementare della Storia sembra risiedere in questo schema costante. Mentre gli avvenimenti possono anche suggerire pensieri di tregua, le motivazioni degli uomini spingono in senso contrario. Si spargono dappertutto «semi non piccoli di futuri incendi» (p. 653) ed essi hanno la genesi costante nella mala contentezza di sovrani irrequieti, per cui vale la legge unica delle reazioni emotive o la sollecitazione di interessi non ben calcolati. Allorché, in quel secondo prologo all’opera che è costituito dall’esordio del libro VIII, Guicciardini annuncia la svolta terribile dell’anno 1508, che avrebbe aperto «la porta a nuove discordie» (p. 733), all’interno di uno scenario che sempre più anticipa il disastro del sacco di Roma, la causa è di nuovo perentoriamente ricondotta all’«ambizione e alla cupidità dei principi» (p. 734).
Questi vizi dominanti si incarnano in figure volta per volta mutate e possono anche prendere nomi diversi (temerità, timidezza, imprudenza, mala contentezza, sospetto), ma resistono, nella loro sostanza, come la matrice comune delle disavventure che attraversano, nei quarant’anni del racconto, la storia d’Italia.
Richiamare più volte un principio come la fortuna, «potente in tutte le cose del mondo ma sopra tutte l’altre in quelle della guerra» (p. 788), equivale a fissare il nucleo fondamentale dell’intera Storia d’Italia. La guerra diventa essa stessa espressione simbolica ed estrema degli agguati costanti in mezzo a cui gli uomini vivono. Da movimenti minimi possono dipendere, infatti, effetti impensati e «improvvisamente nascono innumerabili accidenti i quali è impossibile che siano antiveduti o governati con consiglio del capitano». Se questa è una lotta disperata contro un potere al quale si può provare a resistere, senza mai vincerlo, non sorprende leggere che «non è faccenda o administratione del mondo nella quale bisogni più virtù che in uno capitano di exerciti» (come Guicciardini aveva chiarito nel ricordo 67): un capitano che sappia prevedere e governare mille incognite.
Ma, al di là di questa capacità immaginativa, la sua abilità principale, quale è quella del vero uomo saggio, sarà di controbilanciare senza sosta l’irruzione continua dei casi, provando a trovare rimedi adatti giornata per giornata, senza illusioni di poter dominare una potenza più grande delle sue capacità. Solo affidandosi alla responsabilità delle sue scelte Guicciardini interpreterà bene il ruolo che la sorte gli ha imposto sulla scena del mondo. E questo sarà il suo solo, legittimo vanto.
La teoria di Guicciardini non cerca di edificare una scienza, che, simile all’elaborazione compiuta da Machiavelli, resti eterna come il sole e la luna. Il suo obiettivo è senz’altro di diversa natura, come di diversa natura è il ruolo assegnato al soggetto che agisce: un soggetto prigioniero, sottoposto a mille accidenti «et pericoli di infirmità, di caso, di violentia – et in modi infiniti» (ric. 161) che continuamente minacciano la sua vita e che rendono un miracolo il raggiungimento stesso della vecchiaia. Nel ricordo 216 Guicciardini riprende, probabilmente da Epitteto, il topos tradizionale della vita come teatro:
Non si può in questo mondo eleggere el grado in che l’huomo ha a nascere, non le faccende et la sorte con che l’huomo ha a vivere: però a laudare o riprendere gl’huomini s’ha a guardare non la fortuna in che sono ma come vi si maneggiano drento, perché la laude o biasimo degl’huomini ha a nascere da’ portamenti loro, non dallo stato in che si truovano, come in una commedia o tragedia non è più in prezo chi porta la persona del padrone et del re che chi porta quella di uno servo, ma solamente si actende chi la porta meglo.
Il particolare stoicismo che egli richiama lo porta a legittimare, sul piano della prassi, un’etica alla quale si potrebbe aggiungere il predicato weberiano di responsabilità. Accetta i limiti che il tempo e la storia hanno assegnato al destino individuale, e, dentro di essi, sulla scena fortuita del presente che gli uomini vivono, suggerisce le ragioni delle loro scelte. In modo del tutto complementare, non stupisce che proprio a un altro grande filosofo stoico, Seneca, Guicciardini chieda le parole che sigillano la dipendenza degli uomini da un principio contro il quale a niente valgono sforzi individuali di liberazione o di sfida. Egli, infatti, riconosce proprio nella necessità, con la logica misteriosa e imperscrutabile che la governa, la legge suprema a cui è lodevole arrendersi. Non opponendosi alla sua corrente, ma, anzi, assecondando la direzione che essa imbocca, l’uomo savio può sperare di agire ragionevolmente e con qualche profitto. In caso contrario, non resta nessun’altra certezza che essere travolto dall’impeto dei fata, irresistibilmente proiettati verso ciò che deve comunque compiersi: «Ducunt volentes fata, nolentes trahunt».
Storie fiorentine dal 1378 al 1509, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1931.
Dialogo e discorsi del reggimento di Firenze, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1932.
Scritti politici e ricordi, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1933.
Scritti autobiografici e rari, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1936.
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Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, 3 voll., Torino 1971.
Storia d’Italia, a cura di E. Scarano, 2 voll., Torino 1981.
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Ricordi, ed. diplomatica e critica della redazione C, a cura di G. Palumbo, Bologna 2009.
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