Sforza, Francesco I
Nato a San Miniato (Firenze) il 23 luglio 1401 dalla relazione tra il condottiero Muzio Attendolo, più noto come Sforza, e Lucia di Torsciano, nel 1412 il padre lo chiamò con sé, prima a Perugia, dove si trovava al servizio di papa Giovanni XXIII, e quindi a Napoli, dove il condottiero si recò, al soldo di re Ladislao d’Angiò-Durazzo. Nel 1417 Giovanna regina di Napoli lo legittimò quale figlio di Muzio. Quando questi morì in battaglia, nel 1424, S. fu messo a capo della compagnia sforzesca e come tale fu riconosciuto da Giovanna, la quale riconobbe le disposizioni testamentarie che assicuravano a S. le cospicue giurisdizioni feudali che l’Attendolo aveva acquisito in Italia meridionale (altre signorie S. ereditava dal padre nello Stato pontificio). La regina dispose anche che S. e i suoi discendenti prendessero come cognome il soprannome del capitano defunto, Sforza.
Dopo un breve periodo al servizio del papato (cui si fa cenno in Istorie fiorentine – di qui in poi abbreviato nelle citazioni Ist. fior. – I xxxviii, mentre in I xxxiv S. con altri condottieri viene citato per dimostrare come la guerra fosse divenuta attività solo di principi minori o di uomini senza Stato, molti dei quali avrebbero sistematicamente approfittato dell’oziosità dei principi), nell’estate del 1425 S. passò al soldo di Filippo Maria Visconti, impegnato in un conflitto contro i fiorentini che prendeva proprio in quel tempo un carattere di guerra pan-italiana.
Nel 1431 fu a capo, assieme con Niccolò da Tolentino e Niccolò Piccinino, delle truppe milanesi impegnate nella guerra contro i veneziani, ma l’improvvisa diserzione del Tolentino obbligò il duca, per rafforzare il legame con S., a promettergli per moglie la figlia naturale (poi legittimata) Bianca Maria, che allora aveva soltanto sei anni; non solo, dopo averlo dichiarato proprio figlio adottivo, e avergli così concesso il cognome Visconti, gli concesse alcuni feudi. M. nota come l’impegno matrimoniale accrebbe significativamente la reputazione di S., già esaltata dalle sue naturali «virtù» (Ist. fior. V ii).
Intanto, Filippo Maria, approfittando della debolezza papale, anche legata alle vicende del concilio di Basilea, inviò S. nella Marca d’Ancona, che fu rapidamente occupata (Ist. fior. V ii); da qui egli entrò in Umbria, e quindi nella Tuscia romana. Posto alle strette, papa Eugenio IV nel marzo 1434, in un estremo tentativo di evitare la rovina, nominò S. marchese perpetuo di Fermo, vicario per cinque anni di Todi e altri luoghi, nonché gonfaloniere della Chiesa. Filippo Maria giudicò questo accordo un tradimento e indirizzò subito contro S. il Piccinino (Ist. fior. V iii). Anche la riapertura della questione della successione a Giovanna II nel 1435 contribuì a distaccare, sia pur temporaneamente, le sorti di S. da quelle viscontee. Mentre Filippo Maria si schierò dopo qualche esitazione dalla parte di Alfonso d’Aragona, S. divenne capo militare dell’alleanza tra Genova, Venezia e Firenze che sosteneva Renato d’Angiò. Le divisioni tra i collegati, e la riproposizione della proposta matrimoniale con la figlia di Filippo Maria, spinsero però S. nel 1438 a ritirarsi dalla mischia. Fu premiato con un nuovo patto di nozze che gli garantì una dote di 100.000 fiorini e la signoria su Asti e Tortona (Ist. fior. V xiii-xiv). Ma già l’anno dopo le ragioni del contrasto con Filippo Maria lo inducevano ad accettare (febbraio 1439) l’offerta veneziana e fiorentina di porsi al comando della lega antiviscontea (Ist. fior. V xvii), comando che S. conservò anche dopo avere sposato Bianca Maria. Nel novembre 1440, S. ed Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, dopo aver riconquistato Verona a beneficio della Serenissima, cacciarono i Viscontei dal Bresciano. La serie di sconfitte spinse ora Filippo Maria Visconti a riproporre a S. il matrimonio con la figlia. S. accettò con prontezza (Ist. fior. V xviii), ma ciò non lo spinse a lasciare la condotta della lega, cui era vincolato fino al 1443 (Ist. fior. V xix-xxiii, xxv, xxxii e passim).
