FRANCESCO II Sforza, duca di Milano
Secondogenito di Ludovico Maria Sforza detto il Moro e di Beatrice d'Este nasce a Milano il 4 febbr. 1495. Orfano ben presto della madre, che muore il 2 genn. 1497, il 27 aprile F. ha in dono dal padre il ducato di Bari, il principato di Rossano, il contado di Burrello, confermatigli poc'anzi, il 6 dic. 1496, da Federico d'Aragona. Sicché, a partire da questa data, a F. compete il titolo di duca di Bari sinché, il 27 luglio 1525, non cederà le ragioni da lui vantate e a lui riconosciute - per altro non senza opposizione di Bona Sforza - sui feudi napoletani. Nel contempo il padre si preoccupa d'ufficializzare che egli è terzo nella gerarchia sforzesca. Ma poi la situazione s'aggrava a tal punto che, il 2 sett. 1499, F. e il fratello maggiore Massimiliano sono fatti allontanare in tutta fretta da Milano. E, dapprima, è con loro il padre, in un itinerario che da Como li vede nell'ottobre a Trento, quindi, nel novembre a Bressanone, donde poi il Moro "va a Viena", sperando in un aiuto imperiale. Ma, ormai, la sua sorte è segnata. Che almeno con lui non siano travolti i figli. Affidati allo zio card. Ascanio Sforza e a Camilla Sforza, scortati da pochi gentiluomini, avendo per precettore G. Colla, i due scampano alla catastrofe paterna. Sicché, mentre fallisce l'ultimo tentativo di rimonta del Moro, il 15 apr. 1500 s'annota, nel Diario ferrarese, che i suoi due figli "rimasero vivi in Alemannia, ove li havea lassati il padre".
Esuli sotto protezione asburgica, dunque, i due infanti. Né trattasi d'esilio dorato ché la somma che li accompagna è tutt'altro che enorme come dapprima s'è favoleggiato. Stando ad attendibili informazioni giunte a Venezia, essi, il 25 aprile, lasciano Bressanone per Innsbruck, "con carete 12" di bagaglio e 60.000 ducati. Una volta nella capitale tirolese, l'imperatore Massimiliano incamera la somma e le gioie, peraltro assicurando il loro decoroso mantenimento. Li attende una vita modesta, all'insegna del risparmio: in luglio essi e il loro ridottissimo seguito non dispongono che di 1.000 ducati. E, nel febbraio del 1501, quando partono per Linz, il viaggio si svolge "per acqua", essendosi venduti "i loro cavalli". Per fortuna la moglie dell'imperatore, Bianca Maria Sforza, si preoccupa di loro. Sicché crescono a corte essendo in questa educati. E, a detta del cortigiano gonzaghesco M. Sacchetti, nel 1505 entrambi manifestano un certo qual "inzegno" e sembrano padroneggiare la "loquela tedesca". Nel frattempo Luigi XII, il re di Francia, "li vuol in le man", mentre Massimiliano "non ge li vuol dar". Così, almeno, sinché fermo nel proposito di "remetter li fiolli" del Moro nel "dominio di Milano"; ma nel 1508-1509 l'imperatore su questo pare disposto a transigere per quel tanto che Luigi XII promette di "dar stato in Franza" ai due ormai cresciuti, ormai "zentil puti", promettendo altresì benefici ecclesiastici e una cospicua entrata annua. Accomunati dalla sventura paterna e dalla mancanza della madre (cui sopperisce con sollecitudine l'imperatrice Bianca Maria; e, morta questa (31 dic. 1510), subentra come tutrice, però non altrettanto sollecita, la reggente dei Paesi Bassi Margherita d'Austria) i due fanciulli, anche se differenziati dalla primogenitura di Massimiliano. A quest'ultimo spetta il titolo di duca di Milano, mentre F. è semplicemente "Barrii dux". Per cui, se entrambi partecipano, nell'estate del 1507, al "conventus" di Costanza, è già allora chiaro che la sistemazione effettiva di F. dipende dal reinsediamento di Massimiliano. Ed è tal fine che - come scrive G. Morone il 12 ag. 1507 - da Costanza i due partono alla volta di Trento, "ut facilius in Italia moliantur".
