Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In una Firenze che tra Quattro e Cinquecento vive il tormentoso passaggio dalla repubblica al principato, Francesco Guicciardini è uno dei massimi esponenti politici del ceto aristocratico, sul quale, a suo parere, dovrebbe fondarsi l’amministrazione dello Stato. Per competenza e tradizione familiare appartiene a quel ristretto gruppo di persone che non perdono la propria autorità col mutar di regime. Vasta è la sua produzione nell’ambito della pubblicistica politica; è tuttavia l’ambito storiografico quello in cui raggiunge risultati eccellenti, così da essere considerato il padre della storiografia moderna.
Nasce a Firenze il 6 marzo 1483, in una delle famiglie più importanti della città, di antica tradizione aristocratica e ben inserita nella conduzione della vita pubblica, economicamente agiata grazie ad attività in ambito commerciale e finanziario. Fiero e ambizioso membro del proprio ceto sociale, nel 1505 a Pisa si laurea in diritto civile e nel 1506 si inserisce nell’ambiente politico fiorentino sposando Maria, figlia di Alamanno Salviati, personalità di spicco nella politica cittadina e fautore dell’opposizione aristocratica più moderata alla repubblica di Pier Soderini, che non auspica il ritorno dei Medici ma difende la necessità dell’autorità politica degli ottimati per bilanciare il potere politico, linea di pensiero sostenuta dallo stesso Guicciardini. Mentre esercita la professione di avvocato, proficua sia dal punto di vista economico sia da quello delle relazioni diplomatiche, inizia la stesura delle Storie fiorentine (1509). La sua carriera politica comincia nel 1512, nominato ambasciatore unico della Repubblica fiorentina presso Ferdinando il Cattolico: rimane in Spagna per due anni e conduce la propria attività con impeccabile rigore; in questo periodo, oltre a scrivere alcune opere minori come la Relazione di Spagna e il Diario del viaggio in Spagna, inizia a raccogliere i Ricordi e compone il Discorso del modo di ordinare il governo di Firenze (1512), più conosciuto come Discorso di Logrogno, in cui teorizza la costituzione mista come miglior governo per Firenze, sulla base del modello veneziano.
Intanto nel 1512 i Medici sono tornati a Firenze e, tramite i papi della famiglia, Guicciardini si lega allo Stato pontificio per quasi un ventennio: nel 1516 Leone X (Giovanni de’Medici) lo nomina governatore delle città emiliane, compito arduo date le avverse condizioni della regione, ma svolto con severità ed efficacia, e nel 1524 ottiene da Clemente VII (Giulio de’Medici) il governo di tutta la Romagna. È tra i promotori fattivi della lega di Cognac (1526) tra il papa, Venezia, Milano e la Francia contro l’imperatore Carlo V; richiamato a Roma con funzioni militari, termina la stesura del Dialogo del reggimento di Firenze, in cui ribadisce la necessità per la città di un governo misto su base oligarchica: egli difende infatti per tutta la vita, anche sotto i Medici, il ruolo fondamentale e irrinunciabile degli “uomini da bene” nel buon governo della città. Ha luogo tra il 1521 e il 1526 la sua corrispondenza epistolare con Machiavelli.
In seguito al sacco di Roma del 1527 e al ripristino della Repubblica fiorentina, rientra in patria e appoggia i repubblicani moderati, ma col prevalere dell’ala più radicale, poco gradito per la sua collaborazione con i Medici, è accusato di concussione e si ritira nella sua villa di Finocchietto; qui, nell’ozio generato dalla lontananza dalla vita pubblica, scrive tre orazioni fittizie, la Consolatoria, l’Accusatoria e la Defensoria, confortando se stesso, immaginando le critiche che potevano essere mosse al suo agire politico e difendendosi da esse; scrive le Considerazioni sui Discorsi del Machiavelli, in cui commenta i machiavelliani Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e, considerata la totale diversità delle condizioni storiche, ne confuta l’idea che la civiltà classica possa essere presa a modello per risolvere i problemi contemporanei; giunge alla redazione definitiva dei Ricordi. Dopo essersi rifugiato a Roma a causa dell’inasprirsi della sua posizione per l’evolversi del regime repubblicano (che lo dichiara ribelle e confisca i suoi beni), col ritorno al potere dei Medici rientra a Firenze con il compito di condannare i capi dei popolari e viene nominato dal papa governatore di Bologna, finché nel 1534 il nuovo papa Paolo III lo priva di ogni incarico. Rientra a Firenze come consigliere dei Medici e compone i Commentari della luogotenenza (sulle vicende italiane del 1525-1526), non portati a termine e poi confluiti nella Storia d’Italia, ma, quando nel 1537 al duca Alessandro subentra Cosimo I, la presenza di Guicciardini non è compatibile con l’orientamento filoimperiale del nuovo duca: insignito di cariche formali, dedica gli ultimi tre anni della sua vita alla composizione della Storia d’Italia e muore a Firenze il 22 maggio 1540.
