HAYEZ, Francesco
"Nacqui in Venezia il giorno 10 Febbraio 1791 nella parrocchia di S. Maria Mater Domini": così afferma lo stesso H. nell'incipit delle sue memorie dettate molti anni più tardi, tra il 1869 e il 1875, a Giuseppina Negroni Prati Morosini.
La nobildonna milanese fece dono delle memorie dell'H. all'Accademia di Brera, nel cui archivio sono ancora oggi conservate in due versioni. La prima, più breve, fu edita con il titolo Le mie memorie, a cura di G. Carotti, con un discorso di E. Visconti Venosta, a Milano nel 1890; la seconda, più completa, cui si farà d'ora in avanti riferimento, è stata pubblicata con lo stesso titolo a cura di F. Mazzocca e C. Ferri, a Vicenza nel 1995.
Dei genitori naturali, Giovanni originario di Valenciennes e Chiara Torcellan da Murano, l'artista dice poco o nulla nell'autobiografia; né fa altra menzione della sua famiglia, che contava altri quattro figli, se non a proposito delle pressanti ristrettezze economiche che spinsero i genitori ad affidarlo ancora bambino, sul principio del 1797, alle cure di una zia materna e del suo consorte, il genovese Francesco Binasco, antiquario e mercante di quadri.
Fu dunque presso la casa degli zii che il giovane H. trascorse gran parte dell'infanzia e dell'adolescenza e ricevette una prima educazione, soprattutto per iniziativa dello zio Francesco, il quale aveva per tempo intuito le inclinazioni e il talento artistico del nipote, anche se in verità sperava di farne un bravo restauratore da impiegare per le proprie attività commerciali. Fin dall'inizio, infatti, il giovane frequentò la scuola di disegno tenuta da un certo Zanotti, che morì però poco tempo dopo. L'H. passò quindi sotto la guida del pittore veneziano Francesco Maggiotto, che allora godeva in città di una distinta notorietà ed era ispettore alla tutela dei dipinti esposti nelle chiese. Nei tre anni in cui fu allievo di Maggiotto l'apprendista pittore poté ampliare la propria cultura figurativa e cominciare a informare personali orientamenti di gusto, in primo luogo a contatto con le opere dei grandi maestri veneti del Settecento: da Giovan Battista Tiepolo e Giovan Battista Piazzetta a Sebastiano Ricci e Francesco Fontebasso. A costoro, tuttavia, l'H. preferiva la maniera più monotona ma meno barocca di Gregorio Lazzarini, e sulle opere di questo egli stesso riconobbe di aver condotto i suoi primi studi.
All'inizio del nuovo secolo, per imprimere un più decisivo impulso alla formazione artistica del giovane, Francesco Binasco fece in modo che il nipote potesse frequentare la allora celebre galleria Farsetti, onde esercitarsi nel rilievo dei gessi di famose statue classiche che vi erano raccolti. Di lì a poco l'H., su sua stessa richiesta, venne pure ammesso alla scuola di nudo presso la vecchia Accademia di belle arti di Venezia, dove incontrò il pittore Lattanzio Querena, dal quale ricevette i primi rudimenti nell'uso del colore, e cominciò a distinguersi vincendo, il 1° apr. 1805, il primo premio per il disegno di nudo.
Dopo l'unione di Venezia al napoleonico Regno d'Italia (1806), il governo decretò la fondazione di una nuova Accademia, che venne trasferita nei locali della ex Scuola della Carità. Il conte Leopoldo Cicognara, presidente dell'Accademia dal 1808, avrebbe avuto poi un ruolo decisivo per la fortuna dell'Hayez.
Nella nuova Accademia l'H. poté seguire i corsi di Teodoro Matteini, incaricato dell'insegnamento della pittura di storia. A questi anni risalgono pure i primi dipinti documentati del giovane artista: un Ritratto della famiglia del pittore (Treviso, Museo civico L. Bailo) - in cui compare lo stesso H., che nel 1864 autenticò il quadro datandolo 1807 - e una Adorazione dei magi, ricordata nelle memorie e realizzata entro il 1809 per i padri armeni della parrocchiale di Lussingrande (Veli Lošinj), dove è ancora conservata.
Sempre nel 1809 l'H. vinse, insieme con Giovanni De Min e Vincenzo Baldacci, il premio del concorso indetto dall'Accademia per l'"alunnato di Roma", che garantiva ai vincitori una borsa di studio per un triennio di perfezionamento a Roma. Nell'ottobre dello stesso anno partì alla volta di Roma, accompagnato dallo zio Binasco, dall'amico e collega Odorico Politi e, soprattutto, dalle lettere commendatizie consegnategli dall'architetto Antonio Selva e dal conte Cicognara, che raccomandava il proprio pupillo ad Antonio Canova e al cardinale Ercole Consalvi.