Restaurato nel giugno del 1512 il dominio sforzesco, entrato il 29 dicembre a Milano Massimiliano, battuti il 6 giugno 1513 i Francesi presso Novara, il 27 luglio F. è alla sinistra del fratello quando questi rientra nella capitale lombarda. Somigliante al "padre", anche se di lui meno "signorile", piccolo di statura e, in compenso, "più grosso" dell'esile Massimiliano, giusta la descrizione dell'inviato gonzaghesco B. Capilupi, fa il suo ingresso nerovestito, "da prete alla todescha". Per lui è previsto il cardinalato, per ottenere il quale, in un'instructio dell'agosto, si raccomanda a Morone di fare "ogni opera possibile". Il 20 novembre F. giunge così a Roma, ma il suo soggiorno si rivela infruttuoso, pur consentendogli di mettersi un minimo in luce nel sostenere non senza animosità negli ambienti da lui frequentati che Parma e Piacenza, di cui Leone X pretende la restituzione, sono "terre" da secoli dello "stato di Milano". Di per sé spetta a Morone sostenere le ragioni ducali. Ma F. lo tallona e quasi si sovrappone. Di nuovo a Milano, F. non ritorna nell'ombra: stando a quanto riferisce a Venezia un mercante veneto a fine marzo del 1515, egli va addirittura annoverato - col fratello, col vescovo di Lodi Ottaviano Maria Sforza, col commissario imperiale Giovanni Gonzaga - tra i "4 che governano Milan". E, allorché, sconfitto, il 13-14 settembre a Melegnano, Massimiliano s'arrende nella rinuncia ad ogni successiva rivalsa - cede, infatti, le "ragione sue" sul Milanese, e s'accontenta di vivere in Francia con una "pensione" annua di 36.000 scudi -, F. rifiuta le proposte francesi d'un cappello cardinalizio accompagnato da una pensione di 10.000 scudi. E, così, per gli avversari dell'egemonia francese, sancita dall'ingresso di Francesco I re di Francia a Milano (11 ottobre), è F., non più Massimiliano, il legittimo duca da reinsediare. Sballottato da eventi più grandi di lui F., epperò oggettivamente importante pedina nella politica imperiale, dall'aprile del 1516 fissa la sua dimora a Trento, sottoscrivendo le lettere come "dux Mediolani et Barii". Qui, compatibilmente cogli scarsi mezzi di cui dispone, cerca d'ammassare truppe, di raccogliere i fuorusciti milanesi, in attesa del momento propizio. E ad evitare avventatezze da parte sua basta il controllo del card. M. Schiner. D'altronde non gode d'autonomia finanziaria che gli permetta una qualche iniziativa personale. Fermo, comunque, nel giovane, il proposito di diventare "duca". E indice d'un certo acume valutativo il suo rimaner "mal contento" per l'"electione" a imperatore di Carlo V (28 giugno 1519). Fosse stato "electo" Francesco I, di certo - ad evitarne l'eccesso di potenza - i "principi cristiani" avrebbero "posto in stato" lui. Fino a che punto, invece, potrà confidare in Carlo V? C'è da sospettare voglia favorire il fratello Ferdinando. Per fortuna di F., Mercurino Arborio di Gattinara sconsiglia una Lombardia direttamente asburgica. Venezia pare decisa a tutto pur d'evitare di confinare a ovest coll'Impero. E l'alleanza antifrancese tra imperatore e papa contempla, appunto, l'impegno del suo insediamento. Incoraggiante, altresì, per F. la "buona ciera" colla quale viene accolto, nell'ottobre del 1520, ad Aquisgrana dove si reca da Trento per presenziare all'incoronazione di Carlo V.
Occupata, il 20 nov. 1521, Milano dalle forze alleate, F. - mossosi da Trento all'inizio di marzo con poche truppe scelte - il 4 apr. 1522 finalmente fa il suo ingresso in veste di duca nella città festante, per poi incitare, il 22, le truppe a respingere l'estremo tentativo d'Odet de Foix, signore di Lautrec, sconfitto, il 27, alla Bicocca. Gli eserciti vittoriosi ne approfittano per spingersi sino a Genova occupandola a fine maggio e sottoponendola a saccheggio. Con loro c'è anche F., il quale per un po' si ferma - e ci tornerà il 19 agosto con Prospero Colonna ad omaggiare il papa - a Genova, quivi disponendo, il 14 giugno, che i "botini" del "sacho", anziché essere trasportati a Milano, possano essere riscattati in loco dai proprietari legittimi. Tra le prime mosse di governo di F. - alla cui "ducea" Ferdinando continua ad aspirare, senza, però, che il fratello imperatore gli presti ascolto; e il fatto si pensi anche a lui (come informa, il 18 novembre, l'ambasciatore veneto in Spagna G. Contarini) quale marito per la vedova regina di Portogallo Eleonora d'Asburgo è, quanto meno, un sintomo rassicurante - l'elevazione, ancora del 18 maggio, a 27 del numero dei componenti del Senato (5 prelati, 9 cavalieri, 13 giusperiti), che, peraltro, Carlo V ridurrà a 17 (5 militi e 12 giusperiti) nel 1527. Segue, il 27 marzo 1523, la severa e convinta proibizione degli scritti di Lutero. Intenzionato a ben governare e a brillare come buon principe, l'avvantaggia il favore dei sudditi; e lo stesso attentato, fallito, alla sua persona, del 21 agosto, da parte di Bonifacio Visconti, finisce col rafforzarne agli occhi della popolazione l'immagine, a far crescere, se non altro per timore del riapparire della Francia, l'affezione pel dominio sforzesco. Solo che ben poco può fare "propter summam aeris penuriam qua… opprimitur" - così in una lettera, del 9 dic. 1522, d'Alciato - e per la necessità di fronteggiare la minaccia francese rappresentata dall'offensiva sferrata da G. Gouffier signore di Bonnivet, che varca il Ticino il 14 sett. 1523, e che giunge ad assediare Milano. Per il momento i Francesi sono ricacciati, ma si ripresentano presto minacciosi. La guerra svantaggia F., ché da un lato deve esigere pesanti contributi, dall'altro s'appalesa la sua inettitudine di uomo d'arme: d'altronde non ha denaro per pagare i "fanti". Donde il ritiro a Pizzighettone. E, dopo vari tentativi, nell'aprile del 1524 conquista Abbiategrasso guidando - stando a un avviso del 26 aprile giunto a Venezia - personalmente "una honorevole factione". Incoraggiato dal piccolo successo, F. vuole strafare. Pretende - informa il 4 maggio il provveditore generale veneto Pietro Pesaro - esser "lui a mandar tuor Lodi". Donde la "collera" di Francesco Maria Della Rovere, capitano generale dell'esercito della Serenissima: "el duca - esclama - faria meglio lassar quella impresa a chi la" sappia "far". Velleitario l'agitarsi di F., di fatto passivo spettatore nello spasmodico braccio di ferro tra Francesco I, deciso a "guadagnar Milano", e l'inflessibile intransigenza di Carlo V. E "povera e disgratiata" Milano, dove nell'agosto la peste fa gran "progresso", mentre F., impotente, ora è a Pizzighettone, ora a Cremona, ora a Pavia. Fatto sta che - come riconosce il 7 dicembre la comunità milanese residente a Venezia - "al presente" è il re di Francia ad avere "il dominio di Milan, ancor che" F. "tengi il castello".
