FRANCESCO IV Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato
Primogenito di Vincenzo Gonzaga, che diverrà duca il 22 ott. 1587, e di Eleonora de' Medici, nasce a Mantova il 7 maggio 1586, salutato con gran giubilo e per l'assicurata linea successoria e per la definitiva convalida della, a suo tempo calunniata, virilità paterna. Battezzato, il 15, dal vescovo di Verona Agostino Valier, accompagnato da quello di Brescia Giovanfrancesco Morosini, la sua esistenza è subito oggetto di particolari cure. E sempre più accurata, a mano a mano cresce, la sua educazione. Veglia su di lui spiritualmente il padre Antonio Falcario, mentre lo istruisce nelle lettere un dotto precettore, don Luigi Guazzo. Inclinato alle scienze, sin appassionato di botanica, gli è, per qualche tempo, maestro di matematiche Giovanni Antonio Magini, che gli dedicherà il De astrologica ratione… (Venetiis 1607). Compiti altresì i suoi modi, nonché destro nell'equitazione sì da brillare in giostre e tornei. Nel 1606, l'anno in cui è ritratto da Francesco Pourbus, rappresenta il cognato Enrico di Lorena nelle nozze, del 24 aprile, della sorella Margherita. Dedicatario, nel 1607, degli Scherzi musicali a tre voci di Claudio Monteverdi, la dedica, di lì a due anni, della partitura a stampa dell'Orfeo dello stesso, lungi dall'essere, come la prima, scontato omaggio cortigiano, è significativo riconoscimento della parte attiva svolta da F. nella prima rappresentazione, del 24 febbr. 1607, della "favola" nell'"angusta scena" dell'accademia degli Invaghiti, a palazzo ducale. "Benigna stella" F. "propitia" al "nascimento" dell'opera. Determinato alla messa in scena, riesce a ottenere dalla corte medicea la venuta del castrato Giovan Gualberto Magli e si preoccupa di fornire agli spettatori il testo "da leggere mentre che si canterà". Un successo questa prima rappresentazione grazie anche alla prestazione di Magli, il quale, come scrive F. al fratello Ferdinando, "s'è portato assai bene et ha dato gran soddisfazione col suo cantare". Tant'è che segue di lì a poco, il 1° marzo, la messa in scena "pubblica", a sua volta seguita da ulteriori repliche.
Indubbiamente il trionfo dell'Orfeo è anche fattore di prestigio per la corte gonzaghesca. Ciò non toglie che questa, malgrado le sue benemerenze artistiche, resti, sul versante della politica, debole, ricattabile. Donde la minaccia degli appetiti sabaudi sul Monferrato a tacitare i quali le nozze - iniziate le trattative ancora nel 1604, non a caso ostacolate da Madrid che, invece, punta sul permanere della tensione tra Mantova e Torino - tra F. e Margherita, primogenita di Carlo Emanuele I si configurano come soluzione ottimale. Preceduto dal cugino Carlo Gonzaga Nevers che - l'ultimo giorno di carnevale nel pieno della festa in castello - consegna, come suo procuratore, l'anello nuziale, F. giunge col padre il 18 febbr. 1608 a Torino. E qui, salutate dai versi di Orazio Navazzotti, il 19 vengono celebrate le nozze. Trattenutosi a Torino sino a metà maggio, mentre a Mantova fervono i preparativi per offrire alla sposa la più splendida delle accoglienze, F. quasi invidia il fratello Ferdinando che, coinvolto nell'organizzazione dei festeggiamenti gonzagheschi, è come avvolto "fra le poesie essendo in compagnia" di O. Rinuccini e G. Chiabrera. In compenso - scrive F. a Ferdinando il 28 aprile - "qui" a Torino "si ritrova il Marino che è il più galante uomo del mondo"; ed egli, insiste F. quasi a suscitare, a sua volta, l'invidia del fratello, ha la ventura di frequentarlo. Partecipe G.B. Marino dei festeggiamenti torinesi agli sposi, da lungi concorre pure a quelli imminenti mantovani dal momento che fornisce la risposta al cartello di sfida, redatto dal Chiabrera, del torneo Il trionfo dell'onore, ideato questo dallo stesso Francesco. Il quale - ciò va sottolineato -, rispetto agli ormai prossimi spettacoli in onore suo e della sposa, non è soltanto privilegiato beneficiario. Quanto meno dall'autunno del 1607 s'è preoccupato e occupato della loro messa punto. E non solo in termini organizzativi, ma anche d'ideazione. Sua, oltre all'idea del torneo, quella de Il sacrificio d'Ifigenia, il balletto verseggiato da Alessandro Striggi.
