Francesco Guicciardini
Autore della prima Storia d’Italia in lingua volgare, Francesco Guicciardini fu un protagonista della vita politica della prima metà del Cinquecento. Testimone dei rivolgimenti che scossero Firenze dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, prese infatti parte attiva ad alcuni dei principali eventi che portarono al tramonto della potenza militare della Chiesa di Roma. La sua esperienza in prima persona dei grandi fatti della storia contemporanea, il suo sguardo lucido e disincantato sulla travagliata epoca in cui si trovò a vivere, la notevole propensione alla scrittura contribuirono a farne il maggiore storico italiano della prima età moderna e uno dei maggiori d’Europa.
Nato a Firenze il 6 marzo 1483 da Piero di Iacopo e Simona Gianfigliazzi, Francesco Guicciardini studiò diritto a Firenze, Ferrara e Padova. Tornato nella città natale (1505), esercitò l’avvocatura, si sposò con Maria Salviati (1508), avendone cinque figlie, e compose le Storie fiorentine (redatte tra il 1508 e il 1509).
Maturò una svolta con i primi incarichi pubblici, in particolare l’ambasceria presso Ferdinando il Cattolico (1512-14), tesa a mantenere buoni rapporti tra la Repubblica fiorentina e la Spagna, un’occasione che gli permise di osservare da vicino una grande corte e un potente monarca. Intanto, a Firenze veniva restaurato il potere mediceo: accolto con favore, anche per il sostegno paterno al nuovo ordinamento politico, passò al servizio dei Medici e ritornò alla pratica forense.
Nel 1516 il destino di Guicciardini si separò da quello di Firenze. Fu nominato infatti commissario pontificio a Modena ed estese poi la sua autorità anche a Reggio. Contrastò soprattutto le lotte tra fazioni, che agitavano città e valli appenniniche. Nel 1521 ospitò Niccolò Machiavelli, in missione presso il capitolo generale dei frati minori a Carpi. Ma quell’anno soprattutto divenne commissario generale dell’esercito della Chiesa, schierato a fianco di Carlo V contro i francesi, e si distinse nella resistenza di Parma.
Sotto papa Clemente VII (Giulio de’ Medici) si trasformò definitivamente in un protagonista della vita politica italiana. Presidente della Romagna dal 1523, si trasferì a Roma nel 1526 dove operò come consigliere pontificio in curia. Sostenitore di un ruolo attivo del papato a difesa della penisola contro il predominio di Carlo V, guidò l’esercito della Chiesa, ma assistette impotente all’avanzata spagnola che, oltre al sacco di Roma, causò la caduta dei Medici a Firenze (1527).
Tentò allora di garantire alla Repubblica fiorentina una transizione indolore ma, identificato come filomediceo, si ritirò fuori città e si dedicò, fra l’altro, alla scrittura storica. Sostenitore dei settori più moderati della Repubblica, trattò con il papa per evitare il ritorno dei Medici, ma il governo cittadino respinse le condizioni che egli aveva raggiunto.
Restaurato il regime mediceo (1530), fu subito inviato da Clemente VII a Firenze per contribuire a ristabilire l’ordine attraverso una severa amministrazione della giustizia. Già l’anno dopo accettò l’incarico di governatore e vicelegato di Bologna. Qui si misurò di nuovo con le lotte fazionarie, continuando però a collaborare alla revisione del sistema politico fiorentino. Alla morte del papa (1534) tornò in Toscana, alternando l’attività di scrittore e di consigliere politico di Alessandro de’ Medici. Dopo l’assassinio di quest’ultimo (1537), appoggiò la scelta del giovane Cosimo, che però non lo ricompensò con adeguata considerazione. Sentendosi emarginato, ricoprì ancora qualche ufficio, ma si occupò ormai soprattutto della Storia d’Italia, conclusa o quasi entro l’estate del 1539. Poco dopo si ammalò e morì a Firenze il 22 maggio 1540.
Guicciardini incarnò speranze e delusioni di un uomo rinascimentale impegnato nella vita civile e politica in anni di profonda trasformazione e incertezza sia per la sua città sia per la penisola italiana. La sua carriera al servizio delle istituzioni a Firenze come in Emilia, in Romagna e a Roma, si svolse quasi sempre all’ombra della famiglia Medici, in un costante confronto con i contesti specifici in cui si trovò a operare e con il quadro geopolitico generale che egli non riuscì a vedere modificato come avrebbe voluto, ma che pure costituì l’oggetto o lo stimolo di una riflessione di carattere politico e storico che non venne mai meno, anzi s’intrecciò di continuo con l’esperienza dei fatti e con l’azione diretta. Vivamente preoccupato dal pericolo di vedere l’Italia ridotta in «servitù», raggiunse il culmine di consigliere politico e condottiero militare al soldo del papato negli anni difficili di Clemente VII, mentre la sua posizione di moderata opposizione al potere mediceo a Firenze gli impedì sempre di trovare una collocazione stabile nelle tormentate vicende della città natale, che pure ricercò a più riprese.