Guicciardini storico: da Firenze all’Italia
Francesco Guicciardini
Morte di Alessandro VI
Storia d’Italia, Vol. I, libro VI, cap. IV
Ma ecco che nel colmo più alto delle maggiori speranze (come sono vani e fallaci i pensieri degli uomini) il pontefice, da una vigna appresso a Vaticano, dove era andato a cenare per ricrearsi da’ caldi, è repentinamente portato per morto nel palazzo pontificale e incontinente dietro è portato per morto il figliuolo: e il dí seguente, che fu il decimo ottavo dí d’agosto, è portato morto secondo l’uso de’ pontefici nella chiesa di San Piero, nero enfiato e bruttissimo, segni manifestissimi di veleno; ma il Valentino, col vigore dell’età e per avere usato subito medicine potenti e appropriate al veleno, salvò la vita, rimanendo oppresso da lunga e grave infermità. Credettesi costantemente che questo accidente fusse proceduto da veleno; e si racconta, secondo la fama più comune, l’ordine della cosa in questo modo: che avendo il Valentino, destinato alla medesima cena, deliberato di avvelenare Adriano cardinale di Corneto, nella vigna del quale doveano cenare (perché è cosa manifesta essere stata consuetudine frequente del padre e sua non solo di usare il veleno per vendicarsi contro agl’inimici o per assicurarsi de’ sospetti ma eziandio per scelerata cupidità di spogliare delle proprie facoltà le persone ricche, in cardinali e altri cortigiani, non avendo rispetto che da essi non avessino mai ricevuta offesa alcuna, come fu il cardinale molto ricco di Santo Angelo, ma né anche che gli fussino amicissimi e congiuntissimi, e alcuni di loro, come furono i cardinali di Capua e di Modona, stati utilissimi e fidatissimi ministri), narrasi adunque che avendo il Valentino mandati innanzi certi fiaschi di vino infetti di veleno, e avendogli fatti consegnare a un ministro non consapevole della cosa, con commissione che non gli desse ad alcuno, sopravenne per sorte il pontefice innanzi a l’ora della cena, e, vinto dalla sete e da’ caldi smisurati ch’erano, dimandò gli fusse dato da bere, ma perché non erano arrivate ancora di palazzo le provisioni per la cena, gli fu da quel ministro, che credeva riservarsi come vino più prezioso, dato da bere del vino che aveva mandato innanzi Valentino; il quale, sopragiugnendo mentre il padre beeva, si messe similmente a bere del medesimo vino. Concorse al corpo morto d’Alessandro in San Piero con incredibile allegrezza tutta Roma, non potendo saziarsi gli occhi d’alcuno di vedere spento un serpente che con la sua immoderata ambizione e pestifera perfidia, e con tutti gli esempli di orribile crudeltà di mostruosa libidine e di inaudita avarizia, vendendo senza distinzione le cose sacre e le profane, aveva attossicato tutto il mondo; e nondimeno era stato esaltato, con rarissima e quasi perpetua prosperità, dalla prima gioventù insino all’ultimo dí della vita sua, desiderando sempre cose grandissime e ottenendo più di quello desiderava.
F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, Torino, Einaudi, 1971
L’interesse storiografico si traduce fin dagli anni giovanili nella stesura delle Storie fiorentine, che affrontano, in una prospettiva totalmente municipale, il periodo che va dal tumulto dei Ciompi (1378) alla battaglia di Agnadello (1509), concentrandosi maggiormente sugli eventi successivi alla pace di Lodi (1454), lasciati in ombra dalla storiografia umanistica; l’obiettivo risulta l’analisi della storia fiorentina recente, per individuare le cause che hanno generato la crisi, al fine di comprendere meglio la situazione presente, all’interno della quale Guicciardini, a partire dalla sua posizione oligarchico-moderata, condanna sia l’operato dei Medici per la loro tirannia, sia quello del Soderini per la sua incapacità. L’ottica cittadina caratterizza ancora le Cose fiorentine, composte tra il 1527 e il 1528, che prendono in esame il medesimo periodo coperto dalle Storie, a dimostrazione dell’insoddisfazione dell’autore per l’opera di un ventennio prima; le Cose fiorentine si interrompono tuttavia al secondo libro, con alcuni abbozzi dei successivi: alla luce degli sconvolgimenti contemporanei, un’ottica fiorentina risulta insufficiente e Guicciardini allarga lo spettro visivo all’intera penisola, per affrontare vicende di cui egli stesso è stato protagonista e, passando dai Commentari della luogotenenza, approda alla Storia d’Italia.