Giunto a Roma, dopo varie soste in cui ebbe modo di visitare brevemente anche Bologna, Firenze e Siena, l'H. si presentò da Canova - dal 1802 ispettore generale delle Belle Arti per Roma e lo Stato pontificio, con sovrintendenza ai musei Vaticani e Capitolini e all'Accademia di S. Luca - e fu accolto con affabilità e grande disponibilità. Per tramite del collaboratore di Canova, Antonio D'Este, il pittore veneziano ebbe libero accesso alle grandi collezioni romane, e in particolare ottenne il permesso di recarsi ai Musei Capitolini e al Museo Chiaramonti in Vaticano, dove poter studiare e disegnare la statuaria greco-romana e le opere dello stesso Canova. Per intercessione di Vincenzo Camuccini, altra figura assai influente nel panorama artistico della Roma di quegli anni, l'H. passò quindi a condurre i suoi studi giornalieri nelle Stanze vaticane, ove ebbe modo di lavorare assiduamente a confronto diretto col modello raffaellesco, che si sarebbe rivelato decisivo per la sua formazione. A questa, naturalmente, contribuirono anche le variegate esperienze che un giovane e ambizioso pittore poteva fare in una città artisticamente cosmopolita come Roma. Negli anni del suo soggiorno romano l'H. poté infatti conoscere e frequentare molti artisti italiani e stranieri: Pelagio Palagi, Tommaso Minardi, Bartolomeo Pinelli, Dominique Ingres e Friedrich Overbeck, tra quelli ricordati espressamente nelle memorie.
Grazie all'incoraggiamento di Canova e di Cicognara, che riponevano nel talento del loro protégé le speranze di vedere finalmente restaurata una grande pittura nazionale italiana, nel 1812 l'artista prese parte al prestigioso concorso indetto dall'Accademia milanese di Brera sull'impegnativo tema classico del Laocoonte. Nonostante l'autorevole influenza dei mentori dell'H. e l'indubbia qualità del suo lavoro (Milano, Accademia di Brera), la commissione giudicatrice non volle scontentare neppure Andrea Appiani, che sosteneva il suo delfino Antonio De Antoni, e dunque optò per un diplomatico primo premio ex aequo. Si trattava comunque della prima vera, importante affermazione pubblica dell'H. sulla scena nazionale, alla quale fecero seguito altri successi nel giro di pochi anni. Nell'estate del 1813 inviò all'Accademia veneziana, quale saggio conclusivo del suo triennio di studio romano, la grande tela con Rinaldo e Armida (Venezia, Galleria d'arte moderna a Ca' Pesaro), che mostra la particolare declinazione coloristica e "tizianesca" con cui l'artista aveva inteso la lezione classicista canoviana. Non per caso il dipinto piacque agli accademici veneziani e in particolare a Cicognara, sicché al giovane borsista venne concesso il quarto anno di pensionato a Roma e una speciale gratificazione economica. Il poco più che ventenne H. era comunque in grado di selezionare oculatamente i propri referenti figurativi e calibrare specifiche inflessioni stilistiche anche in vista di particolari circostanze. Nell'Atleta trionfante (Roma, Accademia nazionale di S. Luca), realizzato pressoché contemporaneamente alla tela inviata a Venezia per il concorso del cosiddetto "Mecenate Anonimo" bandito dall'Accademia di S. Luca, assai più esplicite sono le citazioni dalla statuaria classica e canoviana e più aulica e ossequiosa l'interpretazione accademica del nudo. Come era forse prevedibile, il 17 maggio del 1813 la commissione, presieduta dallo stesso Canova, decretava vincitore del concorso il dipinto dell'H., che a ventidue anni poteva così già vantare un curriculum invidiabile.
