Francesco I
Nato a Cognac nel 1494 e morto a Rambouillet nel 1547, figlio di Carlo conte d’Angoulême, ebbe, ancora bambino, in appannaggio il ducato di Valois; nel 1514 sposò Claudia, figlia del re di Francia, promessagli fin dal 1506, e il 1° gennaio 1515 successe sul trono di Francia a Luigi XII.
F. è rimasto nella storia di Francia come il sovrano emblematico del Rinascimento e delle guerre d’Italia. Secondo la leggenda, ancora viva nel Novecento, fu fatto cavaliere dal prode Bayard sul campo di battaglia di Marignano (Melegnano), battaglia che è stata una pietra miliare della storia d’oltralpe. Principe di sangue senza grandi domini, né potente né ricco, conseguì il trono grazie alla fortuna: Carlo VIII e il suo successore Luigi XII morirono senza eredi diretti. Diventato re a 21 anni, la sua gioventù fu cantata dai poeti francesi di corte, ma anche da Baldassarre Castiglione, il quale, nel Libro del cortegiano (IV 38), vide nei tre nuovi sovrani (Enrico VIII, Carlo V e Francesco I) una promessa di rigenerazione per l’intera cristianità e forse la speranza di una prossima crociata (donde anche la dedica di Castiglione a F. della prima redazione della sua opera). Quel re – racconta spesso la storiografia agiografica francese – amava le belle arti quanto la guerra, era liberale con pittori, scultori e architetti, ma era anche coraggioso nel guidare le cariche della sua cavalleria.
Inoltre, se il mito talvolta cresce grazie alle traversie del protagonista, a F. potrebbe corrispondere anche l’immagine del re sfortunato, vinto e prigioniero dopo la battaglia di Pavia, il 24 febbraio 1525, uno dei maggiori disastri della storia militare francese: «tutto è perso tranne l’onore e la vita che è salva», scrisse immediatamente dopo la battaglia alla madre Luisa di Savoia a cui aveva lasciato la reggenza. In seguito subì, a conferma della sua sfortuna, un anno di prigionia in Spagna e poco mancò che vedesse il suo regno smembrato dai nemici. Pur considerando solo la prima parte del suo regno (ossia quella contemporanea a M.), la biografia di F. costituisce una formidabile materia di narratio e una ricca fonte di exempla. Tanto più, quindi, colpisce il divario tra la fortuna storica del re francese e il posto riservatogli da M. nelle sue opere. Di quanto è stato appena ricordato, nell’opera machiavelliana rimane infatti ben poco, e non solo per oggettivi motivi cronologici (M. non è più partecipe del governo durante il regno di F. e non ha conosciuto due terzi di quel regno, tra il 1527 e il 1547). Proveremo a illustrare tale assenza tornando sui due momenti chiave della presenza di F. nella penisola italiana: la battaglia di Marignano e la situazione cagionata dalla rotta di Pavia.
Il fulmineo passaggio delle Alpi, da parte di F., nel settembre del 1515 è evocato da M. non in quanto prodezza militare di un re appena incoronato, nuovo Annibale cantato dai poeti cortigiani, bensì come un esempio di poca efficienza da parte degli Svizzeri nel ‘guardare’ i passi montani:
quando Francesco re di Francia disegnava passare in Italia per la recuperazione dello stato di Lombardia, il maggior fondamento che facevono coloro ch’erano alla sua impresa contrari era che gli Svizzeri lo terrebbono a’ passi in su’ monti. E, come per esperienza poi si vidde, quel loro fondamento restò vano: perché, lasciato quel re da parte dua o tre luoghi guardati da loro, se ne venne per un’altra via incognita; e fu prima in Italia, e loro apresso, che lo avessono presentito. Talché loro sbigottiti si ritirarono in Milano, e tutti i popoli di Lombardia si accostarono alle genti franciose, sendo mancati di quella opinione avevano che i Franciosi devessono essere ritenuti in su’ monti (Discorsi I xxiii 14-16).
Allo stesso modo si parla più volte della battaglia di Marignano nei Discorsi, ma non viene mai ripresa l’opinione di Gian Giacomo Trivulzio, ricordata tra l’altro da Francesco Guicciardini (Storia d’Italia xii 15), che l’aveva definita «battaglia non d’uomini ma di giganti». M. preferisce farne un esempio dell’importanza della fanteria sul campo di battaglia:
Videsi di poi ventiseimila Svizzeri andare a trovare sopra a Milano Francesco re di Francia, che aveva seco ventimila cavagli, quarantamila fanti, e cento carra d’artiglierie; e se non vinsono la giornata come a Novara, ei la combatterono dua giorni virtuosamente e dipoi, rotti ch’ei furono, la metà di loro si salvarono (Discorsi II xviii 28).
