LANDRIANI (da Landriano), Francesco
Figlio di Beltrame, apparteneva a uno dei rami più cospicui della "magna domus Landrianorum" (così la definì Enea Silvio Piccolomini), illustre e potente tanto a Milano quanto a Pavia e nelle terre avite di Landriano e Vidigulfo; non è noto il nome della madre. Il L. nacque presumibilmente intorno al 1410 e già negli anni Trenta era assai stimato nell'ambiente cortigiano in cui operò per tutta la vita, prima al servizio dei Visconti poi degli Sforza.
Nell'ottobre 1439 il duca Filippo Maria Visconti volle concedere al L. "camerario dilettissimo" e ai fratelli Antonio, Andrea, Galeotto, Tommaso e Giorgio il privilegio ereditario della cittadinanza di Pavia; nel 1442 confermò loro le più ampie esenzioni per il luogo di Spino d'Adda, con giurisdizione e separazione dal distretto lodigiano, e nel 1445 appoggiò presso la corte di Roma la nomina a cardinale di uno dei fratelli, Giovanni, priore di Campomorto.
In veste di camerario, profilo cortigiano aperto a compiti fiduciari tra i più vari, il L. fece da testimone a procure e altri importanti atti di rilevanza pubblica e fu relatore su materie che vennero poi disciplinate da decreti ducali, come la giurisdizione sugli ebrei del Ducato, i salvacondotti e la custodia delle fortificazioni. Dal 1441 prese residenza stabile nelle stanze del castello di Porta Giovia. La sua posizione non mancò di attirargli qualche antipatia: non lo amava, per esempio, Pier Candido Decembrio, che gli negava ogni autorità, sostenendo che la sua presenza presso il signore era puramente giocosa. Il giudizio contrasta però con la rilevanza delle missioni diplomatiche, talora ufficiose, talora solenni e formali, in cui fu spesso impiegato.
Nel febbraio 1438 fu uno degli inviati a Francesco Sforza per offrirgli una condotta e il matrimonio con Bianca Maria Visconti, figlia naturale del duca Filippo Maria, con l'offerta di una ricca dote, del dominio su Tortona e Asti e di una pingue provvisione annuale. Il negoziato fu però condotto con doppiezza e fallì quando furono note certe pratiche parallele che il duca faceva eseguire a Mantova. Nel 1440 ripeté la missione, offrendo al condottiero città e terre che sarebbero state affidate a Niccolò d'Este fino all'avvenuto matrimonio; ma anche in questo caso la volontà del duca non era aliena da riserve e le trattative furono inconcludenti. Nel febbraio 1441 la spinosa faccenda sembrò risolversi, ma inaspettatamente fu rivolta un'altra offerta di matrimonio agli Este. Solo in estate il matrimonio visconteo-sforzesco fu concluso e il L. fu tra i notabili incaricati di consegnare Cremona allo Sforza.
Munito di diversi salvacondotti, il L. si era mosso per diversi mesi tra Milano, Mantova e Ferrara e qui nel 1441 si era a sua volta accasato con una nobile ferrarese. L'11 novembre ne dava notizia a Francesco Sforza presentandogli la moglie, Ludovica figlia di messer Alberto della Sala e (come risulta da altri documenti) di Leonora dei Rossi di Parma. Nella lettera il L. esprimeva devozione verso il suocero, alto funzionario estense, già commissario a Parma; inoltre si diceva fedele allo Sforza e annunciava l'intenzione di fargli visita con il marchese d'Este, portandogli in dono alcuni falconi pellegrini. Il matrimonio ferrarese fu ratificato a Milano dal notaio Ambrogio Cagnola. Da Ludovica, il L. ebbe un figlio, Alberto e, nel 1464, una figlia, che però non visse a lungo.