Il suo profilo intellettuale non soltanto risentì delle esperienze giovanili, tra lo studio del diritto e le prime partecipazioni alla vita pubblica fiorentina, e poi della graduale elaborazione di una visione politica oligarchica e di un atteggiamento religioso impregnato di anticlericalismo e di una radicale laicità, ma si nutrì anche di una consuetudine con la scrittura che non tardò a divenire lo spazio privilegiato, e riservato, di meditazione sui propri itinerari esistenziali, nonché di rielaborazione ora di natura politico-istituzionale, ora più propriamente storica, dei suoi giudizi e orientamenti su una realtà in rapido mutamento, alquanto distinti da quelli di Machiavelli, a cui pure lo legò una sincera amicizia.
Gli studi giuridici ebbero un grande peso nella definizione della figura intellettuale di Guicciardini: com’è stato messo in luce da uno studio (Carta 2008, pp. 13-54 e 89-100), gli garantirono una preparazione determinante tanto per la carriera politica, quanto per l’opera di scrittore. Particolare importanza ebbero gli anni giovanili trascorsi fuori Firenze, una scelta sostenuta dal padre Piero «perché stimava che più ferventemente attenderei a studiare quando fussi fuora di casa», ben sapendo che la città si trovava «in grandi travagli» e poteva accadere facilmente «che nascessi qualche revoluzione di stato nella città, o di fuori qualche movimento pericoloso alla libertà» (Ricordanze, in Id., Opere, a cura di V. De Caprariis, 1961, p. 6).
A Padova, tra il 1502 e il 1505, fu allievo dei giuristi Carlo Ruini e Cristoforo Alberizio, ma soprattutto di Filippo Decio, illustre professore di diritto civile e canonico, nonché raffinato umanista, un modello apparentemente congeniale a chi come Guicciardini era stato educato in casa alla conoscenza del latino e di un po’ di greco. Del resto, egli non esitò in seguito a definire il maestro uno dei più eccellenti giureconsulti del suo tempo. Sembrava, dunque, che stesse ponendo le basi per una vita di studi ed erudizione, ma ben diverso destino lo attendeva. Si facevano già avvertire, infatti, l’urgenza per la vita attiva e la forte ambizione personale. Sin dal 1503 aveva individuato nella carriera ecclesiastica un’opportunità attraente, salutando in modo positivo la prospettiva di poter accedere al beneficio di uno zio defunto per la convinzione «che fussi uno fundamento da farmi grande nella Chiesa, e da poterne sperare di essere un dì cardinale» (Ricordanze, cit., p. 7). Si trattava di un desiderio privo di qualsiasi afflato religioso e che non si realizzò, ma attraverso di esso Guicciardini dette una precoce prova del calcolo mondano che lo avrebbe guidato in molte scelte della sua vita.
Tale attitudine si riscontrò anche nell’esercizio dell’avvocatura, che gli consentì di impratichirsi del mondo della giustizia, con i suoi interessi e compromessi, nonché di procurarsi cospicui guadagni, grazie alle committenze pubbliche e a una rete estesa di clienti privati. Ma fu soprattutto l’apertura di concrete possibilità di carriera politica a favorire una fondamentale evoluzione in Guicciardini, che associò i primi incarichi ricevuti dalla Repubblica all’avvio di un costante rapporto con la scrittura. Questo fu particolarmente evidente in occasione della missione diplomatica disimpegnata alla corte di Ferdinando il Cattolico, «prudentissimo principe» (Relazione di Spagna, in Id., Opere, cit., p. 33). Il positivo giudizio sulla «felice coppia» Ferdinando e Isabella, che avevano vinto, «con la virtù e fortuna loro, tutte le difficultà» (p. 34), si accompagnò alla convinzione «che la Spagna a’ tempi nostri si è alquanto illuminata, ed uscita dalla sua naturale oscurità» (p. 36). Si trattava di un riconoscimento politico importante verso una potenza la cui egemonia in Italia Guicciardini avrebbe poi lungamente, ma invano, ostacolato.
