LOMONACO, Francesco
Nacque il 22 nov. 1772 a Monte Albano (oggi Montalbano Jonico), città a giurisdizione feudale della provincia di Basilicata, da Nicola e da Margherita Fiorentino.
Il padre, figlio di un umile "mastro sartore", addottoratosi in utroque iure presso lo Studio di Napoli nel 1752, rivestì la carica di governatore presso l'"università" di Tursi, entrando così a far parte della ristretta cerchia di notabili a cui competeva il controllo e la gestione degli organi di governo delle comunità. Diversa era invece l'estrazione sociale della madre, appartenente a una delle famiglie più in vista di Monte Albano, i cui membri da generazioni si erano distinti nell'esercizio dell'avvocatura come anche per la ricchezza accumulata, prevalentemente frutto della gestione, quali affittuari, di estesi possedimenti terrieri di pertinenza sia feudale sia comunitaria. Non a caso, in occasione della visita di Carlo di Borbone a Monte Albano, nel 1735, l'unico palazzo reputato atto a ospitare i sovrani e i dignitari al seguito era stato quello dell'avvocato Giambattista Fiorentino, padre di Margherita. L'ascesa dei Lomonaco dipese in particolare dalle scelte di ordine patrimoniale compiute fra la fine degli anni Trenta e gli inizi degli anni Cinquanta del XVIII secolo da uno zio del L., Ferdinando. Questi, sacerdote "partecipante" del capitolo parrocchiale della locale chiesa di S. Maria dell'Episcopio, che era di natura "ricettizia", poté infatti fare affidamento su cospicui proventi derivanti dalla gestione diretta e indiretta di parte dei beni di quell'istituto, garantendosi nel contempo una posizione sociale di rilievo. Facendo leva su quelle rendite, don Ferdinando Lomonaco acquisì una serie di proprietà urbane e rurali di un certo valore (compreso quello che diventerà il palazzo di famiglia), che poi, secondo un criterio di trasmissione di tipo rigorosamente agnatizio, donò nella loro interezza al fratello maggiore, padre di Francesco.
Il L. compì i primi studi nel paese natio sotto la guida del canonico N.M. Troyli, il quale, oltre a essere stato in rapporti epistolari con il cardinale G.V. Ganganelli (poi Clemente XIV), fu a lungo in fitta corrispondenza con il biblista ed epigrafista A.S. Mazzocchi, a cui forniva informazioni sui reperti archeologici delle aree limitrofe a Monte Albano.
Di una casata fra le più illustri della provincia, per talenti espressi e per condizione finanziaria, il Troyli era nipote di quel monsignor Fabio Troyli, avvocato concistoriale e poi vescovo di Catanzaro e Minervino, che nel 1724 aveva pubblicato presso l'editore napoletano Muzio, un'operetta latina su questioni ecclesiastiche, e di quel Placido Troyli che, tra 1747 e 1752, aveva dato alle stampe una Istoria generale del Reame di Napoli, repentinamente ascesa a notorietà. Fondatore di una scuola riservata ai soli esponenti della locale élite, nel suo magistero accumulò una vasta e aggiornata biblioteca, che di sicuro consentiva ai suoi allievi letture non dissimili da quelle possibili in contesti culturali più vivaci e dinamici. Tra i libri dell'abate Troyli non mancavano, infatti, di esservi opere quali quelle di G. Vico, A. Genovesi, G. Filangieri, come pure di S. Pufendorf, F.M. Pagano, P. Napoli-Signorelli.
Dopo la morte del maestro (1788) il L. lo sostituì nell'insegnamento fino al 1790, quando lasciò la Basilicata alla volta di Napoli, nell'intento di completare la sua formazione presso quella Università, dove insegnava anche un cugino per parte materna, Nicola Fiorentino, matematico e giureconsulto poi vittima della reazione borbonica per l'adesione all'esperimento rivoluzionario del 1799. Infatti, il 25 ott. 1790 il L. dichiarava di essere un "istituista" nel registro delle "matricole" del cappellano maggiore. Preso alloggio nel quartiere di S. Sebastiano, inizialmente partecipò alle affollate lezioni di diritto di F.M. Pagano, ma ben presto si appassionò agli studi di medicina, orientando così i suoi interessi in direzione ben diversa.
Forse proprio allora iniziò a stendere l'operetta dal significativo titolo di Ippocrate, reperibile ancora all'inizio del secolo XX ma oggi introvabile; e forse, proprio sull'onda di questo nuovo fervore scientifico, sempre in quel frangente iniziò a partecipare alle sedute che si tenevano nell'Accademia di chimica di C. Lauberg e A. Giordano, trasformatasi ben presto in un vero e proprio noviziato per i futuri giacobini.