Visconti si avvicinò allora a papa Eugenio IV, con cui si alleò assieme ad Alfonso d’Aragona per risolvere definitivamente il conflitto meridionale e per recuperare al papa i domini sforzeschi nella Marca. Nell’estate 1443 S. fu sconfitto dal re di Napoli e costretto a rifugiarsi a Fano presso Sigismondo Malatesta, che aveva sposato sua figlia Polissena. Ma ora Filippo Maria Visconti, preoccupato dai successi di Alfonso d’Aragona, passò a sostenerlo con un’alleanza che includeva i veneziani (settembre 1443). Il 14 gennaio 1444 Bianca Maria partoriva il suo primogenito, Galeazzo Maria.
Il felice esito di queste vicende ricreò tensioni tra Filippo Maria e il genero, ora troppo potente, anche in vista della successione alla guida del ducato milanese. Il duca ricercò così di nuovo l’alleanza con il papa e con il re aragonese contro S., che si trovò di nuovo a mal partito e in possesso, nella primavera del 1446, nella Marca, soltanto della città di Jesi, nella quale si rinchiuse con Bianca Maria e il figlio. Al fianco di S. si impegnò ora Venezia, che attaccò i domini viscontei, mentre il condottiero si teneva in disparte, per motivi non del tutto chiari. La nuova iniziativa veneziana si rivelò vincente e, messo alle strette, Visconti cercò di accordarsi con S. (Ist. fior. VI xii). Questi, temendo che la Repubblica di San Marco potesse impadronirsi dell’intero ducato milanese, accettò la nomina a capitano generale della lega antiveneziana, pubblicata il 1° febbraio 1447 e che riuniva, al fianco di Filippo Maria, il re Alfonso e il papa. La morte di Eugenio IV il 23 febbraio 1447 mutò ancora la situazione. Il successore, Niccolò V, si dichiarò prima favorevole a una pacificazione generale, poi accettò di partecipare all’impresa contro Venezia, ma solo a condizione di ricevere Jesi da Francesco. Nel maggio 1447, con le forze venete alle porte di Milano, S. si era venuto a trovare in una condizione di assoluto isolamento, in urto, oltre che con i veneziani e con i suoi stessi alleati, con il papa (per la questione di Jesi), con il re Alfonso (per antica rivalità) e con il duca di Milano (per l’ennesimo suo mutamento di strategia). Mentre il Visconti sperava di liberarsi del genero fidando sul suo rifiuto di cedere Jesi al papa, S. stupì tutti accordandosi nel giugno 1447 con Niccolò V. Ma poco dopo, in agosto, il duca di Milano morì, e si costituì la Repubblica Ambrosiana con l’obiettivo di ricostruire nella città il libero comune. S. si trovò al centro della scena: inviati di tutti i potentati italiani lo raggiunsero per tentare di condizionare le sue scelte. Infine, egli si risolse ad accettare l’offerta presentatagli dall’appena costituita Repubblica Ambrosiana di condurre la guerra contro Venezia con la carica di capitano del comune; le sue conquiste sarebbero spettate alla Repubblica Ambrosiana, tranne Brescia o Verona, che avrebbe potuto tenere per sé (Ist. fior. VI xiii). Ma già prima di arrivare a Milano contravvenne ai patti accettando Pavia in spontanea dedizione (Ist. fior. VI xvii). Più volte allora i milanesi tentarono un accordo con Venezia, che pose però condizioni per loro inaccettabili. Il 15 settembre S. distruggeva le schiere di San Marco a Caravaggio, ponendo Venezia in grandi difficoltà. Dell’esito dello scontro non potevano però gioire i milanesi, ormai consapevoli che il rafforzamento di S. si sarebbe rivelato letale per la Repubblica Ambrosiana. Un trattato segreto siglato con i veneziani a Rivoltella il 18 ottobre 1448 prevedeva infatti che la Serenissima lasciasse a S. il ducato già visconteo in cambio di tutti i possessi a occidente del Mincio (Ist. fior. VI xviii-xix).