Non sorprende perciò che già allora, forse grazie a uno sguardo più distaccato favorito dalla distanza fisica, iniziasse a meditare sull’ordinamento da introdurre nella città natale. Il governo che egli immaginava affidato a un’aristocrazia di savi e prudenti iniziò a essere delineato nel 1512 nel Discorso di Logrogno (il cui vero titolo è Discorso del modo di ordinare il governo di Firenze), poi ripreso e perfezionato anni dopo nel Dialogo del reggimento di Firenze, in cui sostenne un disegno di architettura istituzionale incentrato su un Senato di 150 membri, che avrebbe dovuto occuparsi degli affari più rilevanti e sarebbe stato dotato di una giunta esecutiva permanente di 10 senatori, eletti a rotazione per sei mesi. Quello che Guicciardini aveva in mente era dunque qualcosa di ben diverso dal principato a cui avrebbero dato corpo negli anni successivi i Medici, sui cui limiti egli non mancò sin da allora di riflettere e scrivere, come mostra il discorso critico Del modo di assicurare lo Stato ai Medici, scritto nel 1516 per denunciare il gravame che il nuovo regime rappresentava per i fiorentini.
Animo irreligioso, il suo passaggio al servizio della Chiesa, in un primo momento in qualità di commissario e governatore in Emilia e in Romagna, poi come uomo di curia, non indebolì affatto la sua attitudine alla riflessione sulla realtà; al contrario, la affinò e le conferì un respiro più ampio, ora che i pensieri si rivolgevano a nuovi orizzonti, a cose e contesti esterni all’universo fiorentino, che pure egli aveva sempre presente alla mente, come confermano vari testi a cui pose mano lungo la sua vita – su tutti il Dialogo del reggimento di Firenze (1521-1525).
Consapevole dei notevoli progressi effettuati nella carriera, ma pronto a confrontarsi con le sconfitte, come emerge sia dalle lettere private, sia dagli scritti, Guicciardini non mancò affatto di integrare nella sua visione anche la lezione che ricavò dall’esperienza diretta del comando militare negli anni Venti, come emerge dai Commentari della luogotenenza (interrotti nel 1534), poi confluiti nella Storia d’Italia. Dalle molte e differenti vicissitudini che lo ebbero per protagonista, o lo videro comunque parte attiva, ricavò uno sguardo disincantato sul mondo, in grado di misurarsi a tutto tondo con il potere, con i rapporti di forza e con le ragioni profonde che muovevano gli individui, traendo continuamente spunto da quella realtà alla quale, soprattutto dopo il 1530, si arrese sempre di più, certamente non per fiacchezza morale, secondo la classica interpretazione di Francesco De Sanctis, ma per l’amara presa d’atto della propria impotenza di fronte ai mutati equilibri geopolitici della penisola e di Firenze, specialmente dopo l’ascesa di Cosimo de’ Medici.
Prima di allora, la diffidenza per il repubblicanesimo popolare che lo contraddistingueva sin dalla giovinezza – quando contro il volere di suo padre aveva voluto sposare la figlia di Alamanno Salviati, principale figura di riferimento dell’opposizione al gonfaloniere a vita Piero Soderini – e la convinta ostilità verso qualsiasi ingerenza dal basso nel funzionamento dello Stato si erano saldate, negli anni emiliani e romagnoli, con l’attivo contrasto delle fazioni e delle «parti», avvertite quali sommo pericolo per il «bene commune», come si evince chiaramente dalla sua corrispondenza (Bruni 2003, pp. 505-25). Quegli ideali aristocratici che gli avevano fatto invano auspicare per Firenze un governo di «savi» si coniugarono poi, senza soluzione di continuità, con il desiderio di una penisola italiana «libera», ossia sottratta al controllo politico di una potenza straniera, che si trattasse della Francia o piuttosto della Spagna, come fu definitivamente chiaro dopo il terribile anno 1527.
Un punto tuttavia dev’essere tenuto fermo, ed è la dimensione assolutamente privata dei suoi scritti, nessuno dei quali fu mai pubblicato a stampa finché Guicciardini rimase in vita. Così, che egli cesellasse i suoi pensieri nella forma di efficaci aforismi, come fece nelle diverse redazioni dei Ricordi (la prima pronta intorno al 1525, la seconda completata agli inizi del 1528 e la terza e ultima finita nel 1530), che scrivesse della disperata, ma vittoriosa difesa di Parma assediata dalle truppe francesi, o delle sorti d’Italia quali esse gli apparivano durante la sua luogotenenza generale degli eserciti pontifici, quando i progressi della lega di Cognac erano stati frustrati da una pace inattesa stipulata da Clemente VII, alle pagine delle sue opere confidava soprattutto il frutto di solitarie meditazioni, senza alcuna ricerca di destinatari reali.