Erano questi, per Napoli, gli anni in cui si chiudeva la stagione riformatrice, a seguito anche del clima di persecuzione poliziesca diffusosi con la caduta della monarchia in Francia e la condanna a morte di Luigi XVI, per opera innanzitutto della regina Maria Carolina d'Austria, cui però non mancò il sostegno del primo ministro, J.F.E. Acton. Tra le vittime della violenta ondata di perquisizioni che ne derivò è probabile che vi fosse anche il L.: fra i menzionati nella documentazione superstite concernente le "processure" per la congiura sventata in Napoli nel 1794 compare infatti un certo "Monaco", definito studente, che potrebbe essere stato il giovane Lomonaco.
Con la fuga di Ferdinando IV di Borbone in Sicilia e l'ingresso in Napoli delle truppe di J.-E. Championnet, il L. si affacciò apertamente sulla scena politica, annunciando con un manifesto - in cui si autodefinì "cittadino sempre intento a sacrificarsi per il bene pubblico" e "garante dell'augusta verità" - l'intenzione di pubblicare un "monitore, il quale […] faccia rimbombare gli avvenimenti del mondo che più interessano lo spirito umano" (Costruire la nazione…, p. 83). Sempre nei pochi mesi della Repubblica egli dette alle stampe la traduzione dei Droits et devoirs du citoyen di G. Bonnot de Mably, corredandoli con un proprio discorso introduttivo. Una scelta editoriale, questa, volta a sottoporre all'attenzione pubblica le pagine di un autore che, insieme con J.-J. Rousseau, era ormai imprescindibile punto di riferimento per il fronte giacobino.
Il radicalismo politico del L. nell'anno VII della libertà emanò direttamente dalle idee che animavano i giacobini napoletani che, come lui, non avevano ancora conosciuto la via dell'esilio e la cui formazione politica non dipendeva - diversamente che per coloro che erano stati costretti alla fuga a partire dal 1794 - dai contatti avuti con i circoli di Francia o con le repubbliche italiche sorelle (Costruire la nazione…, p. 82). Grazie a un'errata trascrizione del suo cognome, il L. scampò all'eccidio seguito al ritorno del Borbone, ma dopo la real determinazione del 1° ag. 1799 dovette prendere la via dell'esilio; sorte diversa ebbe il fratello Luigi, anch'egli macchiatosi di colpe rivoluzionarie, che dopo alcuni mesi di latitanza rientrò fra i beneficiari dell'indulto emanato sul finire del 1800.
Sbarcato a Marsiglia con un gran numero di altri connazionali, il L. vi si trattenne sino all'ottobre 1799, per poi trasferirsi a Parigi dove il suo arrivo fu registrato il giorno 24 con la nota: "commesso in un bureau di municipalità". Qui ricevette i sussidi distribuiti dalla caserma di rue Rousselet ("une livre et demie de pain, une demie livre de vivande et une ration de bois pour l'acuisson des aliment": Rao, p. 427), cui però subito rinunciò.
Nata la seconda Repubblica Cisalpina a seguito della vittoria di Napoleone Bonaparte a Marengo, il L. lasciò la capitale francese, dove presumibilmente aveva legato con i patrioti raccolti intorno a C. Paribelli e I. Ciaia, che si sforzavano di tenere in vita le ragioni della Repubblica napoletana presso le locali autorità. La sua presenza è attestata a Milano l'11 ag. 1800, quando fece richiesta di "un qualche impiego che lo sollevi dalla miseria" (Costruire la nazione, p. 156). Tra la fine dell'estate e gli ultimi giorni di ottobre, in concomitanza con gli sviluppi della politica bellicista del primo console, il L. pose in stampa, presso la tipografia di G. Serazzi, due edizioni consecutive del suo Rapporto al cittadino Carnot, la seconda delle quali fu annunciata da F.S. Salfi sulle colonne del Corriere milanese il 3 novembre: "l'autore ha accresciuta la mole dei fatti, i quali rendono molto più interessante ed istruttivo il di lui travaglio. […] Gli uomini di tutti i partiti potranno trovare in cotesto opuscolo delle cose, che son fatte per piccare la curiosità e per dar pascolo allo spirito" (De Francesco, La prima edizione…, p. 63).