A Roma il giovane veneziano si divideva tra un'intensa attività di studio e gli svaghi e le frequentazioni concesse da una grande città; egli stesso ebbe più tardi a confessare: "Dirò che chi mi vedeva allo studio e poi in compagnia avrebbe trovato due uomini ben diversi" (Le miememorie, p. 85). Avendo ottenuto uno studio e un alloggio presso palazzo Venezia dal console del Regno italico Giuseppe Tambroni, il pittore intrecciò una relazione sentimentale clandestina con la figlia sposata del maggiordomo dell'ambasciata. In breve la cosa si seppe e l'H. fu persino aggredito dal marito dell'amante. Per evitare ulteriori scandali, Canova gli impose di lasciare la città e recarsi per qualche tempo a Firenze. Ma la lungimirante strategia di promozione concertata dallo scultore e dal conte Cicognara non tardò a ottenere un nuovo e prestigioso incarico per il loro protetto. Il 17 marzo 1814, mentre era ancora in Toscana, l'H. ricevette la lettera di Giuseppe Zurlo, il ministro del re di Napoli Gioacchino Murat che gli commissionava un quadro di dimensioni, soggetto e prezzo da determinarsi a discrezione di Cicognara, e gli accordava altresì per un anno un assegno di 50 scudi romani mensili. Rientrato subito a Roma col permesso di Canova e dietro suo suggerimento, il pittore si rimetteva a lavoro su una composizione già concepita e avviata prima della sua repentina partenza per Firenze: l'Ulisse alla corte di Alcinoo. La grande tela non era stata ancora condotta a termine quando sul trono di Napoli tornarono i Borboni: Ferdinando IV (dal dicembre 1816 I delle Due Sicilie) sospese il pagamento dell'assegno mensile accordato all'H. ma accettò comunque di acquistare il dipinto per il palazzo reale di Capodimonte, dove infatti il quadro venne spedito nel 1816 e dove è tuttora conservato.
In questo stesso periodo, intanto, l'H. aveva cominciato a frequentare la casa della famiglia Scaccia, dove conobbe Vincenza, sua futura moglie. Grazie ai proventi della commissione napoletana e a quelli del nuovo incarico procuratogli ancora da Canova per l'esecuzione di una serie di lunette ad affresco nel corridoio Chiaramonti dei Musei Vaticani, l'artista poteva allora disporre di quel tanto di sicurezza economica che gli permettesse di sposarsi. Le nozze vennero celebrate il 13 apr. 1817 nella parrocchia di S. Maria in Via; ma già nel giugno seguente la coppia lasciava la città per recarsi a Venezia, dove il pittore era stato convocato dal conte Cicognara per partecipare alla realizzazione di un complesso gruppo di opere di cui le province venete avrebbero dovuto fare omaggio all'imperatrice Carolina Augusta di Baviera, neo sposa (quarta) dell'imperatore Francesco I. Il quadro commissionato per l'occasione all'H., e oggi disperso, rappresentava la Pietà di Ezechia e venne presentato al pubblico nelle sale dell'Accademia insieme con gli altri doni. Ma già nell'estate del 1817 il presidente dell'Accademia aveva orgogliosamente fatto esporre il Ritratto della famiglia Cicognara (Venezia, collezione privata: Mazzocca, 1994, p. 52), che l'artista aveva appena consegnato al proprio mentore e protettore. A Venezia i coniugi Hayez andarono a vivere in un primo momento in casa degli zii Binasco, per trasferirsi poi presso la sorella del pittore, in previsione di un temporaneo soggiorno prima di rientrare a Roma. Benché le condizioni economiche della coppia non fossero affatto precarie - l'artista aveva accolto presso di sé anche il padre Giovanni - l'H. non disdegnò la proposta dell'amico Giuseppe Borsato, professore di ornato all'Accademia, che gli offrì di collaborare in una serie di imprese decorative per case e palazzi tra Venezia e Padova. Questa alacre e redditizia attività tenne impegnato il pittore per quasi tre anni, ma egli stesso avrebbe dovuto poi prendere coscienza del fatto che "quel lavoro era tale da non rendermi contento perché essendo di sola decorazione non potevo fare quegli studi necessari per avanzare nell'arte" (Le mie memorie, p. 113). Cominciò allora ad applicarsi per proprio conto a una nuova impegnativa composizione di soggetto storico, che avrebbe segnato una svolta decisiva non solo nella sua carriera, ma anche, più in generale, nella pittura italiana di quegli anni: il Pietro Rossi (Torino, collezione privata: Mazzocca, 1994, p. 54). In una lettera del 10 ag. 1818 l'H. comunicava infatti a Canova le difficoltà e le proprie esitazioni nell'emanciparsi dai limiti del convenzionalismo neoclassico per attingere una più emotiva e immediata aderenza narrativa e drammatica, ciò che egli riteneva di poter riscoprire nei "primitivi" veneti, in Bellini, Cima, Carpaccio.