Fra i non pochi scritti che offrono testimonianza di ciò, sono emblema di un simile atteggiamento le concioni fittizie composte nella villa di Finocchieto nei mesi finali del 1527, quando, dopo essere stato allontanato dalla città di Firenze, tornata sotto il regime repubblicano, con l’accusa di essere «amico de’ Medici», compose prima un’Oratio consolatoria, riflettendo sui rovesci della sorte che lo avevano colpito dopo tanto successo, e poi simulò un dibattimento giudiziario davanti al tribunale della Quarantia circa la propria condotta personale, che scelse di affidare a un’Oratio accusatoria e a una Defensiva contra precedentem (mai portate a termine, tuttavia). Finalmente avvocato di se stesso, l’autoassoluzione di Guicciardini rispetto alle presumibili imputazioni della Firenze antimedicea finisce per apparire non troppo dissimile dall’operazione solipsistica tentata nel Dialogo che, a dispetto della messa in scena di interlocutori realmente esistiti (l’ottimate Piero Capponi, il savonaroliano Paolantonio Soderini, il filomediceo Bernardo Del Nero e il padre Piero, voci di un confronto ambientato nel 1494), non va oltre un vagheggiamento interiore che Guicciardini non mirò mai davvero a trasformare in un piano d’azione.
L’amarezza che permea gli anni finali della vita di Guicciardini non deve tuttavia far dimenticare che per un quarto di secolo circa, densissimo di fatti e avvenimenti, egli aveva maturato le sue idee mentre ricopriva importanti cariche e manteneva un fitto carteggio con papi, monarchi europei e principi italiani, ma anche con magistrati e cittadini fiorentini, emiliani e romagnoli. Resta ancora valida, anzi, la classica indicazione secondo la quale il pensiero di Guicciardini era comunque «rivolto verso l’agire politico, anzi preoccupato soprattutto, almeno sino agli ultimi anni, di preparare il pratico comportamento» (Chabod 1967, p. 231).
Senza dubbio, le sue posizioni non sono tacciabili di astrattezza, caratterizzate com’erano da un misto di realismo e discrezione che gli proveniva dalla vasta esperienza delle cose del mondo e della loro precarietà: il suo era il temperamento sensibile e misurato di un uomo avvezzo a ricoprire cariche di grande responsabilità, a orientare le decisioni della curia romana, a trattare con i potenti, a conoscere dall’interno le cause dei grandi rivolgimenti, a considerare con attenzione i limiti stessi dell’agire individuale e le prospettive delle forze in campo. Per questo il suo pensiero che pure, al pari di Machiavelli, rivendicava l’autonomia della politica dalla morale, può apparire talvolta angusto, oscillante, privo di slancio verso generalizzazioni teoriche e confronti arditi, come conferma il carattere frammentario e sconnesso dei Ricordi, ma anche lo sguardo tutto concreto, prodotto di un’attitudine pratica, dei suoi scritti sul governo di Firenze, in cui si avverte forte il riferimento a finalità ben determinate e contingenti. E tuttavia, ciò non significava affatto un’assenza di idealità e di alti riferimenti etici, come dimostra il fatto che nella sua azione di uomo pubblico, non di rado difficile e contrastata, Guicciardini s’ispirò a modelli di rigore e austerità, onestà e decoro, che riflettevano una fermezza di principi non comune.
In questo quadro va risolta anche l’apparente contraddizione tra il servitore della Chiesa e il duro critico del clero e dei suoi costumi, il politico che confidava nel ruolo attivo del papato per la futura tenuta e autonomia dell’Italia e l’uomo laico che, in un’età di drammatiche lacerazioni all’interno della cristianità europea, maturò una sensibilità ai limiti dell’indifferenza per la religione. Così si comprende anche il fatto che il detrattore dell’«ambizione, la avarizia e le mollizie de’ preti» fosse la stessa persona che, colpita dal fascino della «grandezza» dei pontefici ai quali soprattutto doveva il suo successo, anteponeva la sua carriera alle ragioni della coscienza che lo inducevano a seguire Lutero. Un’inclinazione, quest’ultima, che non nasceva da un’adesione alle dottrine della Riforma protestante, bensì dal solo attacco contro il clero, come dimostra un passo tanto celebre quanto illuminante, in cui Guicciardini opponeva il suo «particulare» – ossia il suo vantaggio, l’interesse personale – alle convinzioni interiori:
e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Luther quanto me medesimo: non per liberarmi dalle legge indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti, cioè a restare o sanza vizi o sanza autorità (Ricordi politici e civili, in Id., Opere, cit., p. 103).