Per fortuna di F. le truppe cesaree, guidate dal marchese di Pescara Ferdinando d'Avalos, il 24 febbr. 1525, stravincono sui Francesi a Pavia. F. può così abbandonare la rocca di Soncino, suo ultimo rifugio, e rientrare, applaudito dal giubilo popolare, nella capitale. Riportato a galla dalla vittoria del marchese di Pescara - che lo definisce "cobarde", codardo, in una lettera in cifra del 30 luglio - non è detto debba rimanerci a lungo. Ufficialmente avvinti da reciproche assicurazioni d'alleanza perpetua Carlo V e Clemente VII e entrambi ufficialmente impegnati alla conservazione di F. nel Ducato, non senza che il pontefice pensi d'accasarlo con "una so sobryna", come s'affrettano a riportare in settembre degli "avisos" destinati a Carlo V. E accennante a governare F., laddove, deplorando le guerre passate che hanno sospinto all'emigrazione la manodopera specializzata, cerca di richiamarla, avendo in mente soprattutto la riattivazione della lavorazione della seta. Sin patetico quest'appello di F. al rientro dei setaioli, quando "il modo di procieder dei cesarei" rimasti a spadroneggiare dopo la vittoria di Pavia impedisce di fatto la ripresa. E pesantissimo pedaggio, pel rinnovo dell'investitura imperiale, l'indennità di 600.000 ducati, nonché la cessione dei diritti sul ducato di Bari (e delle terre di Palo e Modugno) pretese da Carlo V a titolo di risarcimento delle spese sostenute "in ricuperando" e "conservando" il "ducatum Mediolani" per Francesco II. Comprensibile che F. sentendosi soffocare vagheggi una "qualche bona intelligentia" che allenti la morsa asburgica, essendo perciò disponibile ad una "liga" che gli riconosca "il stado". A tal fine, ipotizza un matrimonio o con Renata, la cognata di Francesco I, o con la sorella stessa di questo, Margherita d'Angoulême duchessa d'Alençon. Solo che non può muoversi liberamente. Come scrive, il 23 luglio, l'inviato veneto a Milano, per le sue nozze necessita il "consenso" di Carlo V, "pena la privatione di feudo". Comunque, addirittura esplicito G. Morone, suo segretario, nel puntare su di una lega antimperiale. Ma troppo imprudente lo stesso nel far conto sulle ambizioni e gli appetiti del capitano generale imperiale in Italia e governatore dello Stato di Milano marchese di Pescara, che, invece, così mettendosi in luce favorevole agli occhi dell'imperatore, lo fa arrestare il 15 ottobre inducendolo, colla tortura, a confessare la trama anticesarea nella quale F. - a dir di Morone, un dire pilotato dal marchese di Pescara - figura come consapevole protagonista. L'ammissione della congiura da parte di Morone, il coinvolgimento, allo stesso estorto, di F. autorizzano le truppe cesaree all'occupazione di Milano, mentre F. è investito delle peggiori accuse. L'ipotesi della sua deposizione non spiace allo stesso Clemente VII, laddove il Ducato sia trasferibile al cugino di F., Federico Gonzaga.
Comunque, in prima battuta, da un lato il marchese di Pescara enfatizza la macchinazione di Morone avendo l'avvertenza di lasciarne fuori F. e anche di configurarla come trama a suo danno (si sarebbe allora mirato a sostituire F. col fratello Massimiliano, così attribuendo il Ducato alla Francia sottraendolo alla "maestà cesarea"), dall'altro F. si proclama ignaro della congiura. Ma la questione non si chiude col riconoscimento da parte del marchese di Pescara dell'estraneità di F. e col ribadimento, da parte di questo, del suo adamantino lealismo imperiale. Il marchese chiede, in pratica, che F. si faccia da parte, sì da assumere il controllo di tutto lo Stato. Ciò per ragioni di sicurezza, nell'interesse dello stesso Francesco II. Al che questi non si presta. Così, il 2 novembre, "spagnoli et lanzichenecchi" entrano senza incontrare resistenza - F., ad evitare il sacco, non la mobilita - in una Milano passivamente attonita. "Il marchese di Pescara vol dominar quel stado", aveva fatto presente al papa F. da tempo. E, una volta occupata Milano, non ha più bisogno di proseguire colla finzione di un F. estraneo al tramare di Morone. Il marchese minaccia d'assediare il castello, dove è rimasto Francesco II. Immediata la "controresposta" di questo: inaccettabile la posizione del marchese; impensabili le ammissioni di Morone "a carico nostro", perché "contra il vero". Della congiura "siamo innocenti, inscii et inconsentienti", ribadisce F., pronto a "chiarire et iustificare tutto" di fronte all'imperatore e, nel contempo, convinto che il marchese agisca di testa sua e non per "commissione" di Carlo V. Teatralmente, il 7 novembre fa "drizzare" su di un torrione del castello di porta Giovia l'impresa imperiale e su di un altro quella sforzesca; si porta "in la piaza dentro il castello" gremita dei suoi e, tra spari e "sonar de trombe", s'eleva il grido "duca, duca, imperio, imperio" a dimostrazione palese della sua lealtà imperiale. Certo che, "se lo voleno serare in castello, sarà sforzato defendersi". Con lui una nutrita "lista" di "nobili", servitù, "fanti 800", per un totale di "boche 1100"; e la scorta di viveri "per un anno". Nel frattempo gli "spagnoli" s'acquartierano "a la porta Verzelina". E, stando ad un'informazione trasmessa a Venezia, il 19, dal rettore di Crema, dal castello "tiravano… a li alozamenti de spagnoli et ogni zorno ne amazavano qualche uno". Né la morte, all'inizio di dicembre, del marchese di Pescara allenta la tensione, ché F., il 2 genn. 1526, rifiuta di "far tregua se prima non se leva tutto lo exercito" cesareo "dil suo paese".