Nel settembre 1449 il condottiero comparve alle porte di Milano. Nel febbraio 1450 una rivolta popolare mise in fuga i capitani della Repubblica Ambrosiana (Ist. fior. VI xxiii-xxiv). Il 28 febbraio S. accettò formalmente i capitula dell’atto di dedizione e il 1° aprile ottenne da papa Niccolò V un indulto in materia di benefici ecclesiastici che costituì la prima significativa legittimazione del nuovo potere. Subito dopo S. ordinò la ricostruzione del castello di porta Giovia che la decaduta Repubblica Ambrosiana aveva distrutto perché simbolo di tirannide. Il 5 giugno 1450 fu posta la prima pietra del castello Sforzesco.
Sul piano interno il nuovo duca, che si trovava anzitutto a dover rimediare allo stato miserevole delle finanze pubbliche dopo decenni di guerre ininterrotte e la recente, confusa, esperienza repubblicana, si adoperò per premiare con agevolazioni ed esenzioni quella nobiltà che nella recente crisi l’aveva appoggiato e nel favorire i settori produttivi della città e del ducato. Sul piano istituzionale ricostituì e riformò il Consiglio segreto, che era insieme tribunale e organo politico, cui si affiancò, nella direzione amministrativa, come già sotto i Visconti, il Consiglio di giustizia. Il Magistrato alle entrate, composto da referendari e razionatori, sovrintendeva alle finanze, e il tesoriere generale amministrava il pubblico denaro. Per il disbrigo dei suoi affari il duca si avvaleva della cancelleria segreta, i cui ufficiali erano legati al signore da un giuramento di fedeltà e il cui operato era regolato da norme meticolose e severe. Nel campo dell’organizzazione militare, il duca si avvalse del personale amministrativo della sua compagnia, che era la maggiore tra le italiane, contando da 4000 a 5000 unità.
La scena politica generale rimaneva tuttavia tesa. Nel febbraio 1452 fu stretta un’alleanza antiveneziana e antiaragonese tra S., Firenze e Carlo VII di Francia. L’accordo rese inevitabile il conflitto, che divampò nel successivo maggio e terminò il 9 aprile 1454 con la pace di Lodi. Un intenso sforzo diplomatico portò il 25 marzo 1455 alla ‘pubblicazione’ di quella lega italica che avrebbe dovuto garantire, grazie alla dottrina dell’equilibrio (alla cui elaborazione contribuì lo S.), per venticinque anni la pace nella penisola.