Il Segretario vede inoltre in questa battaglia un modello di analisi dei rapporti di forza internazionali sullo scacchiere italiano:
Dico pertanto che, sendo morto Luigi XII, e succedendo nel regno di Francia Francesco d’Angolem e desiderando restituire al regno il ducato di Milano stato pochi anni davanti occupato da’ Svizzeri mediante i conforti di Papa Iulio II, desiderava avere aiuti in Italia che gli facilitassero la impresa; ed oltre a’ Viniziani, che Luigi si aveva riguadagnati, tentava i Fiorentini e papa Leone X, parendogli la sua impresa più facile, qualunque volta si avesse riguadagnati costoro, per essere genti del re di Spagna in Lombardia, e altre forze dello imperadore in Verona (xxii 7).
Infine, nella battaglia, da lui definita «la giornata di Santa Cecilia», M. vede un caso emblematico dell’incapacità di prevedere le mosse del nemico:
Ne’ nostri tempi, nella giornata che fece in Lombardia a Santa Cecilia Francesco re di Francia, con i Svizzeri, sopravvenendo la notte, credettero, quella parte de’ Svizzeri che erano rimasti interi, avere vinto, non sappiendo di quegli che erano stati rotti e morti; il quale errore fece che loro medesimi non si salvarono, aspettando di ricombattere la mattina con tanto loro disavvantaggio; e fecero anche errare, e per tale errore presso che rovinare, lo esercito del Papa e di Ispagna, il quale in su la falsa nuova della vittoria passò il Po e, se procedeva troppo innanzi, restava prigione de’ Franciosi che erano vittoriosi (III xviii 7).
Nonostante il fiorire della pubblicistica dell’epoca a favore della Francia sulla battaglia di Marignano (cfr. Lecoq 1987 e Didier Le Fur 2004), in nessuno di questi passi essa viene raffigurata come impresa personale del re.
Anche nel carteggio fra M. e Guicciardini nel periodo che portò alla costituzione della lega di Cognac (1526-27), che entrambi vedono come l’ultima possibilità per la penisola (e per Firenze) di difendere la propria libertà, il re francese non occupa un posto di rilievo, se non quando si considera che l’interesse obiettivo di Carlo V non è di liberare rapidamente il suo illustre prigioniero. Nella lettera a Guicciardini del 3 gennaio 1526 M. dichiara: «io sono stato sempre di oppinione, che se lo imperadore disegna diventare dominus rerum, che non sia mai per lasciare il re, perché tenendolo, egli tiene infermi tutti gli avversari suoi» (Lettere, p. 415); e poi, nella lunga e cruciale lettera del 15 marzo 1526: «Se voi mi domandasse di quelle tre cose quella che io credo, io non mi posso spiccare da quella mia fissa oppinione che io ho sempre avuta, che il re non abbia a essere libero» (p. 419). Il Segretario fiorentino, secondo un ragionamento articolato, ritiene infatti che F. non dovrebbe rispettare i patti una volta liberato, non per mancanza etica, ma molto semplicemente perché tale rispetto sarebbe contrario a ogni suo interesse:
Sarà [...] cattivo partito quello dello imperadore lasciare il re, sarà buono quel del re a promettere ogni cosa per essere libero; nondimeno, perché il re l’osserverà, il partito del re diventerà cattivo e quello dello imperadore buono (p. 419).
M. è convinto che F. rispetterà i patti («io mi accosto a questa oppinione, o che il re non sia libero, o che, se sarà libero, egli osserverà»: p. 420). Le motivazioni del ragionamento si possono ridurre a due: il re francese non è «savio», e il suo «sdegno» nei confronti degli italiani non è minore di quello nei confronti di Carlo. La conclusione ovvia è che gli italiani hanno interesse ad attirare F. nella lega anti-imperiale, ma non possono aspettare l’intervento francese e devono contare sulle proprie forze, ossia su «armi proprie» (e non solo sul denaro, ripete esplicitamente M. nella stessa lettera: p. 420).
A liberazione del re avvenuta, M. scrive un epigramma scherzoso dove si ride del «matto Carlo re de’ Romani» («sciocco» lo diceva anche nella lettera del 15 marzo) e del «Viceré», Charles de Lannoy, i quali «per non vedere hanno lasciato il Re» (N. Machiavelli, Opere, a cura di C. Vivanti, 3° vol., p. 19). In questa congiuntura, così come era stato per i suoi primi fatti d’arme, F. non è considerato né come esempio emblematico (alla Cesare Borgia), né come attore unico della storia dotato di una propria specifica identità (come Ferdinando d’Aragona). Insomma F., nei testi di M., è un re di Francia tra gli altri: forse anche perché la sua storia sembra sfuggire all’analisi, come un caso difficile da far rientrare in un discorso razionale, se è vero che, come M. scrive a Guicciardini (sempre nella lettera del 15 marzo 1526, p. 419), «tutti i buoni [partiti] che ha preso il re non gli giovano».
Bibliografia: R. Doucet, Étude sur le gouvernement de François Ier dans ses rapports avec le parlement de Paris, Paris 1921-1926; A.-M. Lecoq, François Ier imaginaire: symbolique et politique à l’aube de la Renaissance française, Paris 1987; R.-J. Knecht, Un Prince de la Renaissance: François Ier et son royaume, Paris 1998; D. Le Fur, Marignan 13-14 septembre 1515, Paris 2004; Les Conseillers de François Ier, dirigé par C. Michon, Rennes 2011.