Mentre era ancora impegnato nella sua nuova impresa, l'H. si recò a Milano, dove, grazie al vecchio amico Palagi, venne introdotto e favorevolmente accolto negli ambienti intellettuali della città, dove ebbe modo di conoscere, tra gli altri, Alessandro Manzoni, Tommaso Grossi, Ermes Visconti e altri alfieri della nuova corrente romantica, e dove, soprattutto, poté entrare in contatto con una committenza assai più interessata a un nuovo genere di pittura di quanto non fosse possibile a Venezia. Il segretario dell'Accademia di Brera, Ignazio Fumagalli, si adoperò perché l'H. potesse esporre il Pietro Rossi, che infatti venne presentato al pubblico all'esposizione braidense nell'estate del 1820, riscuotendo un enorme successo, e salutato addirittura come il manifesto della nuova pittura romantica. A ciò contribuì senz'altro la novità dello stile, ma non meno la particolare interpretazione del soggetto tratto dalla storia nazionale, che poteva facilmente caricarsi di valenze politiche, civili e morali nel clima patriottico di quegli anni che vedeva accendersi i primi moti insurrezionali carbonari.
La fortunata accoglienza suscitata dall'opera procurò subito al pittore veneziano nuove commissioni da parte dell'aristocrazia milanese di orientamenti liberali. Per il conte Francesco Teodoro Arese Lucini, che di lì a poco sarebbe stato arrestato e condotto allo Spielberg, l'H. realizzò un soggetto esplicitamente desunto dall'ultima scena del Conte di Carmagnola di Manzoni. Il dipinto, perduto durante i bombardamenti di Montecassino, fu esposto a Brera nel 1821 guadagnando all'autore non solo la stima dello stesso Manzoni, ma anche le simpatie di un pubblico pronto a riconoscervi un chiaro riferimento alla drammatica attualità delle vicende politiche italiane.
Ormai consacrato campione della nuova pittura di storia "impegnata", l'artista volle confrontarsi nel 1822 con un altro tema patriottico che avrebbe avuto larga fortuna in seguito, e sul quale egli stesso sarebbe poi tornato: I Vespri siciliani (Torino, collezione privata: ibid., p. 149), opera eloquente per l'accentuazione di una gestualità "patetica" e concitata e per il recupero del colorismo "drammatico" della tradizione veneta e tizianesca.
D'altra parte, in risposta ai rilievi di quei critici che biasimavano l'abbandono di una misura classica e monumentale, l'H. tornò pure a cimentarsi col soggetto statuario del nudo eroico e all'esposizione milanese del 1822 esibì anche la grande tela del suo titanico Aiace d'Oileo (Brescia, collezione privata: ibid., p. 58), tour de force anatomico e nello stesso tempo omaggio alla colossale statua di identico soggetto realizzata da Canova dieci anni prima.
Nello stesso 1822 il pittore era stato intanto chiamato a sostituire Luigi Sabatelli sulla cattedra di pittura all'Accademia di Brera e aveva preso alloggio, presso l'amico incisore Michele Bisi, a Milano, dove si sarebbe trasferito definitivamente l'anno successivo, trovandovi ormai un ambiente e un mercato molto più ricettivo di quello veneziano.
Anche il progetto di rientrare prima o poi a Roma doveva sembrare allora più remoto, tanto più dopo la morte di Canova. Non mancarono neppure commissioni pubbliche di maggior prestigio, quando nel 1823 venne chiamato, insieme con Palagi, a terminare gli affreschi allegorici lasciati incompiuti da Appiani nella sala della Lanterna in palazzo reale (oggi perduti).
A questo primo periodo del soggiorno milanese, segnato dal successo e dal prestigio professionale, e che le memorie stesse ricordano come "il più bel momento" della carriera dell'artista (p. 140), risalgono alcuni dei capolavori che segnano i raggiungimenti della prima maturità e annunciano le linee di sviluppo della successiva produzione, secondo le tematiche e i generi più congeniali al pittore e più cari alla sua committenza. Nel 1823, per il noto collezionista Giambattista Sommariva, l'H. realizzò una grande tela con L'ultimo bacio di Giulietta e Romeo (Tremezzo, Como, villa Carlotta), interpretazione tipicamente romantica del soggetto shakespeariano, che insiste, da una parte, su un'attenta e "filologica" ricostruzione d'ambiente e, dall'altra, sul motivo espressivo e patetico dell'addio degli amanti nell'imminenza della tragedia.
Questi elementi ritornano anche in altri grandi quadri di soggetto storico-letterario, come il Fiesco si congeda dalla moglie, del 1826 (Novi Ligure, collezione privata: Mazzocca, 1994, p. 175), desunto dalla Congiura dei Fieschi di Friedrich Schiller; o la gremita e "veronesiana" composizione della Maria Stuarda nel momento che sale al patibolo (Milano, collezione privata: ibid., p. 64), entusiasticamente accolta all'esposizione braidense del 1827 e pure più o meno direttamente ispirata all'omonimo dramma schilleriano; o ancora il pressoché contemporaneo La congiura dei Lampugnani (Milano, Accademia di Brera), terminato nel 1829, episodio tratto dalle Istorie di Niccolò Machiavelli e già trasposto in tragedia da Alessandro Verri nella Congiura di Cola Montano.