Nel 1445 il L., già residente in Porta Vercellina, parrocchia di S. Nazzaro in Pietrasanta, acquistò insieme con i fratelli un ampio complesso di "sedimi" e di immobili, adiacente al castello ducale, che in seguito passò interamente nelle sue mani. Altri rogiti notarili si riferiscono alla gestione di beni fondiari in quel di Robecco e nell'episcopato di Lodi. Nel 1442-43 compì alcune missioni presso Alfonso d'Aragona, in Italia centrale, per rinnovare la lega del 1435; nel 1444 era nella Marca per indurre lo Sforza e Niccolò Piccinino a stipulare una tregua. Dai salvacondotti risulta che il L. si muoveva con un seguito di 30 persone e che ritornò a Milano in agosto con Piccinino. Fu poi a Ferrara per le nozze di Leonello d'Este e nel 1446, con due personalità vicine al clan braccesco - Nicolò Guerriero Terzi e Brocardo dei conti di Persico - fece da arbitro in una questione insorta tra Giovanni IV Paleologo, marchese di Monferrato, e Carlo Gonzaga. In quest'epoca si trovano sovente notizie del L. nei dispacci degli agenti sforzeschi a Milano, che ne seguivano con particolare attenzione le mosse, essendo note le sue relazioni con i bracceschi: viene segnalata la sua presenza a Ferrara dove era incaricato di facilitare il passaggio di truppe verso il Ducato di Milano, in quel momento attaccato dai Veneziani, e nell'agosto 1447, mentre continuava l'occupazione veneta di gran parte del territorio lombardo, viene riferita la sua partecipazione con il fratello Antonio e con Francesco Piccinino a una spedizione per recuperare Como e la Brianza, occupate dai nemici.
Gli inviati del conte Sforza, in realtà, non avevano precise notizie su quanto stava accadendo nelle stanze più protette del castello di Porta Giovia, dove il duca declinava rapidamente, circondato da pochi camerieri e segretari, tra cui il L., Andrea Birago, Domenico Feruffini e Giovan Matteo Bottigella. È facile immaginare quale arbitrio e quali mezzi di pressione fossero da tempo concentrati nelle mani di questo manipolo di persone, unica proiezione esterna di un signore sempre più isolato, diffidente e misantropo. Secondo lo storico sforzesco Giovanni Simonetta, al capezzale del duca si confrontavano due factiones avverse: minoritaria quella sforzesca, più numerosa quella braccesca che spingeva il Visconti a lasciare lo Stato e le sostanze ad Alfonso d'Aragona (mentre un presidio aragonese custodiva la rocchetta del castello). Tra i secondi, Simonetta rinvia al L., e tra i primi, a Birago: il riferimento è comunque ai cortigiani che si trovavano apud eum, mentre questo passaggio dei Commentarii viene solitamente sovrainterpretato, promuovendo i due al rango di capifazione. Se è verosimile che i cortigiani più influenti si facessero interpreti di pressioni esterne, è da escludere che il L. avesse la statura di capo di un partito nobiliare cittadino; né l'aveva Birago, che pure si stava guadagnando il favore dello Sforza. Filippo Maria Visconti morì il 13 ag. 1447 e corse voce che avesse dettato un codicillo designando suo erede l'Aragonese. L'esistenza di questo atto è discussa, è invece certo che il L. fu uno dei protagonisti della vicenda e che spese tutte le sue energie in favore di Alfonso e dei bracceschi.
Stabilita la Repubblica, il L. e il fratello Antonio, esponenti di spicco dell'aristocrazia milanese, parteciparono ai primi atti politici del governo repubblicano. Il nuovo governo milanese aveva scacciato i presidi napoletani dal castello di Porta Giovia e sequestrato il tesoro ducale che vi era custodito, mentre il popolo abbatteva il fortilizio come simbolo di tirannia.
Nel corso di una delle prime riunioni di governo i due Landriani furono accusati di avere sottratto al sequestro alcuni beni appartenenti al duca e vennero tratti in arresto. Per un momento sembrò che stesse per scoppiare un tumulto in armi, poi tutto si acquietò. Probabilmente, in quel momento di concitazione il L. aveva fatto uscire dalle stalle ducali alcuni preziosi cavalli per ricoverarli nelle stalle del suo palazzo adiacente al castello.
Nei due anni successivi, la breve vicenda repubblicana non coinvolse completamente il L., troppo segnato dall'esperienza cortigiana per aderire a una forma di governo tendenzialmente innovatrice. La fedeltà di casa Landriani al nuovo regime si mantenne tuttavia senza interruzione fino alla svolta guelfo-popolare del 1449, quando Antonio e Andrea, fratelli del L. e capitani di lunga carriera, abbandonarono le milizie del Piccinino e offrirono i loro servigi a Francesco Sforza. Il bando del governo ambrosiano colpì tutto il casato e anche il L., timoroso di rappresaglie, dovette mettere in salvo beni e preziosi. Quando nel marzo 1450 lo Sforza divenne duca di Milano, il L. fu uno dei nobili insigniti della milizia; nel clima di conciliazione instaurato dal nuovo principe il suo rango e le sue ampie relazioni sociali fecero aggio sulla sua passata compromissione con i bracceschi.