Il titolo, come del resto tutti i titoli delle opere di Guicciardini, non è d’autore, ma si deve agli editori successivi; la Storia d’Italia è però l’unica opera scritta non per se stesso o per pochi intimi, ma per essere pubblicata: questo estremo lavoro storiografico, elaborato con una straordinaria rapidità, è composto per i contemporanei e ancor più per i posteri.
Con un antefatto che copre gli anni dal 1490 al 1493, l’analisi vuole concentrarsi sulle rovinose vicende nazionali a partire dal 1494, anno della perdita d’autonomia della nostra penisola, con la discesa in Italia di Carlo VIII; del resto le Istorie fiorentine di Machiavelli si erano interrotte al 1494, e il riconoscimento del ruolo dirimente della discesa dei Francesi in Italia era entrato nella forma mentis comune, non si limitava agli storici. Attraverso un’articolazione in 20 libri, mediante una scansione annalistica propria della storiografia sia classica che umanistica, la narrazione giunge sino al 1534, con la morte di Clemente VII e l’elezione di Paolo III. I primi otto capitoli del primo libro fungono da preambolo e, affrontando i quattro anni precedenti alla discesa di Carlo VIII, definiscono la situazione che ha generato la “ruina d’Italia”: il perno è ancora Firenze, con la morte di Lorenzo il Magnifico (1492), che ha posto fine a un’epoca di grandezza e all’equilibrio di cui egli stesso era garante, cui si è aggiunta l’irresponsabilità dei governanti italiani, colpevoli di aver permesso l’assoggettamento della penisola; l’altro estremo dell’opera, quello finale, è segnato dal termine della Repubblica fiorentina (1530) e dalla morte del secondo papa mediceo: Firenze si conferma quindi quale osservatorio privilegiato delle vicende e i Medici, accanto ai quali Guicciardini ha svolto la sua attività politica, mantengono un ruolo di prim’ordine, non per campanilismo ma perché viene loro riconosciuto un ruolo fondamentale nella politica nazionale; risulta allora molto forte la critica a Clemente VII, che non è stato in grado – lui, ultimo sovrano che avrebbe potuto farlo – di difendere la penisola dal dominio dell’imperatore Carlo V.
La prospettiva nazionale è tale anche sul piano linguistico: Guicciardini, infatti, a partire dalle Prose della volgar lingua del Bembo (1525), sulle quali si pone quesiti e di cui fa gli spogli, emancipa la propria lingua dal volgare municipale fiorentino e approda a uno stile austero, che si rifà a Cicerone e al Boccaccio narratore del Decameron. Il periodare complesso e il largo uso della subordinazione non solo richiamano la sintassi degli storici latini, ma rispecchiano sul piano formale l’intrecciarsi delle diverse cause che generano gli avvenimenti storici, la cui concatenazione viene lucidamente espressa a partire dal vaglio scrupoloso delle fonti, costituite dagli storici contemporanei e soprattutto da documenti archivistici e diplomatici, ai quali Guicciardini ha accesso in virtù delle proprie funzioni politiche: in questa attenzione alla validità delle informazioni fornite sta lo scarto rispetto alla storiografia umanistica. Le notizie contrastanti e le differenti opinioni possono non trovare una soluzione univoca: in tal caso esse vengono giustapposte, come a voler sospendere un giudizio che in caso contrario diventerebbe arbitrario; spesso le orazioni fittizie pronunciate dai protagonisti si prestano a esprimere i diversi punti di vista. L’analisi guicciardiniana evidenzia un processo di decadenza che non ha alcuna prospettiva di miglioramento, innescato dall’imprevedibilità della fortuna e dalla mancanza di “virtù” dei pochi uomini delegati alla conduzione degli stati, privo ormai di qualsiasi possibilità di riscatto; al vertice di questo pessimismo la “discrezione” dello storico rende possibile la comprensione dei rapporti causali tra gli avvenimenti, ma soltanto a posteriori, senza alcuna possibilità di intervento nel presente, quindi senza fiducia nell’effettiva incidenza dell’agire politico.