Poco convinto di questa intesa era re Alfonso, con cui S. cercò un difficile accordo che condusse a due impegni matrimoniali: Ippolita e Sforza Maria, secondogenita e terzogenito di S., avrebbero sposato rispettivamente Alfonso ed Eleonora d’Aragona, entrambi figli di Ferdinando, duca di Calabria. Seguì un patto, siglato il 31 maggio 1456 anche con l’appoggio del papa, nel quale S. e il sovrano dichiaravano esplicitamente una volontà di avvicinamento. Ma il 27 giugno il re aragonese moriva, lasciando tra contestazioni accesissime il Regno napoletano al figlio naturale Ferdinando. S. si schierò con decisione al fianco del designato – ma per un istante considerò la possibilità di prendere per sé il Regno napoletano –, minacciato dai baroni e dal papa. A quest’ultimo proposito si vociferò che l’improvvisa morte del pontefice nel 1458 fosse in qualche modo da collegare al duro colloquio avuto da Callisto III con l’inviato sforzesco Giovanni Caimi. Il nuovo papa Pio II (Enea Silvio Piccolomini) subito concesse il 17 ottobre l’investitura del Regno a Ferdinando e il pontefice si salvò poco dopo dal dirompente attacco di Iacopo Piccinino nei suoi possessi grazie all’aiuto determinante dello Sforza. Il legame tra i due, divenuto ora elemento forte dell’equilibrio italiano, si rafforzò ulteriormente con il congresso di Mantova del 1459, voluto dal pontefice per organizzare la risposta bellica cristiana all’attacco turco in Oriente. Fu solo il solenne, personale, intervento di S., che impegnò le potenze italiane a seguire le indicazioni del papa sulla guerra al Turco, a risollevare le sorti della languente conferenza.
Si aggravava frattanto la situazione nel Meridione, dove ancora fu necessario l’aiuto del duca di Milano perché re Ferdinando riuscisse a respingere, nel gennaio 1461, l’attacco di Piccinino in sostegno dei ribelli antiaragonesi.
Su un altro fronte S. dovette fronteggiare l’ostilità di Carlo VII di Francia. Quando Genova, nella prima metà del 1461, si ribellò ai francesi, l’appoggio dato dal duca di Milano si rivelò determinante. La crisi su quel fronte si acuì con la morte del re francese il 22 luglio successivo. Il successore, Luigi XI, fece subito intendere di voler seguire le orme del padre, mostrando di voler recuperare Genova e sostenendo le pretese degli Angiò sul Regno di Napoli e quelle degli Orléans sullo stesso ducato milanese. Ma le difficoltà lo spinsero presto a cambiare atteggiamento e a proporre allo Sforza, nel maggio 1463, di cedergli Savona in cambio di appoggio. Il 22 dicembre l’accordo, assai ampliato, veniva finalmente ratificato: S. si alleava al sovrano francese che gli concedeva in feudo Genova e Savona (Ist. fior. VII vii); inoltre il duca milanese negoziò con Luigi XI le nozze del primogenito Galeazzo Maria con Bona di Savoia, figlia del duca Ludovico e cognata del re francese. Nel prendere Genova, S. fu ben attento a presentarsi quale pacificatore delle lotte fra le fazioni.
Il 12 agosto 1464 Piccinino, che dopo la disfatta angioina in Meridione si era accordato con re Ferdinando e con S., sposava a Milano Drusiana, figlia naturale del duca di Milano. Attratto però in Napoli dalla promessa della nomina a viceré degli Abruzzi, nel luglio 1465 il condottiero venne imprigionato da Ferdinando per morire poco dopo in circostanze misteriose. La sua fine fu da tutti (e da M.: si vedano Ist. fior. VII viii) addebitata alla cinica, congiunta volontà del sovrano napoletano e di S. – che avrebbe dato il suo assenso alle nozze con la figlia al solo fine di consentire la congiura e di coprire le proprie responsabilità nella stessa – di liberarsi di un uomo ambizioso, pericolosissimo per l’equilibrio italiano.
Il duca di Milano sostenne ora Luigi XI di Francia, alle prese con la rivolta dei feudatari capeggiati da Carlo il Temerario e da Giovanni d’Angiò. Anche grazie a ciò il re uscì rafforzato dalla crisi, ma soprattutto l’intervento milanese costituì un risultato di prestigio per S., capace ormai di intervenire anche al di là dei confini della penisola. Fu l’ultimo suo grande successo. L’8 marzo 1466, dopo un nuovo attacco di idropisia, S. morì a Milano. La sua fine provocò ulteriori divisioni a Firenze dopo quelle createsi alla morte, due anni prima, di Cosimo (Ist. fior. VII x).
