JOVINE, Francesco
Nacque a Guardialfiera, nel Molise, il 9 ott. 1902 da Angelo e Amalia Loreto, in una famiglia di contadini, piccoli proprietari terrieri.
Durante l'infanzia trascorsa accanto al padre, molto legato alle tradizioni locali, lo J. ebbe modo di sviluppare quel profondo amore per la terra d'origine che può essere considerato l'elemento fondante della sua narrativa.
Nel 1911 si trasferì a Larino, nel collegio vescovile, dove frequentò per tre anni l'istituto tecnico. Tuttavia, l'insofferenza manifestata verso questo tipo di studi indusse la famiglia a iscriverlo alle scuole magistrali, di Velletri prima e poi di Città Sant'Angelo, dove conseguì il diploma di maestro nel 1918. Tornato subito dopo a Guardialfiera, vi rimase per circa un anno in attesa di lavoro. In questo periodo di ozio forzato lo J. si dedicò a tempo pieno allo studio, approfittando della ricca biblioteca messagli a disposizione dal dottor De Lisio, un mecenate locale che lo incoraggiò amichevolmente alla lettura.
Ebbe così l'opportunità di integrare il proprio bagaglio culturale, formatosi sui tomi della biblioteca acquisita dalla sua famiglia in seguito a un'eredità, che comprendeva volumi di storia, saggistica e narrativa dal 1400 al 1870. Sollecitato da queste prime letture, a nove anni aveva già scritto i dieci capitoli iniziali di un romanzo storico (Lodrisio Visconti) e a undici il primo canto di un poema su Ezzelino da Romano. Tali precoci esordi narrativi testimoniano grande vivacità intellettuale, ma, nello stesso tempo, una cultura anacronistica, dovuta all'isolamento del piccolo, chiuso mondo provinciale e a letture disordinate. Consapevole delle proprie lacune, lo J. si dedicò con grande tenacia e sistematicità allo studio dei classici e della narrativa novecentesca, di cui, fino ad allora, aveva avuto scarsissima cognizione.
Nel 1919 fu nominato istitutore, dapprima nel collegio di Maddaloni, poi a Vasto, maturando interessanti esperienze formative, dal punto di vista pedagogico, che gli avrebbero suggerito più tardi alcuni temi di riflessione per le sue opere. Parallelamente, iniziò a coltivare gli studi filosofici: studiò a fondo i testi di B. Croce e G. Gentile, che lo influenzarono in modo decisivo. Nel 1922 venne richiamato a Roma per il servizio militare, che prestò senza alcuna convinzione. L'istintivo rifiuto della disciplina e del militarismo gli costarono numerose punizioni in cella, di cui approfittò per intensificare gli studi storico-filosofici e per prepararsi adeguatamente al concorso magistrale, che vinse a Campobasso nel 1923. Scelse, però, di insegnare a Guardialfiera, dove rimase ancora per due anni, finché nel 1925 si trasferì a Roma, vincitore di una cattedra per concorso. Qui conobbe Dina Bertoni che sposò nel 1928 e che gli fu accanto per tutta la vita. Nella capitale si laureò al magistero, dove poi divenne assistente di G. Lombardo Radice. In questi anni, decisivi per la sua attività di scrittore, lo J. scelse opportunamente l'incarico di direttore didattico, preferendolo a quello d'insegnante di ruolo proprio per potersi dedicare più agevolmente alla saggistica e alla narrativa.
Sin dal 1927 aveva iniziato a collaborare con le riviste Italianissima e I Diritti della scuola, per le quali curava rubriche letterarie. Ebbe così modo di intervenire direttamente nelle querelles del tempo, schierandosi apertamente in favore del realismo narrativo, legato alla tradizione del romanzo ottocentesco e poi del verismo, e contro le correnti moderniste del Novecento, di cui lamentava gli atteggiamenti estetizzanti. Allo stesso modo, rifiutava l'intellettualismo pirandelliano, di cui offrì una parodia nella commedia Il burattinaio metafisico, scritta nel 1928 per il teatro sperimentale di A.G. Bragaglia e mai rappresentata.