Anche sul versante meno "impegnato" della sua produzione, l'H. licenziava in questo giro d'anni saggi preziosi di una ricerca tecnica e formale di grande virtuoso. È il caso della celebre Maddalena pentita (collezione privata: ibid., p. 59) dipinta per il barone Giacomo Ciani nel 1825, che si misura con l'autorevole precedente canoviano ma mobilita, nel "paragone", una complessa rete di riferimenti alla tradizione pittorica più squisitamente sensuale del nudo femminile, da Tiziano a Francesco Furini, e rivaleggia piuttosto con le odalische di Ingres. Sempre col maestro francese sembra infatti sollecitare il confronto anche l'altro nudo a grandezza naturale, la Venere che scherza con due colombe (Trento, Cassa di risparmio di Trento e Rovereto), che l'H. espose a Brera qualche anno dopo, nel 1830, suscitando scalpore per l'ostentato realismo "analitico" che trasforma il pretesto classico dell'Afrodite Callipigia in un pezzo di bravura sulle qualità plastiche, luministiche e materiche dell'opulenta bellezza muliebre della modella, la ballerina Carlotta Chabert.
L'altro genere per cui la pittura dell'H. era assai richiesta in questi anni milanesi è quello del ritratto, ambito nel quale l'artista raggiunge risultati altrettanto notevoli, sperimentando soluzioni inedite e persino ardite, con una casistica che va dalla citazione aulica e antiquariale, tintorettesca, nel Ritratto di Francesco Peloso del 1824 (Genova, collezione privata: ibid, p. 69), al severo, spoglio realismo davidiano del Ritratto del conte Arese in carcere del 1828 (Milano, collezione privata: ibid., p. 68); dall'inconsueta iconografia dell'Autoritratto con gruppo di amici del 1827 (Milano, collezione privata: ibid., p. 70) - o di quello, di poco posteriore, con una tigre e un leone, del Museo Poldi Pezzoli di Milano - alla più immediata e quasi "domestica" redazione del Ritratto di Carolina Zucchi (1825: Torino, Civica Galleria d'arte moderna), la giovane che il pittore aveva conosciuto appena giunto a Milano ed era già allora nota come "la Fornarina dell'Hayez".
Rientrato Sabatelli da Firenze nel 1825, l'H. fu costretto a lasciare lo studio di cui aveva usufruito all'Accademia per trasferirsi in altra sede, che fissò nel 1829 in un ex monastero di proprietà della famiglia Repossi, dove continuò a lavorare fino al 1864. Qui, tra la fine del terzo e l'inizio del quarto decennio, portava a compimento due opere capitali con cui si inaugurava una nuova fase della sua carriera di pittore di storia.
Il primo, Pietro l'Eremita predica la crociata (Milano, collezione privata: ibid., p. 74), gli era stato commissionato dal già citato collezionista genovese Francesco Peloso e rappresentava un episodio reso attuale dalla recente edizione della Storia delle crociate di Joseph-François Michaud, nonché dal poema di Tommaso Grossi, I Lombardi alla prima crociata, pubblicato appena nel 1826. Quando la cruda e poco convenzionale interpretazione datane dal pittore venne presentata all'Accademia nel 1829, il successo di pubblico fu generale; ma la critica restò divisa tra conservatori e fautori romantici, cui non sfuggì il significato politico, questa volta di respiro "nazionale", del soggetto messo in scena, che non per caso si guadagnò subito l'adesione di un osservatore come Stendhal e, ancora a più di dieci anni di distanza, quella non meno entusiastica di Giuseppe Mazzini.
Anche più dichiarata era l'allusione all'attualità nell'altro celebre dipinto realizzato nel 1831 per il conte Paolo Tosio: I profughi di Parga (Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo).
La scelta del soggetto fu dello stesso H., poiché "rappresentava sentimenti patrii che ben s'attagliavano alla nostra condizione" (Le mie memorie, p. 145) e poiché si poteva evidentemente contare sull'effetto che avrebbe fatto sul pubblico, "ché in quell'epoca le sventure della Grecia destavano la simpatia generale e l'indignazione per chi l'aveva ceduta al famigerato Bascià di Janina, contro il diritto delle genti" (ibid., p. 168). L'importanza che l'autore stesso annetteva a quest'opera lo spinse a una lunga e puntigliosa preparazione filologica circa l'ambientazione, i costumi e persino la topografia, così come a una più composta impaginazione, anche perché il sentimento elegiaco di commossa partecipazione non poteva qui affidarsi alla spiritata presenza di un "protagonista", che era invece il nucleo generatore del più dinamico Pietro l'Eremita.