L'ostinata recita di F. della parte del "bonissimo imperiale" è, peraltro, contraddetta, il 22 maggio, dai "capitula foederis" di Cognac stretti, appunto, tra il papa, il re di Francia, la Serenissima, Firenze e lo stesso F. "adversus Carolum" V. In virtù della lega Francesco I s'impegna a riconoscere - anche se poi continua a chiamarlo "duca di Bari" -legittimo duca di Milano F., il quale, sempre "chiuso" in castello, quando, nel giugno, il "protonotario" Marino Ascanio Caracciolo gli vuol "donar… una posta di vitelli et capreti", rifiuta il dono, così evidenziando "che non havea bisogno di cosa alcuna", che la "forteza" non ha penuria di viveri. Compito, comunque, del Caracciolo attestare a F. che l'"animo" di Carlo V nei suoi confronti non è bellicoso. Intende, infatti, "proceder" solo "iuridicamente". Se la sua innocenza sarà appurata, lo riterrà "bono amico et parente" ristorandolo "de ogni incomodo et patito danno"; risultando, invece, che egli ha mancato, comunque si dimostrerà con lui clemente e benigno. Insostenibile, nel frattempo, da parte di F. la permanenza "in castello et roca de Milan": le scorte alimentari sono ormai all'esaurimento e i "fanti" danno segno di "mutinarsi", mentre manca, da parte di Francesco Maria Della Rovere, un tempestivo soccorso. Di qui, il 24 luglio, la "convention" tra lui e Carlo di Borbone, luogotenente e capitano generale di Carlo V, nella quale si contempla, da parte sua, che "relassi" il "castello" e, da parte del Borbone, l'autorizzazione a trasferirsi a Como "col suo governo", ad attendervi che sia "declarato" il suo "caso" di fronte alla "maestà" cesarea. Ma F. preferisce riparare, il 3 agosto, a Crema sotto l'ala protettrice della Serenissima, di cui vuol essere "obsequentissimo fiol" mai contraddicente "a nissun voler suo".
Laddove, in sostanza, di Carlo V non si fida, F. così mostra di confidare nella Repubblica. Criterio direttivo, in effetti, della politica di questa l'andare "ad ogni rottura" - come dirà in novembre il doge Andrea Gritti -, piuttosto "che permettere che" F. "non stia in stato". Certo che il Borbone, dopo il ritiro di F. a Crema, "terre de Venetiens", ha buon gioco, nello scrivere, il 27 agosto a Carlo V, per sottolineare che così F. s'è palesemente collocato tra "les ennemys de Votre Magesté" entrando "manifestement en leur ligue".
In effetti è perché sostenuto da questa che F. può proclamarsi duca di Milano e di Bari, principe di Pavia, conte d'Angera, signore di Genova e Cremona, nella quale ultima, che s'è arresa, il 28 settembre, agli alleati, fissa la sua dimora. Il fisico non l'assiste però in tante traversie: ha difficoltà di deambulazione e nell'uso delle mani, inceppamento di parola, frequenti "parasismi" e coliche; febbricitante, è sempre più costretto a letto che "fuor" di questo. Ogni tanto è "in pericolo di morte" non senza che lo si dia talvolta per "morto", salvo poi appurare che è ancora in vita. Certo che non sta mai bene, che le sue protratte convalescenze esitano sovente in ricadute ingravescenti. Sicché, a lui si guarda con occhio clinico, quasi a valutare, di volta in volta, le possibilità di sopravvivenza di un uomo "mai mondo da febre", che non si regge in piedi, che è sovente trasportato "in cariega", che non concede udienze perché "sta malissimo". E, di fatto, in F. alla prostrazione fisica si somma - specie dopo il sacco di Roma e la ripresa imperiale nella penisola - la depressione psichica.
Donde, il 28 nov. 1528, il ritratto impietoso della relazione del provveditore generale veneziano Marco Foscari. F. è di "complexione malanconica", è "infirmo del corpo", incapace di "aiutarse delli piedi", dal "mal color nel volto". È, altresì, "molto timido et suspettoso", colla "mente presaga di male, di sorte che sempre el pronostica male". Con Venezia, precisa Foscari, "monstra haver obligatione", asserendo di porre in lei ogni sua speranza. Ma di fatto "spesse fiate se lamenta che non si pagano le gente né si fanno provisione". E, poiché è senza denaro e poiché si sente sempre in pericolo, di fatto "l'orator" suo a Venezia continua a far presente che il "suo duca… si vede disperato".