Nella pièce, che egli stesso definì un esperimento, vi è un preciso atteggiamento satirico e polemico nei confronti della commedia borghese e delle sue involuzioni cerebrali, dalle quali, secondo lo J., viene esclusa la vita reale.
Lo stesso rifiuto maturò nei confronti del modello letterario dannunziano, con il romanzo Un uomo provvisorio (Modena 1934).
Qui il protagonista, Giulio Sabò - che presenta molti tratti in comune con gli "eroi" del romanzo anni Venti -, dopo un periodo di vita vuota e fatua, ritrova se stesso nel momento in cui fa ritorno al suo paese d'origine. Questa prima prova narrativa dello J., il cui valore letterario è in gran parte inficiato sia dal proposito moralistico, sia dallo stile ridondante, acquista però interesse se letta come un tentativo di chiarificazione della propria poetica, nel senso della convinta adesione a un irrinunciabile realismo. Il romanzo fu dapprima tagliato, poi definitivamente proibito dalla censura fascista che ottusamente accusò l'autore di disfattismo.
La stessa tematica, attinta dalla propria esperienza, che oppone i valori atavici e incontaminati della vita contadina meridionale a quelli decadenti della borghesia cittadina, si ritrova nel romanzo Ragazza sola, apparso a puntate, nel 1937, in I Diritti della scuola.
L'opera, ancora acerba dal punto di vista stilistico, affronta il tema della missione dell'insegnante e, in senso più ampio, dell'intellettuale. Lo J., pur rimanendo legato allo storicismo di Croce, attraverso una profonda revisione dell'idealismo gentiliano, di cui percepiva i legami ideologici con le posizioni illiberali del regime, si era venuto spostando su posizioni sempre più vicine al marxismo. Tale scelta etico-politica lo spingeva a sostenere, e a condividere, il dovere dell'impegno dell'intellettuale nei confronti dei problemi sociali e politici, cui personalmente tenne fede per tutta la vita. Ma il rigore e l'anticonformismo che caratterizzavano la sua personalità, non permettendogli di legarsi fino in fondo né a questo né a quello schieramento, finirono con l'isolarlo dall'ambiente letterario e a escluderlo dal dialogo culturale.
Trovandosi in una situazione difficile e precaria, lo J. ritenne opportuno allontanarsi dall'Italia e accettare un incarico d'insegnamento, dapprima a Tunisi, dove rimase due anni (1937-38), poi al Cairo (1939-40). Rientrato in Italia nel maggio 1940, vi trovò una situazione politica ancora più pesante e un clima di completa omologazione culturale sotto l'egida del regime. Si legò allora a quei pochi intellettuali che ancora conservavano autonomia di giudizio (tra gli altri: M. Pannunzio, C. Muscetta, C. Levi, G. Debenedetti, R. Guttuso, A. Moravia, G. De Ruggiero), con cui stabilì duraturi legami d'amicizia. Durante la guerra continuò ad approfondire i prediletti studi storico-filosofici, scrivendo un saggio, pubblicato postumo (Del brigantaggio meridionale, in Belfagor, 1970, n. 6, pp. 623-641), in cui comincia a delinearsi l'embrione di quella "revisione" del Risorgimento nazionale che lo J. avrebbe sviluppato, in una chiave originale e personalissima, nei successivi lavori. Collaborò anche, come critico letterario, a diverse riviste, quali Oggi, L'Italia letteraria e altre.
Gli articoli di questo periodo sono illuminanti perché in essi si viene precisando la poetica dello J., sempre più convinto sostenitore di un realismo narrativo, inteso come riconquista della realtà, che trascenda però la mera cronaca per ricrearla e interpretarla in senso storico e poetico. In tal modo lo J. intendeva confrontarsi con la grande tradizione del naturalismo e del verismo, proponendo come modelli G. Flaubert, É. Zola e G. Verga, che considerava suoi indiscussi maestri.