Se l’anticlericalismo di Guicciardini trova perciò un argine nella tutela del proprio «particulare», quest’ultimo non deve in alcun modo essere visto come un concetto che esprime ripiegamento su se stessi, riduzione delle prospettive individuali all’ambito circoscritto del proprio tornaconto, ma al contrario come la molla dell’azione personale in un mondo avvertito come incerto, precario, irto di pericoli, caratterizzato da una caducità che può sempre ridurre in disgrazia anche chi operi con la massima prudenza. Si tratta, insomma, di una caratteristica non riconducibile alla mera convenienza del singolo, bensì allo stimolo che consente all’uomo pubblico di affermarsi nella sfera civile e politica, certo guardando anche alle cariche e al prestigio personale, ma incarnando allo stesso tempo un’ambizione che racchiude il rispetto di sé, l’autostima, un desiderio di onore che, a costo di dure fatiche, si concilia con l’utile, con il bene comune.
È una sfera questa in cui l’individuo deve apprendere ad agire senza la pretesa di governare la sorte, la «fortuna», consapevole anzi del fondo di vanità che accompagna il successo mondano. In tal senso, va rilevato come affiori, a tratti, negli scritti di Guicciardini, il riferimento a una divina provvidenza che tuttavia resta sempre lontana, sullo sfondo: all’uomo occorre, pertanto, saper resistere e adattarsi al mutamento della realtà, con freddezza e lucidità. Da qui, forse, la riflessione dedicata alle profezie politiche e religiose di Savonarola, che avvertì l’esigenza di raccogliere in un momento di profonda incertezza, come l’anno 1528. Riserverà poi loro pagine di grande effetto nella Storia d’Italia nel ricostruire il dibattito pubblico sulla loro autenticità, ma soprattutto immortalerà in tempo reale, in un Ricordo, l’«ostinazione» e la «fede di non potere perire» (Ricordi politici e civili, cit., p. 95) che le profezie savonaroliane avevano lasciato in eredità ai suoi concittadini, e che contribuivano così a spiegare il coraggio di resistere che essi ancora dimostrarono durante l’assedio di Firenze del 1530 (Francesco Guicciardini tra ragione e inquietudine, 2005, pp. 109-27).
Per la forza di penetrazione del loro pensiero e dei loro scritti, Machiavelli e Guicciardini si sono trasformati in una coppia classica nella critica letteraria. Riassunto da De Sanctis nei celebri termini di un’opposizione tra la piena coerenza di pensiero e azione di Machiavelli e il pernicioso opportunismo di Guicciardini, poi ribaltato specularmente nello scarto tra l’«abito letterario» che velerebbe la realtà nel primo e un’attinenza esclusiva all’esperienza dei fatti presenti del secondo (Chabod 1967, pp. 231-32), il confronto fra i due ha acquistato tutt’altro spessore dopo essere stato sottratto alla contrapposizione astratta fra nomi e ricondotto allo specifico contesto di appartenenza dei due autori (Gilbert 1965).
E, del resto, la loro fu anzitutto una relazione di autentico scambio, pur nell’inevitabile distanza di collocazione politica tra chi, come Machiavelli, era stato segretario della Repubblica soderiniana e chi, come Guicciardini, era servitore e consigliere politico di quella Chiesa romana che l’altro vedeva come la principale responsabile della crisi italiana. Tale distanza, però, non impediva loro di condividere un giudizio di dura condanna dei costumi del clero, un dato che fa risaltare la confidenza tra i due che si coglie anche nell’ironia con cui, in un momento di ascesa personale, Guicciardini consolava l’amico Machiavelli, in disgrazia, diretto a Carpi con il mandato di individuare un predicatore francescano da invitare a Firenze, esortandolo a osservare da vicino «la Repubblica de’ Zoccholi», certo che «vi varrete di quel modello, comparandolo o ragguagliandolo a qualchuna di quelle vostre forme» (lettera del 18 maggio 1521, in N. Machiavelli, Lettere, a cura di F. Gaeta, 1984, pp. 524-25).