Sin miserevole Torino rispetto alla magnificenza dell'accoglienza mantovana, che non solo s'esprime in più di 10 giorni di strabilianti spettacoli, ma che sa spettacolizzare nella forma più fastosa lo stesso ingresso, del 24 maggio, di Margherita. Fatta arrivare sul bucintoro a Pietole, di lì è condotta in carrozza al palazzo del Te, donde, con folto corteo, muove a cavallo sotto bianco baldacchino sorretto da gentiluomini, attorniata da dame e dalla scorta d'onore biancovestita alla volta della città nella quale entra tra fragore d'artiglieria e di moschetteria. Schierati 12.000 fanti, allineate cinque compagnie di cavalleggeri, in attesa, in piazza S. Pietro, sulla soglia del duomo il vescovo con tutto il clero. E tripudiante l'intera Mantova tutta addobbata. Epperò all'inviato veneto Francesco Morosini non sfugge - come scrive il 25 al Senato - che "questi mantovani non possono dissimular il dispiacere che sentono" perché Carlo Emanuele I non è "venuto a queste nozze", così ostentando una certa qual "superiorità". Raffinata capitale dell'effimero Mantova, proprio quando in questo profonde tutte le sue capacità, avverte - con disappunto sotteso d'angoscia - quanto questo suo primato sia, a sua volta, effimero, politicamente non remunerante. Sin sprezzante - nel suo non muoversi da Torino - il duca sabaudo. Evidentemente più Mantova s'affanna a festeggiare la sua primogenita meno gli incute rispetto. Troppo debole militarmente il consuocero perché Carlo Emanuele I lo prenda sul serio. Mero spettacolo di parata il pomposo esordio, il 25, nella basilica di S. Andrea, dell'Ordine - approvato da Paolo V ancora il 16 aprile - dei cavalieri del Redentore, il cui primo insignito è F., suo genero. Suggestiva la scenografia della cerimonia costitutiva, ma non per questo Mantova assume un fiero cipiglio guerriero. Non è che l'avvio d'una recita che proseguirà, senza interruzione, sino ai primi di giugno. Memorabili - lungo questa - la messa in scena dell'Arianna con testo di Rinuccini musicato da Monteverdi, dell'Idropica di B. Guarini con intermezzi di Chiabrera e strepitosi apparati di A.M. Vianini, della naumachia. Applauditissimo, il 4 giugno, il Balletto delle ingrate, frutto, anche questo, della collaborazione di Rinuccini e Monteverdi, cui prende parte attiva F., col padre, sei cavalieri e otto dame.
Finita la dispendiosissima (e sin esiziale per le già saccheggiate finanze statali) nonché magnifica (in tutta Italia e anche Oltralpe s'affabula delle sue meravigliose macchine, dei suoi strabilianti fuochi artificiali) festa, F. - la cui indole è meno godereccia di quella paterna, essendo nel contempo alieno dal fantasticare, come Vincenzo, mirabolanti imprese che rechino ai Gonzaga la corona, già dei Paleologhi, di Bisanzio - è sposo premuroso e, insieme, attento al proprio profilo di principe ereditario e come tale desideroso d'impegnarsi. Da un lato si sente maturo, dall'altro vuol maturare. E se la nascita, del 29 luglio 1609, della primogenita Maria lo rende padre, l'assunzione, con a fianco l'avveduto consigliere Alessandro Striggi, del governo del Monferrato l'introduce al maneggio degli affari di Stato, se non altro l'abitua a impersonare l'autorità gonzaghesca presso i sudditi monferrini. D'altronde è il padre che lo preferisce a Casale: così allontana da Mantova la nuora che troppo s'impiccia di politica, che smania di contare e che vuol far contare di più il marito. Certo che, una volta a Casale, F. è pìù vicino al suocero. E questi non disdegna di fargli visita nonché d'invitarlo - non senza apprensione di Vincenzo, timoroso d'essere in qualche modo coinvolto nell'aggressiva politica antiasburgica che il consuocero sta concordando col re di Francia - a Torino. Un sollievo, tutto sommato, per Vincenzo l'assassinio, del 14 maggio 1610, di Enrico IV. Così la tensione s'allenta. Così s'allontana il rischio d'una guerra non voluta. Fausto evento per la corte la nascita, del 26 giugno 1611, di Ludovico, figlio di F. e di Margherita. Così la linea successoria è assicurata. E, con la morte di Vincenzo (18 febbr. 1612) - preceduta da quella della moglie Eleonora il 9 settembre -, il Ducato passa a Francesco IV.