Nel 1940 lo J. raccolse nel volume Ladro di galline (Modena 1940) sette racconti, scritti fra il 1931 e il 1940, nei quali compaiono alcuni argomenti cardine della sua narrativa, ancora fortemente intrisa di autobiografismo.
La difficoltà d'integrazione nella grande città, in particolare per gli studenti senza mezzi che vengono dalla provincia, la decadenza della terra e le misere condizioni di vita dei contadini sono al centro dei racconti, venati dall'estrema nostalgia dello J. per il suo paese d'origine, vero protagonista della raccolta.
Il progressivo distacco emotivo e sentimentale nei confronti della materia trattata si avverte già in una serie di articoli scritti nel 1941 in Molise, come inviato speciale de Il Giornale d'Italia, e successivamente raccolti nel volume postumo Viaggio in Molise (Campobasso 1967).
In essi sono quasi del tutto assenti gli accenni di cronaca e vengono invece privilegiati gli aspetti più intimamente legati alle radici profonde della cultura locale, ormai rievocata in una dimensione mitica.
In questa chiave il realismo dello J. si arricchisce e si trasforma acquistando una valenza lirica che fa presentire lo stile e l'atmosfera, sospesi tra realtà e leggenda, del romanzo che lo lanciò definitivamente come narratore: Signora Ava.
Progettato inizialmente nel 1929 come un affresco storico sul Molise, ripreso nel 1935 e di nuovo abbandonato, apparve finalmente in volume nel 1942 (Roma). Nella stesura definitiva la realtà storica della narrazione - quella del crollo del Regno borbonico negli anni 1859-61, vissuto attraverso le vicende del piccolo paese di Guardialfiera - viene felicemente trascesa dallo J. attraverso un'adesione sentimentale alla materia narrata che fonde lirismo e realismo in un linguaggio che ha già raggiunto piena consapevolezza artistica. Il titolo non rimanda a un personaggio reale, ma si riferisce a un'antica canzone del luogo - posta in epigrafe del romanzo - che ricorda i tempi della signora Ava, come simbolo del tempo perduto. L'opera, d'altro canto, non si risolve nel compiacimento nostalgico della rievocazione, ma focalizza anche l'altro elemento fondante della poetica dello J., e cioè la dimensione dell'impegno civile e morale che riguarda tutto il Mezzogiorno, nella speranza di un futuro riscatto sociale per la massa amorfa dei diseredati, soprattutto i contadini. Per loro, vittime della storia, nulla è cambiato e nulla cambierà dopo la caduta del Regno borbonico: succubi di una classe dirigente, quella uscita appunto dal Risorgimento, che, incapace di guidare il cambiamento, si sarebbe limitata a sostituire nell'esercizio del potere la vecchia aristocrazia del latifondo.
Il 14 sett. 1943 lo J. pubblicò ne Il Giornale d'Italia un coraggioso articolo in cui condannava duramente il regime auspicando un rinnovamento della società civile fondato su basi pienamente democratiche; aderì quindi alla Resistenza, occupandosi attivamente della raccolta di medicinali e indumenti per i partigiani.
Alla fine della guerra lo J. si dedicò a tempo pieno alla narrativa e alla saggistica, collaborando a diverse testate. Nel 1945 pubblicò una raccolta di novelle, Il pastore sepolto (Torino), quasi tutte già apparse in rivista e composte tra il 1941 e il 1943.
Più significativo fra tutti è il racconto che dà il titolo al libro, ancora una volta ambientato in Molise e narrato in prima persona dal membro più giovane di una famiglia di possidenti terrieri. Questa, dopo l'Unità, assiste impotente al progressivo impoverimento della propria terra per la mancanza di braccianti che la lavorino, a loro volta costretti all'emigrazione dalla miseria, e affida tutte le proprie speranze a un sogno, fatto dal nonno, circa un tesoro nascosto dentro la statua di un pastore sepolta; la delusione per il mancato ritrovamento dell'oro segnerà la definitiva decadenza economica della famiglia. Qui le vicende storiche, pur filologicamente corrette nella ricostruzione, rimangono sullo sfondo e viene privilegiata l'evocazione di un mondo ancestrale visto attraverso gli occhi di un fanciullo.