Se la pittura di storia imponeva scrupolose ricerche preliminari e la sfida di notevoli vincoli compositivi, quale la leggibilità nelle affollate scene di massa - problema più volte ripreso e ulteriormente sviluppato, nel 1835, in un quadro come Il papa Urbano II sulla piazza di Clermont predica la crociata (ubicazione ignota: Mazzocca, 1994, p. 244) - l'H. continuava nondimeno a dedicarsi contemporaneamente anche a soggetti, almeno apparentemente, più accessibili e non meno fortunati. In particolare i temi di ispirazione biblica, in specie vetero-testamentaria, che egli cominciò a frequentare più assiduamente in questi anni, gli permettevano di trattare con una certa libertà, persino pretestuosa, il motivo prediletto del nudo, fermamente considerato, secondo un dettato classico cui l'H. tenne sempre fede, "la cosa più difficile dell'arte" (Le mie memorie, p. 171).
Tra il 1833 e il 1834 si collocano dipinti come la Maddalena della Galleria d'arte moderna di Milano, il Loth e le figlie e la Betsabea al bagno (entrambi in collezioni private: Mazzocca, 1994, pp. 86 s.), che sono altrettanti esempi di esercizi d'equilibrio tra fedeltà al vero, eleganza formale e confronto con la tradizione. Di qui, e per concessione a un certo gusto esotico montante, discendono le varie odalische che ricorrono poi nel catalogo hayeziano degli anni successivi, e tra le quali spicca quella della Pinacoteca di Brera, databile al 1839.
Nel 1836 l'artista ricevette dal principe Klemens von Metternich l'incarico di preparare una composizione allegorica da realizzare ad affresco nel soffitto del salone delle Cariatidi, in palazzo reale a Milano, per celebrare l'incoronazione regia dell'imperatore Ferdinando I d'Austria. Consultatosi con l'amico Andrea Maffei, che gli fornì suggerimenti circa l'iconografia dell'allegoria, e terminati i disegni preparatori, l'H. presentò il suo lavoro al governatore di Milano, il conte Franz Hartig, quindi partì per Vienna per sottoporre il suo progetto a Metternich e conferire direttamente con l'imperatore.
Fece tappa prima a Venezia, per incontrare il viceré del Lombardo Veneto, l'arciduca Ranieri, e poi a Lubiana, dove fece visita a Johann Joseph Radetzky. A Vienna fu presentato da Metternich all'imperatore e al principe Ludovico, quindi poté esporre i suoi disegni al ministro dell'Interno, il conte Franz Anton von Kolowrat, dal quale avrebbe ricevuto il definitivo benestare. Dopo la lunga trafila burocratica il pittore ebbe poi modo di visitare l'Accademia di Vienna e vari studi di pittori e scultori. Nel viaggio di ritorno sostò infine anche a Monaco, dove l'architetto Leo von Klenze fece gli onori della città e lo accompagnò a incontrare molti protagonisti della scena artistica monacense, come Ludwig Schwantler, i fratelli Hess, Peter Cornelius, Julius Schnorr, alcuni dei quali l'H. ritrovava dopo molti anni, dai tempi del giovanile soggiorno romano.
Rientrato a Milano, l'H. mise mano agli studi preparatori per l'impresa della sala delle Cariatidi, realizzò il cartone, gli abbozzi necessari; ma prima di cominciare l'affresco dovette attendere la definitiva conferma della commissione, che tardò ad arrivare, sicché tutto il lavoro, come l'H. stesso ricorda nelle memorie, dovette essere realizzato nello spazio di tre mesi e il dipinto vero e proprio condotto a termine in quaranta giorni, onde la decorazione potesse essere pronta per la data della cerimonia di incoronazione. La sala con il nuovo affresco, l'Allegoria dell'ordine politico di Ferdinando I, distrutto nel 1943, venne inaugurata nel settembre del 1838. In quella stessa occasione l'imperatore visitò pure l'esposizione di Brera, dove figuravano diverse opere dell'H., che furono assai apprezzate e guadagnarono infatti all'artista due nuove prestigiose commissioni, da parte dello stesso Ferdinando e del ministro Kolowrat, con libertà di decidere il soggetto dei dipinti purché fosse tratto dalla storia veneta. Nel 1840 i due quadri vennero esposti a Brera e quindi stimati da un'apposita commissione accademica prima di essere inviati a Vienna. Il dipinto per Kolowrat, oggi perduto, raffigurava Vettor Pisani liberato dal carcere, soggetto ripreso poi in una versione assai più tarda; l'altro, maggiore, acquistato dall'imperatore e collocato nella galleria del Belvedere con grandissimo plauso degli artisti viennesi, rappresentava invece L'ultimo abboccamento di Iacopo Foscari con la propria famiglia (oggi in collezione privata milanese: Mazzocca, 1994, p. 88). Qui l'H. rimetteva in scena, e l'impianto teatrale forse non era casuale, il dramma tipicamente romantico reso popolare da George Byron e di lì a poco celebrato ancora da Giuseppe Verdi, episodio che gli permetteva di tornare al motivo più volte affrontato del conflitto, intimo e solenne a un tempo, tra gli affetti familiari e la ragion di Stato; pur senza, come è ovvio in questo caso, scoperte allusioni di carattere rivoluzionario.