Assunto, il 2 giugno, il titolo di duca, F. pare anzitutto intenzionato a prendere le distanze dalla figura del padre, in effetti sin sperperante nella sua troppo allegra gestione delle finanze ducali. Donde, da parte di F., la riduzione drastica delle spese col ruvido e immediato sfoltimento del personale superfluo e parassitario che aveva gonfiato a dismisura il numero delle "bocche" cortigiane. Via, dunque, dalla corte i troppi istrioni, i troppi buffoni, i troppi artisti, i troppi avventurieri e le troppe avventuriere, nonché i troppi musici. Ciò non toglie che F., laddove personalmente interessato, inclini a sua volta al lusso più dispendioso. Gli piacciono i cani. Ebbene, lui duca, gli addetti a questi ascendono a 83. Il che non può certo dirsi un risparmio. Ché F., come ricorderà l'inviato veneto Giovanni Da Mula, "riseccate tutte le superfluità", vorrebbe vivere anch'egli, come il padre, "alla grande e nell'apparenza forse anco più onorevolmente" di lui. Tant'è che incrementa lo stuolo dei cani di razza. E tant'è che, in un primo tempo tentato dalla prospettiva d'ampliare le collezioni d'arte gonzaghesche, avvia trattative per l'acquisto, a Venezia, d'una cospicua galleria privata ivi in vendita, salvo ritrarsene ben presto spaventato dal prezzo esorbitante. E se, rispetto alle follie spenderecce di Vincenzo, il licenziare di F. - che colpisce, nel luglio, anche Monteverdi - segna una netta inversione di tendenza, la celebrazione, del 21 luglio, dell'elezione a imperatore, del 13 giugno, di Mattia non è da meno, in termini di profusa magnificenza, delle costosissime feste care a Vincenzo. C'è la rappresentazione del ratto delle sabine, c'è un sontuoso banchetto nei giardini ducali mentre viene innalzata, "superbissima a vedersi", un'immane aquila ricoperta d'argenti. Se c'è da figurare nemmeno F. bada a spese. Certo che, con lui, la vita di corte sin s'incupisce rispetto all'effervescenza brillante già propria dei tempi di Vincenzo, subito rimpianto da quelli che "ricevevano beneficio" dai suoi "disordini", come sottolinea la relazione dell'ambasciatore veneziano Pietro Gritti. E non si tratta soltanto della pletora parassitaria a corte accampatasi, ma anche dei fornitori, ma anche di quanti, in virtù del lusso della corte, erano attivi. Non solo dispendio, insomma, la corte di Vincenzo ma anche, nel dispendio, una certa qual mobilitazione d'un certo qual indotto che ora, con F., si vede penalizzato. Umanamente simpatico, altresì, Vincenzo per la sua "natura libera, affabile, piacevole", amato a corte e anche tra i sudditi, "assuefatti ad amare ed aver cari i difetti medesimi del loro "principe"". Sin raggelante, invece, F. troppo rigido, troppo impettito, troppo sussiegoso, come incapace di sciogliersi dalla "grave e riservata maniera" colla quale troppo seriosamente impersona il proprio ruolo. Un minimo sollecito dei sudditi - se non altro perché autorizza l'abbattimento dei troppi cinghiali destinati alla caccia ducale nei boschi di Marmirolo perché dannosi alle colture circostanti; se non altro pel promosso acquisto di ingenti quantitativi di grano da immettere a basso costo nel mercato sì da contrastare l'impennata dei prezzi - F., epperò non in grado d'ingraziarseli con l'affabilità del tratto.