La biografia filosofica dei Ricordi
Francesco Guicciardini
Ricordi
10. Non si confidi alcuno tanto nella prudentia naturale che si persuada quella bastare sanza l’accidentale della experientia, perché ognuno che ha maneggiato faccende, benché prudentissimo, ha potuto cognoscere che con la experientia si aggiugne a molte cose alle quali è impossibile che el naturale solo possa aggiugnere.
60. Lo ingegno più che mediocre è dato agli huomini per loro infelicità et tormento, perché non serve loro a altro che a tenergli con molte più fatiche et anxietà che non hanno quegli che sono più positivi.
110. Quanto si ingannono coloro che a ogni parola allegano e Romani! Bisognerebbe havere una ciptà conditionata come era loro et poi governarsi secondo quello exemplo: el quale, a chi ha le qualità disproportionate, è tanto disproportionato quanto sarebbe volere che uno asino facessi el corso di uno cavallo.
114. Sono alcuni che sopra le cose che occorrono fanno in scriptis discorsi del futuro, e quali, quando sono facti da chi sa, paiono a chi gli legge molto belli; nondimeno sono fallacissimi, perché, dependendo di mano in mano l’una conclusione dall’altra, una che ne manchi, rieschono vane tutte quelle che se ne deducono, et ogni minimo particulare che varii è apto a fare variare una conclusione. Però non si possono giudicare le cose del mondo sì da discosto, ma bisogna giudicarle e resolverle giornata per giornata.
125. E philosophi et e theologi et tucti gl’altri che scrutano le cose sopra natura o che non si veggono dicono mille pazie: perché in effecto gl’huomini sono al buio delle cose, et questa indagatione ha servito et serve più a exercitare gli ingegni che a trovare la verità.
136. Accade che qualche volta e pazi fanno maggiore cose che e savii. Procede perché el savio, dove non è necessitato, si rimecte assai alla ragione et pocho alla fortuna; el pazo, assai alla fortuna et pocho alla ragione; et le cose portate dalla fortuna hanno talvolta fini incredibili. E savii di Firenze harebbono ceduto alla tempesta presente; e pazi, havendo contro a ogni ragione voluto opporsi, hanno facto insino a hora quello che non si sarebbe creduto che la cictà nostra potessi in modo alcuno fare. E questo è che dice el proverbio: «Audaces fortuna iuvat».
F. Guicciaridni, Ricordi, a cura di G. Palumbo, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2009
I Ricordi sono la testimonianza della riflessione morale e filosofica che accompagna Guicciardini in un ventennio (1512-30) centrale per la sua attività politica, mentre il suo travaglio personale e umano si lega indissolubilmente agli sconvolgimenti della situazione italiana; qui si delinea e si acuisce uno scetticismo che diventa lo sfondo ideologico per l’elaborazione della Storia d’Italia. Il titolo, ancora una volta, non è d’autore, ma è tratto da uno di questi brevi precetti, “ghiribizzi” che si fanno sempre più complessi e che hanno preso il nome, appunto, di Ricordi. Dopo la prima composizione al tempo dell’ambasceria spagnola, tre sono le stesure dell’opera: la prima, non autografa, è precedente al 1525, la seconda è autografa e risale al 1528, la terza è del 1530; nel corso delle varie redazioni i “ricordi” diventano 606, ma solo 221 confluiscono nella versione definitiva. Si tratta di pensieri sparsi, sentenze, aforismi, che nascono come brevi ragionamenti sulle vicende politiche fiorentine, a partire da una vigorosa ideologia oligarchica; mentre vengono raccolti in un libretto unitario, l’istanza teorico-speculativa allenta il legame coi fatti autobiografici o di cronaca, per farsi più svincolata riflessione sul mondo.
Disillusione e pessimismo
Dalla meditazione sui temi fondamentali dell’esistenza o su quelli di natura storico-politica e religiosa emerge la disillusione di chi, dopo aver operato ai livelli più alti dell’amministrazione diplomatica, con la perdita d’autonomia degli Stati italiani vede il fallimento non solo del proprio progetto politico, ma di ogni prospettiva costruttiva, e trova come unica soluzione il ripiegamento sulla difesa del “particulare”, dell’interesse privato e dei privilegi suoi e della sua classe: diversamente da Machiavelli, Guicciardini perde ogni fiducia nell’azione politica e, mentre dispensa insegnamenti, nei Ricordi esprime un profondo pessimismo nei confronti del mondo, dell’uomo e della storia.