Indebolite le forze anticesaree dal forzato ritiro, dopo il sacco di Roma, di Clemente VII dalla lega, direttamente colpito F. dalla defezione di Gian Giacomo Medici, F. da un lato vorrebbe energia aggressiva sì da "tuor", senza "aspetar", l'"impresa" del recupero di Milano, dall'altro rilutta al concedere "alozamento" a Lodi e nel Cremonese alle truppe venete; e la sua "miseria" è tale che - "per haver qualche danaro" - rilascia "salvicundotti a robe de inimici". Sicché, mentre egli si lamenta dei "danni" arrecati dai "soldati" nel suo territorio, Venezia ha buon gioco nel rimproverargli i "salvicondutti" rilasciati a "vituarie" destinate a Milano. Portato - come scrive Machiavelli - "da questa sua fortuna a balzelloni", F. si dibatte nell'impotenza. Col che concorre a rendere più difficile proprio quell'"impresa di Milan" per la qual continua ad insistere con petulanza, sempre più "disperato", nel constatare che i "francesi non vol far nulla". Però è ben in sua presenza, a Lodi, che, il 16 giugno 1529, nella consulta cui partecipano i vertici militari delle operazioni - ossia Francesco Maria Della Rovere per Venezia e "monsignor san Polo", vale a dire Francesco Bourbon Vendôme, signore di Saint-Pol, per la Francia - che si stabilisce, senza che F. s'opponga, "che per hora non se havesse a far l'impresa de Milano per non vi esser gente a sufficienza per exequirla". Di fatto ai Francesi interessa di più l'"impresa di Zenoa". Solo che, nell'"andar" a questa, subiscono, il 22, una "rota" a Landriano nella quale cade in mano del nemico lo stesso "monsignor di san Polo". Sicché, "per più securtà", F. ripara nella veneziana Crema, al solito invocando "danari per pagar le zente sue". Ma, forte della sconfitta inflitta ai Francesi, è l'esercito cesareo che sta assumendo l'iniziativa portandosi, il 10 luglio, a Cassano e deciso, varcando l'Adda, ad attaccare quello della Serenissima.
Ma ormai militarmente la situazione si sta allentando. Il 15 agosto giungono a Venezia le lettere del 31 luglio e del 1° agosto di Sebastiano Giustinian, "orator" veneto a Cambrai, dalle quali s'evince - così nel riassunto di Sanuto - la pace conclusa tra Carlo V e Francesco I con "intervento del papa". Si tratta, per la Serenissima, di "cative lettere", ché le vien meno la prospettiva di continuare la guerra colla Francia al proprio fianco. Quanto a F., che si sente "abbandonato", proclama, di voler "viver et morir" col suo "stado", senza da questo "partirse". Il 22, il suo "orator" a Venezia da un lato manifesta la sua disponibilità alla "reverentia" coll'imperatore ormai sbarcato a Genova, dall'altro assicura che egli "non vol far alcun acordo senza voler" della Serenissima. Quel che è certo è il terrore di Francesco II. Vanamente Francesco Maria Della Rovere si porta, il 28, a Lodi per tranquillizzarlo. Scrive Scotto in una lettera del 29 che c'è da temere che "non solum lui ruinaria" se stesso, "ma ancora faria ruinare altri".
Giunge, intanto il 6 settembre a Piacenza con seguito imponente Carlo V, cui però F. rilutta a cedere in "cauzion" Pavia ed Alessandria, continuando così ad aggrapparsi a Venezia. C'è un convergere d'interessi tra F. e la Serenissima: quello del consolidamento, nella figura di F., dell'autonomia del Ducato sforzesco con riconoscimento da parte d'un Carlo V riappacificato con entrambi coll'avallo benedicente del pontefice. Quel che a F. preme è l'essere rimesso in sella da un imperatore non ostile. Quel che alla Repubblica preme è confinare con F., non con l'impero. Rasserenante, a tal fine, il concorde appuntamento bolognese del papa e dell'imperatore. Entrato a Bologna il 3 novembre, quest'ultimo - a tutta prima tutt'altro che ben disposto verso F. - gli fa pervenire il salvacondotto perché si porti al suo cospetto. F. entra in Bologna "privatamente" il 22 novembre in lettiga, non potendo "cavalcar". All'indomani, nel pomeriggio, come s'affrettano ad informare i veneti Gasparo Contarini e Gabriele Venier, si reca "a far reverentia" a Carlo V; e gioca a suo favore l'insistita restituzione del "salvacondoto", alla fine accettata dall'imperatore. Col che F. si mette nelle sue mani e, nel contempo, non volendo "altra fede che la misericordia" cesarea, fa appello a questa, ma anche si presenta come innocente ché, di per sé, non ha nulla da temere. Autoscagionandosi da ogni connivenza con Morone, restringe la possibilità d'aver "falito contra sua cesarea maestà" alla fase della chiusura nel "castelo" e a quella successiva. E solo di queste chiede "venia". Confortato dalla "grata ciera" fattagli da Carlo V, il 24 si reca dal pontefice. S'accosta barcollando, poggiando sul "suo bastoneto". Ma impossibilitato a "piegar… gambe e… piedi", non gli riesce di baciare i "santissimi piedi" di Clemente VII. Il papa gli impartisce ugualmente "la sua sancta benedictione". Coll'anima sempre più sollevata F., "pian piano" e sempre "appoggiato al suo bastone", passa alle contigue stanze imperiali. Qui, non appena lo scorge tra la "turba" degli omaggianti, Carlo V addirittura gli va incontro, l'abbraccia, e lui non si trattiene da un liberante pianto di gioia. Finalmente si sente "assà contento".