Le tappe salienti della biografia di S. vengono presentate, con sistematicità e sostanziale precisione di dettagli, nelle Istorie fiorentine, ove egli risulta la personalità più citata assieme a quel Filippo Maria Visconti, che con lui fu grande protagonista di una fase non breve del Quattrocento italiano. La scaltrezza, la forza d’animo, l’autocontrollo, le capacità militari dello S. vengono sistematicamente elogiate da M., al pari della sua scelta, una volta duca, di godere «con la pace» lo Stato acquistato «con la guerra» e di non promuovere più imprese se non quelle legate a necessità di difesa (Ist. fior. VII vi). La valutazione positiva di M. era del resto già evidente nel Principe che, fin dalle prime righe, presenta S. quale modello dei creatori di domini nuovi, acquisiti con armi proprie e per virtù (i 3). Tale eccellenza spinge M. a diverse notevoli citazioni, relative a vicende specifiche o dedicate a giudizi assai positivi sul complesso del suo operare. Dicendo del tipo di milizie e dei mercenari, in xii 16-21, fa cenno alla sua partecipazione iniziale alle sorti della Repubblica Ambrosiana e alla sua alleanza con i veneziani (pace di Rivoltella, 1448) per favorire il suo progetto di conquista del ducato milanese. La sua scaltrezza è collegata a quella dimostrata dal padre Muzio con la regina Giovanna (simile in Arte della guerra I 56, 58). Più avanti nel Principe (xii 30) M. elogia la capacità sua e quella di Braccio da Montone nel gestire le forze militari che consentirono loro di diventare «ne’ loro tempi» gli «arbitri d’Italia» (concetto ripetuto da Fabrizio Colonna, quale esempio negativo legato all’uso di forze mercenarie, in Arte della guerra I 101 e 175). Ancora, in Principe xiv 3, dicendo del legame tra i principi e la milizia, attribuisce il suo successo nel conseguire, da privato, il ducato milanese, al suo «essere armato», mentre i suoi figli, per fuggire i disagi delle armi, tornarono da duchi a essere privati. Nel cap. vii (§ 5) viene contrapposto a Cesare Borgia: se i successi di questi erano legati alla «fortuna» del padre pontefice, alla cui morte seguì la disgrazia, S., «per li debiti mezzi e con una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne» (§ 6). Una sola critica, per un errore di valutazione che avrebbe pesato soprattutto sui suoi successori alla guida del ducato, riguarda la scelta di ricostruire quel castello di Milano, che avrebbe fatto «più guerra» al principe regnante «che veruno altro disordine di quello stato» (xx 28). L’unica fortezza che può difendere il principe dal popolo è «il non essere odiato» (§ 29). Concetto ripreso in forma più estesa in Discorsi II xxiv.
Bibliografia: Storia di Milano, Istituto della Enciclopedia Italiana, 5° e 6° vol., Milano 1955-1956; C. Santoro, Gli Sforza, Milano 1968; R. Manselli, Il sistema degli stati italiani dal 1250 al 1454, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, 4° vol., Comuni e signorie: istituzioni, società e lotte per l’egemonia, Torino 1981, pp. 179-263; Gli Sforza a Milano e in Lombardia e i loro rapporti con gli Stati italiani ed europei (1450-1535), Atti del Convegno internazionale, Milano 18-21 maggio 1981, Milano 1982; Gli Sforza, la Chiesa lombarda, la corte di Roma. Strutture e pratiche beneficiarie nel ducato di Milano (1450-1535), a cura di G. Chittolini, Napoli 1989; A. Menniti Ippolito, Francesco I Sforza, duca di Milano, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 50° vol., Roma 1998, ad vocem.