Già nel 1451 il suo palazzo presso il parco del castello, arioso e salubre, ospitava il Consiglio ducale in tempi di pestilenza e nell'aprile 1455 egli fu compreso nella lista dei nuovi aulici ducali. Nel giro di pochi anni fu promosso primo gentiluomo della duchessa Bianca Maria Visconti, confermando la sua vocazione al servizio cortigiano. In varie occasioni dimostrò il suo attaccamento ai privilegi di ceto: gli armaioli Missaglia, impegnati in un'annosa lite per certi pegni che il L. avrebbe dovuto consegnare loro a nome del duca Filippo Maria, lamentavano che si facesse beffe di ordini e sentenze e si vantasse apertamente di poter tirare in lungo la lite a suo piacimento. Un'altra questione in cui fu coinvolto, e in cui non mancò di impiegare i migliori avvocati, riguardava certe vesti preziose della moglie e della suocera, che erano state danneggiate durante le persecuzioni del governo repubblicano.
Il L. - come testimoniano il giudizio non benevolo di Decembrio e vari passaggi dei dispacci degli oratori mantovani - era uomo molto versato nelle piacevolezze del discorso cortigiano. Tuttavia a corte circolavano anche intrighi, trame e maldicenze; i suoi rapporti con la duchessa si guastarono e nel settembre 1456, adducendo disturbi e affanni, chiese licenza di impiegarsi alla corte estense, dove avrebbe fatto conto su molti amici e sulla protezione di Niccolò d'Este, con il quale aveva spesso frequentato le località termali per curarsi la gotta. Ancora nel settembre 1459 il L. meditava di "zitarsi in le braze dello illustrissimo duca de Modena": la notizia è riferita da un ambasciatore mantovano che tuttavia non sembra darvi troppo credito. Infatti il L. restò al suo posto e continuò a distinguersi per lo stile di vita fastoso: Francesco Filelfo aveva celebrato i suoi banchetti nel primo dei Convivia Mediolanensia e gli ambasciatori scrivevano della sua passione per cani, cavalli e uccelli da caccia. Nel 1464 festeggiò il battesimo della figlia nella cappella ducale di S. Gottardo invitando un numero esorbitante "de compare et comare", compresi i duchi, la principessa Ippolita Sforza, Iacopo Piccinino e vari oratori in rappresentanza di principi forestieri. In quest'epoca si adoperò a favore del matrimonio mantovano di Galeazzo Maria Sforza, che poi non si realizzò: i dispacci diplomatici lo descrivono del tutto a suo agio nel gioco cortigiano fatto di intrighi, allusioni e motteggi.
Nel 1468 ci fu un ulteriore avvicinamento al duca Galeazzo Maria Sforza, da mettere forse in relazione con l'emarginazione della duchessa Bianca Maria, che scomparve il 21 ottobre senza ricordarlo nel suo testamento. Il duca gli creò una piccola contea a Mandrino e Birolo, presso Landriano, concessione degna di nota perché da tempo il suo casato non possedeva giurisdizioni nelle terre avite; volle inoltre che il suo unico figlio sposasse la figlia del segretario Giovanni Simonetta, matrimonio che tendeva a favorire la simbiosi tra la nobiltà milanese e gli uomini nuovi introdotti dagli Sforza.
Il L. soffriva di una grave forma di gotta ed era tormentato da evidenti gonfiori; mentre si trovava a Landriano, nel luglio 1468, si ammalò gravemente e fu ritenuto assai prossimo alla morte. Non volendo mancare l'occasione per onorare uno dei suoi favoriti, il duca interpellò il sescalco Giovanni Giapano, che preparò un piano per esequie tali "de farli honore in questo suo ultimo fine". Troppa precipitazione: il L. inaspettatamente guarì e visse ancora per tre anni.
La lettera citata è comunque interessante per le notizie che dà sul suo stile di vita: lo splendore aristocratico, i fasti familiari, le clientele numerose, le amicizie stabilite in tutte le corti d'Italia, il gusto particolare per le delizie cortigiane. Da perfetto uomo di corte, il L. non aveva trascurato le imprese militari e pare che in un'occasione fosse stato posto a capo dell'esercito visconteo; inoltre possedeva una collezione strabiliante di "arme e divise" che avrebbero ben figurato alle esequie. Come già Simonetta, anche Giapano non mancava di ricollegare il L. al ricordo dei bracceschi e suggeriva al duca di dargli sepoltura nella sagrestia del duomo, nel luogo dal quale Francesco Sforza aveva voluto fosse estirpata la tomba dei Piccinino. Il rango del L., concludeva la lettera, esigeva funerali fastosi a dispetto del caldo estivo e dell'epidemia di peste che opprimevano Milano.