Benevolo Carlo V con F., ma sino a un certo punto, ché, nella pace di Bologna del 23 dicembre, la reinvestitura nel Ducato è condizionata dal pagamento, da parte di F., di 400.000 ducati nel giro di un anno nonché di 50.000 ducati all'anno nei dieci successivi. A Bologna - ove, il 3 genn. 1530, si svolge la cerimonia dell'investitura - sino al 19 marzo, F. il 26 è a Cremona, mentre a Milano, sin da gennaio, una ristretta e qualificata cerchia di alti funzionari (il capitano di giustizia G.B. Speziano; i segretari B. Bolzoni, G.A. Rizzo, D. Sauli, G. Marinoni, Giovan Paolo Sforza; il gran cancelliere F. Taverna) provvede alla scrupolosa esecuzione delle direttive di Francesco II. Questi, per quanto malato, è ben deciso a governare in prima persona. E non privo d'un certo qual piglio decisionale l'avvio del suo governo. Purtroppo, dopo tante guerre devastanti, i centri urbani sono smorti, le campagne squallide e incolte. Pauroso il calo delle entrate statali. E, purtuttavia, F. deve spremere da un'economia impoverita di che pagare Carlo V. Esile risparmio, colla morte del fratello Massimiliano del 4 giugno 1530, quello della pensione a lui destinata. Ma quel che non vien meno è l'obbligo, contratto a Bologna, colla Tesoreria imperiale. Donde la trista necessità d'incrudelire sul paese stremato con una tassa sul macinato promulgata sin dal 22 gennaio e peraltro dimidiata a fine anno ché troppo esosa e sin controproducente. F. capisce che occorre un minimo di ripresa all'economia, che il puntuale rispetto delle scadenze vessatorie impostegli a Bologna rischia di risultare micidiale. E facendo presente "la ruina delli sudditi" riesce, trattando non senza dignità, ad ottenere, di fatto, un differimento dei versamenti e anche una loro diluizione in una protratta rateizzazione.
Figura già scialba, già godente di scarso credito e sin ridicola laddove pretende dagli altri iniziative militari, questo suo farsi carico delle sofferenze dei sudditi - tra cui comincia a serpeggiare una forte inquietudine - di fronte ad un imperatore che duramente esige il rispetto del pattuito a Bologna, già lo risemantizza. E accentuatamente interventista - nella volontà di rianimare la produzione locale - il suo atteggiamento attestato, soprattutto, dal decreto del 31 luglio 1535 ove si stabiliscono il prezzo dei drappi serici, il colore delle cimosse, ché ritiene propria competenza il tener alta la qualità delle manifatture ambrosiane. Obbligatorio un duplice marchio, uno di fabbrica, l'altro di qualità pei panni di lana. E F. vuol pure ingerirsi in fatto di prezzi e di guadagni. Di qui la fissazione del massimo esigibile nei prezzi di calze e calzoni. Di qui la pretesa che il guadagno dei minutanti non oltrepassi il 10% del valore dei drappi venduti. Certo che il privilegiare la produzione indigena rischia di compromettere il profilo commerciale di Milano e il suo ruolo di transito nel commercio internazionale. Quanto agli ebrei, nel 1533 F. accorda loro d'abitare liberamente nel Ducato senz'obbligo di segni distintivi, fatto salvo, però, il divieto di circolazione per tutta la settimana santa.
A capo d'uno Stato il cui quadro amministrativo è già offerto dal Mandatum del 22 dic. 1528, dello stesso F., "pro solutione pensionum ac stipendiorum" - e ne risulta il nucleo essenziale dell'apparato del Ducato: Cancelleria segreta, Senato, i podestà di Milano, Pavia, Cremona, Alessandria, Como, Lodi, Novara (s'aggiunge nel 1530 Vigevano elevata al rango di città), i diplomatici, il magistrato ordinario e straordinario, la Tesoreria generale, gli avvocati, i sindaci fiscali, i medici ducali e personaggi quali G.P. Sforza - F. si rende conto che occorre procedere al riordino nella caotica congerie di quasi due secoli di decretazione viscontea e sforzesca. C'è da sfrondare, da semplificare. E F. affida il compito al presidente del Senato Giacomo Filippo Sacchi affiancato dai giuristi Francesco Lampugnani ed Egidio Bossi. Ma il lavoro vero e proprio se lo sobbarca Francesco Grassi, il curatore della futura edizione, nel 1544, delle Constitutiones dominii Mediolanensis.
Per lo meno s'avverte in F. una certa sollecitudine per la cosa pubblica, una visione dello Stato come meccanismo che il principe dovrebbe far funzionare, preoccupandosi di tutto: dalla produzione agricola al decoro cittadino, dalle arti alla situazione igienico-sanitaria, a controllare la quale F. istituisce, l'11 apr. 1534, il magistrato della Sanità. E nel partecipe appoggio fornito a Girolamo Miani per la fondazione dell'ospedale degli orfani e della casa delle convertite è percepibile la spinta motivante d'una religiosità non circoscrivibile ad un'ostentata devozione (quella per cui, nell'ottobre del 1530, ospite della Serenissima F. ogni giorno assiste alla messa in una chiesa diversa), ma anche, un minimo, sostanziata di spirito caritatevole. Totalmente subalterno a Carlo V in fatto di politica estera (e, allora, l'imperatore, assicura Caracciolo, "può disponere di questo stato come di Napoli et Valedolit") F. si rifà - per quel che può: l'occupazione di Chiavenna ad opera di Gian Giacomo de' Medici in fin dei conti lo vede imbarazzato a una soluzione militare; la soluzione è, piuttosto, politica ché F. concede, nel febbraio del 1532, al "Medeghino" il marchesato di Marignano e un indennizzo, ricevendo in cambio i territori di Lecco, Musso e di tutta l'area lacustre - sul piano interno, per lo meno in linea di principio. "Sanctum et pernecessarium", per lui, il decretum de maiori magistratu emanato, nel 1441, da Filippo Maria Visconti, va ripristinato "ad unguem" in tutta la sua imperiosa portata di contro a persistenti borie feudali.