Sul medesimo tema dei Due Foscari l'artista sarebbe poi tornato nuovamente, nella grande tela di Brera, del 1844, e in quella più modesta di palazzo Pitti a Firenze, di dieci anni più tarda. Ma il dipinto del 1840 si distingue soprattutto per una nuova e più ricercata analisi luministica e cromatica, che troverà esiti notevoli nelle opere del quinto e sesto decennio.
Ciò è particolarmente evidente nelle due versioni della cosiddetta Malinconia, quella braidense, cominciata a Roma nell'autunno del 1840 e terminata a Milano l'anno dopo, e l'altra, più suggestiva, di poco posteriore, in collezione privata milanese (ibid., p. 99), nelle quali l'H. recupera il classicismo cromatico del giovane Tiziano e indugia su sofisticati effetti di luce che si richiamano a Gian Girolamo Savoldo e a Paolo Veronese. A questo stesso taglio compositivo e alle medesime preoccupazioni stilistiche e formali rimanda pure la serie, tipologicamente omogenea, delle eroine bibliche, dalla Tamar di Giuda del 1847 (Varese, Musei civici), alla Rebecca del 1848 (Milano, Accademia di Brera), fino alla provocante Ruth, presentata all'Esposizione di belle arti di Bologna del 1853: tutte figure che gareggiano idealmente con le bellezze muliebri a mezzo busto, più o meno discinte, di un Tiziano o di un Palma il Vecchio, anche se non mancano riferimenti al realismo della scultura contemporanea, da Lorenzo Bartolini a Vincenzo Vela. A questo gruppo si può infine accostare, per qualità, la solenne, meditabonda compostezza della Ciociara, dipinta probabilmente a Roma nel 1842 (Bergamo, collezione privata: ibid., p. 94) facendo omaggio a un genere allora assai fortunato presso i pittori stranieri, ma con una concentrazione e monumentalità che conferisce all'immagine una forza simbolica forse non esente da qualche richiamo ideologico e patriottico, nel sobrio accordo cromatico sui colori della bandiera nazionale (Maestà di Roma, p. 218). Simili allusioni si fanno più scoperte, dopo il crinale drammatico del 1848, nella figura della Meditazione, eseguita nel 1850 per l'amico Andrea Maffei, in realtà personificazione allegorica dell'Italia che riflette sulle sue sfortunate vicende, come conferma il titolo visibile sul volume tenuto in mano dalla donna: "[Sto]ria d'Italia". Non a caso nella splendida replica del dipinto realizzata l'anno dopo (Verona, Galleria d'arte moderna) l'H. aggiunse, al più serrato rigore formale e alla più raffinata e inquietante partitura luministica ed espressiva, anche l'immagine della croce su cui sono iscritte le date delle Cinque giornate di Milano.
Il quinto e il sesto decennio del secolo contano nuovi, significativi raggiungimenti anche nell'ambito della pittura di più ampio respiro compositivo, nonché, naturalmente, nel genere costantemente frequentato del ritratto. Le tappe fondamentali di questo periodo sono segnate, a giudizio dello stesso H., dall'Incontro di Giacobbe ed Esaù, del 1844, oggi alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, e dal molto più complesso e ambizioso La sete dei crociati sotto Gerusalemme. Il grandioso telero, cominciato di propria iniziativa dall'artista già nel 1835 e commissionatogli in corso d'opera dal re di Sardegna Carlo Alberto nel 1838, fu inviato a Torino solo nel 1849 e collocato infine, l'anno successivo, nella sala delle guardie del corpo, in palazzo reale, dov'è tuttora. Nonostante la freddezza con cui l'opera venne generalmente accolta negli ambienti torinesi, il nuovo re Vittorio Emanuele II premiò l'artista conferendogli l'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro. Nell'arco di tempo che sottende la lunga gestazione del quadro torinese si colloca pure un altro celeberrimo dipinto storico: la seconda versione dei Vespri siciliani (Roma, Galleria nazionale d'arte moderna), che venne commissionato all'H. nel 1844 dal principe di Sant'Antimo Francesco Ruffo e per la realizzazione del quale il pittore impiegò quasi due anni, recandosi addirittura in Sicilia onde poter ricostruire con maggiore fedeltà la scena dell'episodio.