Né la stessa avvedutezza colla quale punta al contenimento delle spese della corte, all'estinzione dei debiti, al recupero dei beni alienati ha il suo simmetrico riscontro in un comportamento del pari avveduto allorché ritiene offeso l'onore della sua casata dal duca di Parma. Questi, che ancora nel 1611 ha scoperto e represso una congiura contro di lui tramata, "per publico proclama" - così, in una lettera del 25 luglio, l'inviato veneto Pietro Gritti - denuncia gravi connivenze mantovane. "Esecutore di una principal conspiratione" ancora in atto il suddito parmense da tempo al servizio dei Gonzaga marchese Giulio Cesare Malaspina al momento capitano degli arcieri di Francesco. E dietro a lui si profila quale istigatore il defunto Vincenzo, che, anche se non esplicitamente nominato, è subito riconoscibile - tanto il proclama "ultimamente" uscito dalla corte farnesiana è, nel suo alludere, trasparente - quale il "principal conspiratore". Furente, nel suo sdegno, F. "rissoluto" - così sempre Gritti - a "sostentare per qual si voglia via la innocenza del… Malaspina" e "la reputatione del già duca Vincenzo", deciso, per lo meno a parole, a muover guerra, a impugnare "le armi". Ma la "qualche risolutione", colla quale F. il 13 luglio annuncia al suocero d'esser pronto insieme col duca di Modena e con quello della Mirandola, contro Ranuccio Farnese resta di fatto rinviata dalla prudenza di Carlo Emanuele I, il quale, formalmente d'accordo con F., pospone il ricorso alla guerra al fallimento del tentativo - che va, comunque, esperito - d'un componimento per via pacifica. E "l'arbitro" in proposito dev'essere il re di Spagna, fa presente il governatore di Milano, il marchese di Hinojosa Giovanni Hurtado de Mendoza, il quale nel contempo fa capire che, in ogni caso, da parte spagnola, non si sarebbe tollerata una "rottura". È quanto basta per far sbollire i violenti propositi: il duca estense subito si ritrae, F. smette di concentrare truppe a Viadana, Ranuccio Farnese, a sua volta, rinuncia alle contromisure difensive, facendo altresì pervenire, a fine ottobre, a Milano la documentazione relativa alla congiura sì che dall'esame di questa si stabilisca la liceità o meno delle accuse al defunto Vincenzo contro le quali con tanta fierezza F. è insorto. Ora anch'egli si rimette al giudizio del governatore spagnolo, fiducioso che la riconosciuta estraneità paterna agli intrighi imponga, da parte di Ranuccio, una completa ritrattazione. Anche così la vertenza può risolversi con piena soddisfazione dell'onore gonzaghesco e con umiliazione di Ranuccio. Solo che il marchese di Hinojosa non ha alcun interesse a procedere sollecito al riesame degli incartamenti processuali a lui trasmessi. A lui basta aver spento il fuocherello d'un litigio che poteva diventare pericoloso. Quel che preme al governatore è il mantenimento della pace e quel che conta è la riaffermazione dell'autorevolezza spagnola sui principi satelliti. E vieppiù subalterni F. e il rivale finché disposti ad attendere da Milano una soluzione della loro controversia. Opportuno, allora, prolungare la loro attesa.
Solo che a F. non è dato d'attendere a lungo: la morte per lui è ormai prossima e preceduta da quella in settembre della figlia Eleonora, che sopravvive di pochissimo alla nascita e da quella dolorosissima - di vaiolo, del 3 dicembre, del primogenito Ludovico, assiduamente assistito da Francesco. E così il male contagia anche lui. In tutte le chiese di Mantova si prega per la sua guarigione. E, il 21 dicembre, riaperta per le preci continue della folla accalcata la chiesa di S. Salvatore già chiusa perché contigua al ghetto. E mentre gli ebrei - che F., rispetto al padre, ha costretto "in più stretti termini" irrigidendo la relativa normativa comportante l'obbligo della fascia gialla, vietante la frequentazione dei cristiani; è, in compenso, emessa da F. la grida del 12 giugno che, stabilendo possano valersi anche d'un solo testimone, di fatto un minimo li protegge dalle offese e violenze, ad attestare le quali, essendo "poco ben voluti da' christiani", di rado "si trovano", appunto, "testimoni" - sono in questo severamente segregati, ecco che tutta S. Salvatore risuona di suppliche imploranti la sconfitta del morbo. Ma vano il fervore orante, vana la scienza medica ché il 22 dic. 1612 F. - forse a seguito d'un improvvido salasso - cade in un profondo assopimento per poi, senza ridestarsi, spirare.
Così la definitiva soluzione della questione monferrina - quella contemplata dal contratto matrimoniale di F. prevedente cessioni ai Savoia di terre nordoccidentali monferrine compensate da "terre" tra il Belbo e il Bormida; quella ipotizzante l'acquisto, da parte del suocero di F., di Castiglione, Medole e Solferino per poi trasmetterli ai Gonzaga in cambio del Canavese: quella auspicante l'assenso imperiale all'acquisto gonzaghesco di Sabbioneta e Correggio - lungi dal risolversi nell'acquisizione sabauda d'una troppo inoltrata propaggine gonzaghesca e nel simmetrico irrobustirsi e, un minimo, volgersi al mare del dominio dei Gonzaga, si fa impossibile. E causa la morte prematura di F. del bellicoso esasperarsi d'un contrasto che, colle sue nozze, s'era, quanto meno, allentato.
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