Il 13 ag. 1801, in condizione di estrema indigenza, il L. chiese alle autorità militari del neocostituito governo cisalpino di essere arruolato come ufficiale, allegando alla domanda due dichiarazioni in cui attestò rispettivamente "di aver esercitata la carica di medico militare in tempo della repubblica napoletana" e di aver curato in Milano "il cittadino Foscolo" (Costruire la nazione…, p. 106).
Sempre in quell'anno pubblicò l'Analisi della sensibilità, ove è rintracciabile un forte richiamo alla contemporanea riflessione politica di V. Cuoco. La lettura del Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, che avviò un progressivo abbandono del radicalismo da parte del fronte patriottico italiano, spinse anche il L. a riconsiderare i suoi convincimenti. È plausibile infatti che proprio la categoria di "rivoluzione passiva" del Cuoco - che accusava di astrattezza politica i giacobini meridionali, incapaci di catturare il consenso popolare, e denunciava la totale dipendenza delle Repubbliche italiane dalle baionette francesi - portasse il L. a prendere le distanze da Mably, di cui non molti anni prima aveva tessuto le lodi: "Cosa dunque dovremmo dire dell'abate di Mably e de' suoi seguaci, i quali volevano dare le democrazie a tutti i popoli? Bisogna lodare le intenzioni filantropiche di cotesti filosofi, ma per la nostra fatalità la corruzione umana fa restare queste intenzioni nella ragione de' sogni" (Costruire la nazione, pp. 111 s.).
Nel 1802, dopo avere ottenuto (grazie all'interessamento di V. Monti) il permesso di continuare a risiedere a Milano, nonostante il decreto di espulsione dei profughi romani e napoletani dopo la pace di Lunéville, videro la luce presso la Stamperia nuova i due tomi delle Vite degli eccellentiitaliani, corredati da un sonetto dedicato al L. da A. Manzoni ("giovine di poetico ingegno e amicissimo dell'autore"). E fu sicuramente in relazione alla notorietà che gli arrise con quest'ultima fatica che il generale A. Trivulzio, ministro della Guerra, gli chiese di compilare delle biografie di alcuni tra i più gloriosi condottieri della penisola, assicurandogli un compenso di 90 lire mensili (poca cosa rispetto ai tanti debiti). Nel 1804, sul finire di febbraio, sempre dalla Stamperia nuova, uscì il primo volume delle Vite dei famosi capitani d'Italia, recensito nel Giornale italiano, probabilmente dallo stesso V. Cuoco, come "un libro destinato alla istruzione comune, ciò di cui l'Italia ha da un secolo il massimo bisogno" (Costruire la nazione, p. 156).
Da queste parole ben si comprende come le Vite vadano anzitutto intese come rispondenti all'esigenza, avvertita da gran parte degli esuli giunti in Milano, di creare una tradizione politico-culturale di tipo nazionale, che fosse un contrappeso non al modello democratico di Francia, peraltro mai rifiutato, bensì alla politica egemonica del governo d'Oltralpe. Questo, infatti, il convincimento che animò tutta una generazione patriottica, quella appunto cui il L. apparteneva, la quale a lungo tentò, tuttavia senza riuscirvi, di coniugare le ragioni della democrazia politica con quelle dell'identità nazionale.
Per l'interessamento di V. Lancetti, caposezione delle scuole militari, e di Monti, a cui il suo stato di povertà era stato segnalato da Manzoni, il L. fu nominato professore di storia e geografia presso la Scuola militare di Pavia, istituita da Napoleone sulle ceneri del soppresso collegio Ghislieri, il 7 luglio di quello stesso anno. Le lezioni ebbero inizio nell'aprile del 1806 e a inaugurare i lavori fu proprio lo stesso L., che lesse una prolusione che fece stampare dal tipografo pavese Cappelli con il titolo Discorso augurale, e di cui il Giornale italiano prontamente annunciò l'uscita. Da questo testo traspariva con chiarezza come per l'autore esistesse un forte legame fra conoscenza storica e filosofia politica; e ciò non poté non impressionare e preoccupare i suoi superiori, a cui parve di cogliere nelle tesi espresse in quelle pagine una reale ed effettiva presa di distanza del L. dall'ormai consolidato sistema di potere napoleonico.