È significativo, perciò, che all’indomani della condanna al bando da Firenze, nel marzo 1530, dopo essersi visto rifiutare dal governo repubblicano le condizioni di pace che aveva trattato con il papa, Guicciardini si rifugiasse a Roma e attendesse alla composizione delle Considerazioni intorno ai “Discorsi” del Machiavelli sopra la prima Deca di Tito Livio. Ancora una volta, la scrittura tornava a imporsi come l’ambito privato di un confronto con la realtà che stavolta ruotava intorno a una delle opere più importanti di Machiavelli, la quale ancora non aveva visto la luce a stampa e in cui era difesa l’idea di un’esemplarità della storia antica che Guicciardini non condivideva affatto. A giudizio di quest’ultimo, infatti, tempi e contesti differenti imponevano atteggiamenti e reazioni altrettanto differenti, perciò solo la lezione dei fatti più recenti poteva avere una qualche utilità. A mostrarlo era proprio l’affondo riservato ai capitoli in cui Machiavelli aveva contrapposto la religione dei Romani alla fiacchezza dei cristiani e alle responsabilità della Chiesa di Roma. Così, dopo avere discusso sul terreno dell’analisi storica, ribaltando il giudizio su Romolo e Numa Pompilio («se el primo re di Roma fussi stato Numa e non Romulo, certo la città era ne’ suoi princìpi oppressa da’ vicini, né lasciava Numa a Romulo quel luogo di mettervi le arme che lasciò Romulo a Numa di mettervi la religione», Considerazioni intorno ai “Discorsi” del Machiavelli [...], in Id., Opere, cit., p. 339) e altresì condividendo l’opinione che «la grandezza della Chiesa […] sia stata causa che l’Italia non sia caduta in una monarchia», passava a un giudizio politico che risentiva del passato prossimo che lo aveva visto protagonista:
se bene la Italia divisa in molti domini abbia in vari tempi patito molte calamità che forse in uno dominio non arebbe patito […] ha avuto al riscontro tante città floride che non arebbe avuto sotto una republica che io reputo che una monarchia gli sarebbe stata più infelice che felice (p. 340).
Benché interpretata talora come un approdo sicuro, in seguito all’abbandono di una vita politica divenuta sempre più tormentata, l’attività di storico accompagnò Guicciardini sin dalla giovinezza, con la stesura delle Storie fiorentine, riaffiorando puntualmente nei principali momenti di snodo della sua esistenza (De Caprariis 1950). Si trattava, dunque, di una consuetudine che, alimentata forse dall’educazione umanistica e letteraria, non tardò poi a tradursi in una riflessione, fondata su un attento spoglio e uso critico di fonti letterarie, ma anche d’archivio, intorno al recente passato, da parte di un uomo in stretto contatto con la grande storia del suo tempo che aveva visto scorrere davanti ai propri occhi. A differenza di Machiavelli, infatti, Guicciardini, come si è detto, non attribuiva alcun valore esemplare alla storia, in particolare a quella antica, né proponeva confronti da istituire utilmente con il presente, come chiariva in un passo eloquente dei Ricordi:
Quanto si ingannono coloro che a ogni parola allegano e Romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era loro; e poi governarsi secondo quello essemplo: el quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facessi el corso di uno cavallo (Ricordi politici e civili, cit., p. 120).
Piuttosto, quello di Guicciardini era un modello di lucida analisi di avvenimenti vicini nel tempo, passibili di una lettura in cui la ricostruzione storica s’intrecciava con giudizi politici su eventi e personaggi di cui era ancora avvertibile l’influenza.
Così, fino ai primi anni Trenta, suo punto di riferimento fu la storia di Firenze, oggetto del tentativo giovanile antisoderiniano delle Storie che, narrando le vicende municipali dal tumulto dei Ciompi (1378) in poi, si dilatavano via via che si approssimavano ai fatti recenti, su cui esistevano maggiori informazioni, e delle successive Cose fiorentine, cui lavorò sull’onda della crisi aperta dagli eventi del 1527 e nelle quali ricostruì gli avvenimenti concernenti gli anni 1375-1441, lasciando tuttavia l’opera incompleta per il venir meno del suo interesse dopo la caduta della seconda Repubblica. Sofferta l’ennesima delusione nella città natale dopo l’ascesa di Cosimo de’ Medici, Guicciardini decise di rifondere le memorie delle sue esperienze come protagonista della scena politica italiana, che aveva iniziato ad affidare ai Commentari della luogotenenza, in alcuni capitoli dell’opera che lo avrebbe consacrato sommo storico agli occhi dei posteri: la Storia d’Italia.
Si trattava del primo esperimento di scrittura di un’opera in volgare dedicata alla storia della penisola concentrandosi su eventi politici contemporanei – le «cose accadute alla memoria nostra» –, in anni in cui il domenicano Leandro Alberti dava prova di un’analoga propensione a considerare in modo unitario l’Italia, recuperando però, nella Descrittione di tutta Italia (1550), il modello di analisi storico-geografica dell’Italia illustrata (1474) dell’umanista Biondo Flavio, dal quale, pur risentendo in parte del suo schema cronologico generale, Guicciardini si discostava radicalmente.