Non riuscito, invece, lo sforzo di F. d'ottenere dalla S. Sede la designazione dei nuovi titolari dei benefici vacanti. Ciò a evitare che, cadendo "in mano de' forestieri", ne segua l'esportazione di "tutti li frutti". Un vantaggio finanziario e, pure, d'immagine: il controllo degli affari ecclesiastici, se ottenuto, sarebbe stato un segno forte dello Stato, recuperante, per tal verso, l'energia politica caratterizzante, anche in quest'ambito, la tradizione viscontea e sforzesca. E, invece, nella sordità di Clemente VII al reiterato insistere di F., s'appalesa la debolezza di questo. Principe condizionato e ricattabile deve subire i nominativi imposti da Roma e sottostare agli appetiti curiali. Donde una sensazione di sovranità dimidiata: è avvilente per F. constatare quanto "tutti" abbiano facoltà di "numinatione" salvo lui. Non gli resta che sentirsi "inferiore" a tutti i suoi "vicini". E ciò soprattutto quando Clemente VII, dopo la svolta a favore della Francia, non pago d'appoggiare le rivendicazioni economiche dell'evaso Pallavicino Visconti, approfitta della rinuncia di questi al vescovato d'Alessandria per preporvi il cubicularius Ottaviano Guasco, già militare al soldo di Francesco I. Un'offesa, di per sé, intollerabile per la dignità di Francesco II. L'unica reazione adeguata sarebbe la rottura delle relazioni, il richiamo del rappresentante Giorgio Andreasi. Ma è ben costui a suggerire la pazienza, a far rientrare il proposito d'energica reazione, a consigliare a F. di inghiottire l'amaro boccone della permuta. Magra consolazione il proclamare, il 26 giugno 1534, che "mai permettemo che esso Guasco, vivendo noi duca de Milano, possa ottenere il possesso del vescovato de Alexandria". Meno frustrate le esigenze di F., in fatto di vacanze beneficiarie, con Paolo III; questi non è filofrancese come l'ultimo Clemente VII ed ha per segretario personale Ambrogio Recalcati, il quale, proprio perché favorito da F., ricambia adoperando la propria influenza sul pontefice a favore del duca sforzesco.
Sottomesso all'imperatore, senza forza contrattuale con Roma, F. in compenso è sin provocatorio con Francesco I quando, il 7 luglio 1533, fa decapitare Giovanni Alberto Maraviglia per aver, tramite un proprio servitore, assassinato il nobile milanese Giovanni Battista Castiglioni, suo rivale nelle disputate grazie d'Ippolita de' Corsico, "nobilis sed parum pudica". Ma il giustiziato crea, colla sua esecuzione, un casus belli nella misura in cui Francesco I, nella veemente protesta a F. del 6 agosto, lo definisce "mio ambasciatore residente presso Vostra Signoria". Col che il re di Francia esagera, ad enormizzare la gravità dell'offesa; in una sua antecedente lettera del 9 ott. 1532 s'era limitato, infatti, a presentare il Maraviglia quale "gentilhomme de ma chambre". Quindi, come sostiene a Venezia il rappresentante sforzesco, "non era orator dil re Cristianissimo". Ma esagera pure F. nel minimizzare. Facendo troncare il capo al Maraviglia F. ha deliberatamente offeso il sovrano. Un gesto, forse, calcolato a freddo piuttosto che maldestro: sotto il peso della tutela imperiale F., ecco che costringe la tutela a farsi con lui protettiva. Sicché sfida il re di Francia - che fa presente anche al papa l'"iniuria", e l'"offension" subite, minacciando di "voler rumper guerra" - e, nel contempo, fuga eventuali sospetti imperiali sul brigare d'un agente della Francia a Milano. E così può sentirsi, sia pure per un momento principe terribile, temibile.
Quel che è certo è che fare il principe non gli dispiace. E negli impegni di governo sembra caricarsi d'un'imprevista energia operativa di gran lunga eccedente la debolezza della sua costituzione fisica. Anzi, se si bada a Giovanni Basadonna per oltre tre anni rappresentante veneto presso di lui, questa, governando, s'è migliorata: addirittura "non si pol dubitar che 'l'averà prole". Né si tratta d'un'impressione azzardata alla buona. Che F. possa aver figli è questione di gran momento, specie per Venezia. Significa poter contare sulla prospettiva d'un consolidamento dell'autonomia del Ducato; se F. avrà eredi ci sarà la successione, appunto, ereditaria, e ciò esorcizza l'incubo di confinare coll'Impero anche a occidente. Evidentemente Basadonna sulla virilità di F. dev'essersi informato. E le informazioni sono state positive. E, allora, una lettera di supplica senza data e senza luogo di tal suor Marta a F. dove questa si dice di lui "filliola bastarda… quasi desmentechata… e che stenta de fame" non va trascurata. Suona conferma che F. i figli li può avere.