Tra gli esempi più significativi della ritrattistica hayeziana più matura si possono invece ricordare almeno il Ritratto di Alessandro Manzoni del 1841, oggi a Brera; l'Autoritratto, pure nella Pinacoteca braidense, datato 1848; il Ritratto della cantante Matilde Juva Branca (Milano, Galleria d'arte moderna) e quello di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, nell'omonimo Museo milanese, entrambi di un decennio più tardi; o ancora il Ritratto di Antonio Rosmini, a Brera, del 1853-56.
Dagli anni Cinquanta in poi si moltiplicarono per il pittore gli incarichi accademici e i riconoscimenti ufficiali.
Il 10 ag. 1850, quasi sessantenne, ottenne la cattedra di pittura all'Accademia milanese, in sostituzione del defunto Luigi Sabatelli, di cui era stato a lungo supplente, anche se già due anni dopo veniva maturando il proposito, caldeggiato dall'amico Maffei, di lasciare l'insegnamento. Nel maggio del 1852 era a Vienna, per consegnare un ritratto, oggi non rintracciabile, all'imperatore Francesco Giuseppe, dal quale veniva insignito dell'Ordine della Croce di ferro. Nel 1860 riceveva la nomina a professore onorario dell'Accademia di belle arti di Bologna, mentre nello stesso anno Massimo d'Azeglio gli affidava la presidenza di quella milanese in sua rappresentanza.
Sul versante della produzione artistica, tra le opere della tarda maturità bisognerà ricordare, intorno a questi anni, l'impegnativa commissione pubblica del Martirio di s. Bartolomeo, terminato nel 1856 per la chiesa di Castenedolo (Brescia) intitolata al santo, e soprattutto il Bacio della Pinacoteca di Brera, probabilmente il dipinto più popolare dell'Hayez.
Il quadro, eseguito per il conte Alfonso Maria Visconti di Saliceto e presentato a Milano nel 1859, sintetizza sintomaticamente gli elementi più caratteristici e immediatamente accessibili della pittura hayeziana: ambientazione gotico-rinascimentale, rappresentazione degli affetti, ponderata eleganza del disegno, assoluto magistero nella resa delle superfici. Inoltre, qui il motivo più volte trattato per il tramite di un particolare soggetto storico o letterario si libera di ogni contesto aneddotico o narrativo, né l'essenzialità dell'immagine, che sembra richiamarsi a intonazioni preraffaellite, ci dice se si tratti di un bacio d'addio o di un incontro, assumendo così una valenza simbolica ed emblematica che ne favorì la fortunata ricezione. Del dipinto esistono infatti varie repliche, una delle quali fu inviata dall'artista all'Esposizione universale di Parigi nel 1867 dove fu accolta assai favorevolmente, forse anche per le latenti allusioni patriottiche, che si son volute leggere nell'araldica scelta dei colori, all'alleanza italo-francese, all'indomani dell'entrata a Milano di Vittorio Emanuele II e Napoleone III.
Nel 1861 l'anziano pittore, deciso a non intraprendere più lavori di gran mole, lasciava il grande studio di Brera e ne donava il corredo artistico all'Accademia. Alla stessa istituzione fece poi omaggio, nel novembre 1867, del dipinto Gli ultimi momenti del doge Marin Faliero, mentre contemporaneamente, e con gesto simbolico, inviava all'altra Accademia donde la sua carriera aveva preso le mosse, quella veneziana, La distruzione del tempio di Gerusalemme, che, insieme appunto con il Marin Faliero, costituisce il testamento dell'H. pittore di storia.
Già dalla metà del settimo decennio l'artista aveva cominciato a dedicarsi soltanto a opere meno impegnative, soprattutto alla ritrattistica, dalla quale uscivano comunque ancora dei capolavori come i ritratti, entrambi a Brera, di Massimo d'Azeglio, del 1864, e di Gioacchino Rossini, realizzato nel 1870, dopo la morte del musicista.
In seguito alla morte della moglie Vincenza, avvenuta nel 1869, l'H. trascorse gli ultimi anni accanto ad Angela Rossi, la giovane che egli aveva adottato nel 1873. Nel 1880, dopo essere stato nominato professore onorario di pittura dell'Accademia di belle arti di Milano, il 9 gennaio si ritirò definitivamente dal servizio effettivo.
L'H. morì a Milano il 12 febbraio 1882.
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