Forse proprio per la diffidenza dovuta alle interpretazioni politiche del Discorso (il ministro della Guerra raccomandò al direttore della Scuola "di aver man forte affinché i professori non si dipartino dalle norme di Fonteneblò [sic] e dal piano provvisorio degli studi"), il L. il 15 ott. 1807, venuto a conoscenza del prestigio di Monti presso il governo napoletano, ritenne opportuno chiedergli di intervenire perché potesse fare ritorno in patria "con l'assicurazione di un decoroso impiego" (Costruire la nazione, pp. 128, 134). Era una scelta perfettamente in sintonia con quanto andava verificandosi in quel frangente, dato che la maggior parte degli esuli meridionali a Milano, dopo l'ingresso delle armate francesi in Napoli, non perse tempo nel cercare di farvi ritorno. Così fece, per esempio, lo stesso Cuoco, che dopo avere consegnato all'editore Sonzogno la nuova versione del Saggio nel 1806 lasciò definitivamente la Lombardia per assumere incarichi di governo presso Giuseppe Bonaparte. Tuttavia uguale sorte non arrise al L., le cui credenziali, dati gli orientamenti politici che lo avevano sino ad allora caratterizzato, non dovettero sembrare delle migliori. Così rimase ancora a Pavia, dove si dedicò alla sua ultima fatica, i Discorsi letterari e filosofici, dati alle stampe in Milano, presso la tipografia di Giovanni Silvestri, di sicuro prima del 10 maggio 1809.
Il Giornale italiano definì l'opera "il manuale di ognuno che brami di ben pensare, di ben sentire e di conseguenza di ben vivere"; tuttavia in pochissimi giorni essa divenne bersaglio di violente critiche, messe a punto in ambienti ministeriali (Costruire la nazione, p. 138). A preoccupare il governo cisalpino era il convincimento, espresso dal L. in maniera non molto velata nel volume, che fosse possibile far fronte al dilagare dell'autoritarismo napoleonico con una pronta costituzionalizzazione dello Stato, tale da assicurare una pratica di libertà da troppo tempo impedita. In ragione di ciò il segretario di Stato invitò il direttore generale di Polizia "a procedere con quelle misure" che riteneva più opportune "contro l'autore e contro lo smercio dell'opera"; e sempre per il medesimo motivo il direttore generale della Pubblica Istruzione, per generare contrarietà nel pubblico, fece redigere un articolo nel Giornale italiano volto a indicare i difetti dell'opera, "senza però dispandere in particolarità, onde […] non dare ad essa pubblicità maggiore" (ibid., p. 142).
Si spiegano forse così gli "atteggiamenti tristi e quasi insocievoli" assunti dal L., secondo Manzoni, nei mesi successivi alla pubblicazione del libro.
Al di là di ogni possibile congettura, è certo però che il mattino del 1° settembre dello stesso 1809, scritta una lettera al fratello e indossati "gli abiti di festa, egli uscì da casa e andò al caffè Bariletto, dove bevve un bicchiere di vino; raggiunta poi la riva del Navigliaccio presso S. Lanfranco a Pavia, luogo molto solitario, si tuffò nella corrente allora rapidissima" (I defunti di Montecitorio, in Corriere della sera, 12-13 ott. 1876). Il L. pose così fine alla sua vita.
Fonti e Bibl.: Costruire la nazione: F. L. e il suo tempo (catal.), a cura di R. Pittella, Montalbano Jonico 2000 (sulle fonti archivistiche). Sulla letteratura critica sul L. si veda la rassegna bibliografica in F. Lomonaco, Discorsi letterari e filosofici e altri scritti, a cura di F. Lomonaco, Napoli 1992, pp. 53-61. Per le pubblicazioni più recenti: A.M. Rao, Esuli. L'emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), prefazione di G. Galasso, Napoli 1992, pp. 425-441; A. De Francesco, La prima edizione del "Rapporto" di F. L. e talune prospettive di ricerca sul giacobinismo italiano, in Annali della facoltà di lettere e filosofia dell'Università degli studi della Basilicata. Anno accademico 1993-94, Potenza 1996, pp. 57-145; F. Lomonaco, Rapporto al cittadino Carnot, con la traduzione dell'opera dell'abate di Mably De' diritti e doveri del cittadino, a cura di A. De Francesco, Manduria-Bari-Roma 1999; Cinquanta anni di Unità nazionale: tra il 1861 e il 1911. Montalbano Jonico ricorda F. L., in La democrazia alla prova della spada, a cura di A. De Francesco, Milano 2003, pp. 541-549; A. De Francesco, "Nel primo giubileo del Risorgimento italiano": leggere e interpretare F. L., in Storia e vita civile. Studi in memoria di Giuseppe Nuzzo, a cura di E. Di Rienzo - A. Musi, Napoli 2003, pp. 687-708.