Naturalmente, a scopo dinastico, occorrono nozze regolari. E necessita, per queste, l'assenso imperiale. Tanto fa, allora, che sia Carlo V stesso ad indicare a F. chi deve sposare. E, in effetti, è così che avviene. Giunto a Milano sul far della sera del 10 marzo 1533 per ripartirne il 14, Carlo V si limita ad accennarne a F.: si tratta d'una sua nipote, figlia di sua sorella Elisabetta e di Cristiano II di Danimarca. Naturalmente il cenno imperiale è per F. un ordine cui obbedire. E, partito l'imperatore, sta ai suoi ministri compilare le condizioni del matrimonio accettate da F. il 7 aprile. Solo che F. è convinto sia a lui destinata Dorotea, la primogenita del re di Danimarca. Ma questa, gli si spiega ad assenso ottenuto, è già promessa al re di Scozia Giacomo. E poco cale le nozze con questo non avvengano, ché non diventa, per ciò, impalmabile da Francesco II. La fanciulla a lui destinata (e lo si chiarisce in un secondo tempo, dopo averlo indotto all'impegno) è la secondogenita, Cristina o Cristiana. F., a tutta prima "assai sdegnato" per lo scambio, ci rimane male, ma infine accetta, pur continuando a lamentarsi. "L'ho fatto - scrive ai ministri imperiali, facendoli responsabili dell'equivoco (e così evitando d'incolpare l'imperatore) - contro l'opinione mia; ma in queste cose publice voglio che la mia volontà ceda al parere d'altri, dappoiché la sorte mia vuole che sii solo di casa mia". Quel che conta è che non sia più solo, che possa sorridergli un figlio. Si stipula quindi, a Barcellona, il 10 giugno 1533, il contratto di nozze tra F., che ha compiuto i 38 anni, e la dodicenne Cristiana.
Con greve cinismo Carlo V ne scrive, il 31 luglio, alla sorella Maria, governatrice dei Paesi Bassi, presso la quale vive la fanciulla, il cui padre è prigioniero, la cui madre è morta. Certo, "quant à la personne", l'aspetto di F. è sin sconcertante, "d'estrange sorte". Ma "la teste et meyelle du corp" - è evidente che Carlo V si riferisce alla struttura anatomica di F. - "est bien fondé et dit l'on qu'il", F., "ne peut sans dame". Se ne può dedurre - insiste - "que se soyt a s'en faire service pour elle", la nubenda. Allibita Maria risponde, il 25 agosto, al fratello che "selon le droit escript elle", Cristiana, non ha l'età per accoppiarsi "et selon le droit de nature je tiens que cest contre lieu et raison de la marier". Inscalfibile la determinazione di Carlo V. Il matrimonio s'ha da fare. Quanto all'età, replica volgarmente a Maria l'11 settembre, "je crains plus quil sera trop grand pour le duc que… pour nostre niece". Nel frattempo, ancora il 23 agosto, il conte Massimiliano Stampa parte da Milano alla volta delle Fiandre, per sposare, a nome di F., la fanciulla. E il 13 ottobre giunge a Milano notizia che il matrimonio per procura è stato celebrato. Quanto alle condizioni del contratto di Barcellona esse prevedono ben 100.000 scudi da parte dell'imperatore ed altri 100.000 da parte di Cristiano II. Ma di fatto a F. non arriverà un soldo. La somma stanziata da Carlo V vale solo ad alleggerire i debiti di F. colla cassa imperiale; quella promessa dal re di Danimarca resta un auspicio, subordinata com'è l'effettiva corresponsione della somma alla liberazione di Cristiano II, allora prigioniero, e al recupero del Regno.
Ed ecco che, il 3 maggio 1534, la tredicenne principessa danese fa il suo ingresso solenne a Milano. "Veramente più gera divina che umana", raccontano le cronache incantate dalla sua grazia; "ma de poca etate", aggiungono sottintendendo che essa viene sacrificata a un uomo ormai in là cogli anni e certo non avvenente. Il 4 si celebrano gli sponsali. Sposo d'una nipote di Carlo V, F. si sente ora politicamente più sicuro; e, confortato dai segni di ripresa dell'economia, può dedicarsi con serenità ai suoi compiti di governante. Però nell'ottobre del 1535, F. cade ammalato. E "verso la sera" del 1° novembre sopraggiunge "novo parosismo con mancamento di vista"; ormai la sua sorte è segnata. Muore, infatti, a Milano, nel castello di Porta Giovia, nella notte tra il 1° e il 2 nov. 1535 di "febre maligna", come informa l'inviato estense Ferrante Trotti.
Imponenti le esequie - e se M. Stampa le ritarda, è per organizzarle accuratamente: sicché, 19 giorni dopo la sua scomparsa, muove il corteo funebre, sapientemente scandito colle croci lignee che lo aprono e la guardia dei lanzi che lo chiude, dal castello al duomo dov'è stato eretto un grandioso catafalco tutto parato di nero - nel sincero cordoglio di tutta la città. Con la morte - che l'oratore funebre Gualtiero Corbetta definisce "repentina… inopinata… importuna" - di F. s'estingue pure l'indipendenza del Ducato. Immediata la trasmissione "de poderes" ad Antonio de Leyva, mentre già il 20 sventola sulla capitale lo stendardo imperiale. E inevitabile il riesplodere del conflitto tra Francia e Spagna. Ma F. sopravvive laddove, il 27 ag. 1541, Carlo V sancirà le Constitutiones Mediolanensis dominii - ossia l'organica raccolta "in unum codicem" d'una decretazione cresciuta "in immensum" e per ciò riordinata e sfrondata - ricordando che il merito dell'iniziativa spetta all'ultimo duca sforzesco che l'ha promossa ed avviata. Per tal verso l'assunzione del dominio diretto si pone in una linea di continuità istituzionale col potere ducale. Incorporato il Milanese nella monarchia asburgica serbando i propri ordinamenti e le proprie tradizioni amministrative.
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