Nel 1945 fu pubblicato L'impero in provincia (Roma), una raccolta di novelle che ha nella rivisitazione del fascismo quale venne vissuto nelle province del Molise il suo tratto peculiare: lo J. adotta un taglio satirico, accentuando il lato ridicolo e grottesco del regime attraverso gustosi bozzetti di vita provinciale. Nel 1948 la commedia Giorni che rinasceranno (Roma, teatro Quirino, 22 maggio, compagnia Besozzi - Pola - Scandurra) - protagonista una dattilografa di modeste origini, Isabella che, dopo aver tentato con ogni mezzo di entrare nel mondo dei borghesi, lo rifiuta con un gesto estremo di ribellione - ebbe esiti negativi sia presso il pubblico sia presso la critica, essendo giudicata marcatamente a tesi e poco verosimile.
Nei successivi racconti, Tutti i miei peccati e Uno che si salva, apparsi in volume nel 1948 (Torino), lo J. provò ad affrontare i modelli del realismo borghese con risultati in definitiva poco convincenti: l'analisi sociale risulta condotta in modo manicheo, non riuscendo lo J. a cogliere le contraddizioni e le sfaccettature di una realtà assai complessa. Tali prove, sebbene incerte, preludono tuttavia alla pubblicazione dell'ultima, felicissima, fatica narrativa dello J., Le terre del Sacramento (ibid. 1950).
Il romanzo, come già Signora Ava, ebbe una lunga genesi e rappresenta la sintesi di tutti i più significativi temi affrontati dall'autore negli scritti precedenti. Giunto a una piena maturità stilistica e a una serena e distaccata posizione ideologica, anche attraverso l'uso dell'ironia lo J. riesce a unificare tali temi intorno a un nucleo fondamentale e fondante, la poetica della terra, intesa come bene primario e come strumento di riscatto sociale. Intorno a essa ruotano gli eventi della narrazione, che si svolge lungo l'arco di un sessantennio nel contado molisano: dalla seconda metà dell'Ottocento fino alla nascita del fascismo. Le terre del Sacramento sono un feudo ecclesiastico, acquistato dalla famiglia Cannavale nel 1867 e finito in rovina a causa dell'inettitudine di Enrico, ultimo erede della famiglia. La moglie, Luisa, con l'aiuto di un giovane studente, Luca Marano, tenta di salvare la proprietà e, non riuscendoci, abbandona tutto nelle mani di un signorotto locale. Il giovane convince allora i contadini a ribellarsi e a occupare le terre: la rivolta finirà con la dura repressione fascista che porterà alla morte del protagonista e di alcuni braccianti. Il destino tragico che accomuna Luca Marano e i contadini sembrerebbe riportare alla lezione di G. Verga, ai suoi personaggi ineluttabilmente sconfitti, se non fosse che questa sconfitta porta in sé i germi di un possibile riscatto, alimentato dalla visione di un futuro aperto a una rivoluzione sociale che, nello J., è fortemente influenzata dal pensiero gramsciano. Nel romanzo poesia e ideologia si fondono in modo armonioso e i personaggi, pur chiaramente emblematici, possiedono una loro piena umanità, colta dall'autore con atteggiamento rigoroso ma non impersonale. La pietas, in una materia così drammaticamente sentita, viene infatti filtrata attraverso scelte stilistiche che operano nei confronti del linguaggio una riduzione all'essenziale, liberandolo da ogni orpello decorativo o bozzettistico.
Lo J. morì a Roma il 30 apr. 1950, stroncato prematuramente da una crisi cardiaca.
Le terre del Sacramento - uscito pochi giorni dopo la sua morte e vincitore del premio Viareggio di quell'anno - consacrò lo J. presso la critica, che gli riconobbe una qualità del tutto peculiare, aliena dalle mode letterarie e pienamente rispondente alle profonde istanze morali dell'uomo oltre che dello scrittore.
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