Mettendosi su un cammino che «non aveva precedenti né nella storiografia antica né in quella moderna» (E. Cochrane, Historians and historiography in the Italian Renaissance, 1981, p. 297), questi intese, infatti, rendere conto della complessità della recente e amarissima storia politica delle città italiane dalla morte di Lorenzo il Magnifico in avanti, delineando le vicende di un gruppo di entità politiche disomogenee e contrapposte, interpretate come parte di un intreccio più generale, capace di andare anche oltre i confini della penisola, fino a comprendere significativi accenni persino alla scoperta dell’America e all’espansione europea (libro VI, 9). Così, uno sguardo lucido e obiettivo, in grado di fornire vivaci ritratti dei protagonisti del tempo e di cogliere anche i minimi particolari dei grandi eventi, integrandoli in un disegno complessivo accettato per com’è, s’accompagna nella Storia d’Italia al riconoscimento dell’imprevedibilità dei fatti, alla mancanza di corrispondenza tra l’intervento degli individui nella storia e le loro intenzioni, una cifra del pensiero di Guicciardini che trapela sin dall’apertura dell’opera, racchiudendone la lezione più profonda:
Dalla cognizione de’ quali casi, tanto vari e tanto gravi, potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene pubblico, prendere molti salutiferi documenti: onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da’ venti, siano sottoposte le cose umane (Storia d’Italia, in Id., Opere, cit., p. 373).
In fondo, quanto emerge dall’opera maggiore di Guicciardini è proprio l’idea che fosse stata la sempre più evidente incapacità degli italiani di mettere in pratica le loro intenzioni a causare la fine della pace e della stabilità della penisola e la sua occupazione da parte di potenze straniere. A essa si poteva contrapporre soltanto una debole speranza di riscatto, affidata ancora al pontefice, almeno stando alla pagina finale della Storia d’Italia, con l’emblematica chiusa sull’elezione del nuovo papa Paolo III, «le azioni e le opere del quale se saranno degne della espettazione conceputa di lui» sarebbe spettato giudicarlo a «quegli che scriveranno le cose succedute in Italia dopo la sua assunzione» (p. 1066).
Dato che nessuna opera di Guicciardini uscì a stampa quando era in vita l’autore, la vicenda editoriale dei suoi scritti si presenta assai eterogenea. In particolare, la prima edizione a stampa della Storia d’Italia uscì mutila, perché composta solo dei primi 16 libri, a Firenze nel 1561 per i tipi di Lorenzo Torrentino, ma già tre anni dopo Gabriele Giolito de Ferrari ne pubblicava a Venezia i quattro libri mancanti, mentre nel 1567, presso lo stesso editore, vedeva la luce in 20 libri la prima edizione completa, sebbene priva di alcuni brani giudicati sconvenienti. La raccolta più recente dei suoi scritti è costituita dalle Opere, a cura di E. Lugnani Scarano, 3 voll., Torino 1983-1987. Per i brani citati nel presente saggio si rinvia all’edizione antologica delle Opere, a cura di V. De Caprariis, Milano-Napoli 1961.
Opere inedite, a cura di G. Canestrini, 10 voll., Firenze 1857-1867 (contengono, tra gli altri, Ricordi politici e civili, Storie fiorentine dal 1378 al 1509, Considerazioni intorno ai “Discorsi” del Machiavelli sopra la prima Deca di Tito Livio, Discorso del modo di ordinare il governo di Firenze, Dialogo del reggimento di Firenze, Ricordanze).
Storia d’Italia, a cura di A. Gherardi, 4 voll., Firenze 1919 (prima edizione critica).
Ricordanze inedite, a cura di P. Guicciardini, Firenze 1930.
Storie fiorentine dal 1378 al 1509, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1931.
Dialogo e discorsi del reggimento di Firenze, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1932.
Scritti autobiografici e rari, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1936 (contengono, tra gli altri, Ricordanze, Memorie di famiglia, Diario del viaggio in Spagna, Relazione di Spagna, Relazione della difesa di Parma, e le orazioni fittizie risalenti al 1527).
Carteggi, 1°-4° vol., a cura di R. Palmarocchi, Roma 1938-1951; 5°-17° vol., a cura di P.G. Ricci, Roma 1954-1972.
Cose fiorentine, a cura di R. Ridolfi, Firenze 1945.
Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, 3 voll., Torino 1971.
Ricordi politici e civili, a cura di E. Pasquini, Milano 1975, 201210.
Considerazioni intorno ai “Discorsi” del Machiavelli sopra la prima Deca di Tito Livio (con i Discorsi di Machiavelli), a cura di C. Vivanti, Torino 1983.
Le lettere, a cura di P. Jodogne, 10 voll., Roma 1986-2008.