Ripresosi dalla malattia, il L. ritornò alle sue abitudini disordinate e gaudenti; gli ambasciatori ricordano i doni di cani e sparvieri che inviava al Gonzaga, ricambiati con omaggi e prelibatezze di ogni sorta. Ma gli stravizi e l'aggravarsi della gotta lo ridussero presto in condizioni precarie e il 1° nov. 1471 fece un nuovo testamento, nominando erede universale l'unico figlio (qui ricordato con il doppio nome Albertino Iacobino, omaggio all'avo materno e a Piccinino) e mostrandosi particolarmente generoso verso la moglie, a cui riconosceva la cospicua dote di 10.000 ducati, i gioielli, l'usufrutto dei beni mobili e immobili e la quarta parte del suo patrimonio. Tra gli esecutori testamentari, con la solita esagerazione, il L. nominava principi, alti dignitari, vescovi e cardinali a cui raccomandava una sua lite vertente in Curia di Roma.
Morì nella notte tra il 2 e 3 nov. 1471.
Pochi giorni dopo donna Ludovica si affrettava a invocare la protezione dei Gonzaga e degli Estensi per la "sua facenda" romana, preoccupata per le trame di certi potenti nemici. Nel 1492 l'erede del L., Alberto, fu accusato dal suocero Giovanni Simonetta di aver dilapidato i beni paterni precipitando in un vortice di cause e liti. Il magnifico palazzo di S. Protaso in Campo fu requisito e negli anni Ottanta fu ulteriormente valorizzato dalla sua contiguità al nuovo quartiere cortigiano voluto da Ludovico Maria Sforza, che lo donò dapprima a Filippino Fieschi, capitano del castello di Porta Giovia, e poi a Marchesino Stanga.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Milano, Sforzesco, 21; 667 (lettera del L. del 7 sett. 1456); 1101 (lettera di G. Simonetta, 15 genn. 1492); Notarile, 509-513 (notaio A. Cagnola vari rogiti a suo nome); 1007 (notaio P. Brenna testamento del L.); Autografi, 205 (lettera di G. Giapano); Carteggio degli oratori mantovani alla corte sforzesca(1450-1500), I-IV, a cura di I. Lazzarini; VI-VIII, a cura di N. Covini, Roma 1999-2001, ad indices; un'ampia scheda è in nota a P.C. Decembrio, Vita Philippi Mariae, a cura di F. Fossati, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XX, 1, pp. 355, 397-399 n., 438 n.; G. Simonetta, Rerum gestarum Francisci Sfortiae commentarii, a cura di G. Soranzo, ibid., XXI, 2, pp. 144, 180; G.P. Cagnola, Storia di Milano, in Cronache milanesi, a cura di C. Cantù, in Arch.stor. italiano, s. 1, 1842, t. 2, p. 64; L. Osio, Documenti diplomatici tratti dagli archivi milanesi, III, Milano 1872, ad ind.; Gli atti cancellereschi viscontei, a cura di G. Vittani, I-II, Milano 1920-29, ad indices; G.P. Bognetti, Per la storia dello Stato visconteo, in Arch. stor. lombardo, LIV (1927), pp. 317, 328; B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, Milano 1978, pp. 1170, 1198; E.S. Piccolomini, I commentarii, a cura di L. Totaro, Milano 1984, p. 38; Acta Libertatis Mediolani, a cura di A.R. Natale, Milano 1987, ad ind.; F. Calvi, Famiglie notabili milanesi. Cenni storici e genealogici, Milano 1875-85, III, tav. VIII; A. Colombo, L'ingresso di Francesco Sforza a Milano, in Arch. stor. lombardo, XXXII (1905), vol. 2, p. 59 n.; G. Bascapè, Storia di Landriano e dei suoi feudatari, Landriano 1924, pp. 24-26, 85, 99 s. e passim; F. Fossati, Per il commercio delle armature e i Missaglia, in Arch. stor. lombardo, LIX (1932), pp. 290 s.; F. Cognasso, Il Ducato visconteo da Gian Galeazzo a Filippo Maria, in Storia di Milano, VI, Milano 1955, pp. 325, 340-342, 349; Id., La Repubblica di S. Ambrogio, ibid., pp. 400 s.