Storie fiorentine dal 1378 al 1509, a cura di A. Montevecchi, Milano 1998, 20062.
F. Chabod, Guicciardini Francesco, in Enciclopedia Italiana, Istituto della Enciclopedia Italiana, 18° vol., Roma 1933, ad vocem; ora in Id., Scritti sul Rinascimento, Torino 1967, pp. 223-39.
V. De Caprariis, Francesco Guicciardini. Dalla politica alla storia, Bari 1950 (rist. anast. Bologna 1993).
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L’opzione di Guicciardini per il passato recente costituì un modello ripreso e imitato, come rivela il caso di vari autori a lui coevi che redassero anch’essi opere storiche, pur oscillando rispetto alla connotazione politica dei loro scritti. Esponente di una famiglia di mercanti fiorentini di tradizione repubblicana, Bernardo Segni (1504-1558) compose le Istorie fiorentine (inedite fino al 1723), che in cinque libri trattano degli eventi dal 1527 al 1555 e in cui è ben evidente, rispetto a Guicciardini, l’assenza di un reale interesse per le questioni storico-politiche a vantaggio di una trattazione prevalentemente letteraria. Al contrario, Iacopo Nardi (1476-1563), politico e storico fiorentino, che fu capofila dei fuoriusciti antimedicei nella Venezia degli anni Trenta, prima di riavvicinarsi a Cosimo de’ Medici, non esitò a infondere tutta la sua passione politica nelle Istorie della città di Firenze, iniziate nel 1553, ma rimaste incompiute e pubblicate solo nel 1582: dedicate al periodo 1494-1538, nonostante l’afflato filorepubblicano, si rivelano opera di notevole valore culturale, grazie anche a una costante tensione interpretativa.
Fu corrispondente di Nardi Benedetto Varchi (1503-1565), anch’egli fiorentino, illustre letterato e autore di una celebre Storia fiorentina, scritta per incarico del duca Cosimo I (ma pubblicata solo nel 1721), che nello spazio di 16 libri copre l’epoca dal 1527 al 1538 e si distingue per la cura nell’uso delle fonti e per la notevole autonomia di giudizio nei confronti dei Medici. Tra gli storici fiorentini che si mossero sulla scia aperta da Guicciardini vi fu anche Giovan Battista Adriani (1511-1579), letterato legato ai Medici, nominato da Cosimo I storiografo ufficiale e autore di un’Istoria de’ suoi tempi in 22 libri, pubblicata postuma nel 1583, in cui si ricostruivano gli eventi della storia della città dal 1536 fino alla morte del primo granduca di Toscana (1574), inquadrandoli nel più ampio contesto europeo con notevole senso della misura e acume storico.
L’intreccio fra politica e storia e la propensione a riflettere sul passato prossimo, o sui fatti che si erano almeno in parte vissuti, anche mediante il supporto di un’adeguata documentazione, si rivelarono caratteristiche comuni anche ad autori non fiorentini, come il veneziano Paolo Paruta (1540-1598). Uomo politico e membro di una nobile famiglia di origine lucchese, lettore di Machiavelli e Guicciardini, nominato storiografo ufficiale della Serenissima nel 1579, fu autore, tra le altre opere, della Istoria veneziana, pubblicata postuma nel 1605, che con notevole imparzialità proseguiva quella di Pietro Bembo per gli anni 1513-1552, riservando una speciale attenzione alle relazioni tra storia italiana ed europea e alla sfera politico-diplomatica.
Appartennero invece a una generazione successiva il veneto Arrigo Catarino Davila (1576-1631) e il ferrarese Guido Bentivoglio (1577-1644). Scrittore e militare, discendente da una nobile famiglia spagnola, Davila trascorse la giovinezza in Francia alla corte di Caterina de’ Medici e prese parte alle guerre di religione, per poi ritornare in Italia, entrando al servizio della Repubblica di Venezia e acquistando grande fama come autore della Storia delle guerre civili in Francia (1630), opera di notevole lucidità, incline a un’interpretazione tutta politica dei fatti narrati. Protagonista di una brillante carriera diplomatica ed ecclesiastica, coronata dalla porpora cardinalizia (1621) e dalla presidenza della Congregazione del Sant’Uffizio (1628-1635), nella quiete romana Bentivoglio ritornò alla giovanile passione per la storia, dando alle stampe le Relazioni (1629), che offrirono uno spaccato di rara potenza della recente storia politica europea, cui seguirono i volumi Della guerra di Fiandra (1632-1639), opera dedicata alla rivolta antispagnola dei Paesi Bassi e fondata su un’abbondanza di fonti che egli aveva raccolto negli anni in cui vi era stato nunzio pontificio.