MAFFEI, Francesco
Figlio di Maffio, poco noto pittore vicentino, nacque probabilmente nel 1605 a Vicenza (Rossi, 1991, p. 29; Ridolfi).
Della sua famiglia si conosce ben poco: ignota è l'identità della madre, si hanno notizie di una sorella di nome Paola che andò in moglie a un Biasio Facin sarto e di un fratello, Antonio, che sposò tale Malgaretta; il M. dovette invece rimanere celibe (Brownell, pp. 10-13).
Anche la formazione artistica del M. rimane avvolta nell'incertezza; risulta infatti inverificabile la notizia riportata dall'abate Lanzi di un suo alunnato presso Sante Peranda. Piuttosto, le opere ascrivibili all'età giovanile (1620-25), come l'Ecce homo già nella collezione Venzo di Bassano del Grappa o il S. Carlo Borromeo che insegna la dottrina ai fanciulli della parrocchiale di Meledo di Sarego, rivelano una conoscenza precisa, sia pur scolastica, della maniera di Giovan Battista e Alessandro Maganza; d'altro canto questa vivace e attivissima bottega rappresentava l'unica seria possibilità che si offriva a Vicenza a un giovane desideroso di avviarsi nella pratica della pittura. La frequentazione dei Maganza funzionò, altresì, come veicolo privilegiato di promozione personale e di immissione nel giro delle committenze ecclesiastiche; le prime chiese in cui il M. risulta attivo sono infatti le stesse in cui operavano i Maganza: S. Stefano, S. Giacomo, S. Nicola. L'oratorio di quest'ultima accoglie la prima opera certa del M.: la pala con S. Nicola e l'angelo, firmata e datata 1626.
Lavoro ancora acerbo e schematico, la tela mostra tuttavia il primo tentativo del giovane artista di svincolarsi dal magistero maganzesco, soprattutto nelle parti in cui la pennellata densa dei modelli vicentini lascia il posto a tratti leggeri e chiari che sembrano discendere direttamente dalle tele veronesiane. In verità il M. fin dall'inizio tentò di allargare il suo orizzonte culturale confrontandosi con le opere dei grandi maestri veneziani che poteva vedere a Vicenza: non solo il Veronese (Paolo Caliari), ma anche Iacopo Bassano (il cui ricordo è presente nel S. Giorgio e il drago nella chiesa di S. Giorgio di Costabissara datato agli anni 1623-24), il Tintoretto (Iacopo Robusti) e Palma il Giovane (Iacopo Negretti).
Il 7 apr. 1626 il M. fu ricompensato per aver ridipinto un grande quadro col Cristo risorto che si trovava sopra la spalliera del banco della Confraternita del Santissimo nella cattedrale vicentina, opera distrutta durante i bombardamenti del 1944 (Rossi, 1991, p. 29); ugualmente perduta è la tela per la chiesa dei carmelitani di S. Giacomo, che raffigurava la Vergine e s. Simone Stock, di cui non rimane che la descrizione di Boschini. Sono invece ancora in situ due tele conservate nel presbiterio della chiesa di S. Stefano a Vicenza: un Miracolo e la Morte di s. Gaetano - entrambe basate sulle illustrazioni incise nella Vita beati Caietani Thienaei di G.B. Castaldo, pubblicata a Verona nel 1619 - e databili poco prima del 1629, anno della beatificazione di Gaetano Thiene.
La seconda opera, pur riassumendo in un unico spazio tre episodi diversi, ha un'impaginazione felice in cui lo schema controriformistico dei quadri di visione viene animato, in chiave già quasi barocca, da un'apertura luminosa sulla sinistra che manifesta l'intervento divino e nello stesso tempo controbilancia la vista dolorosa e cupa del trapasso; la precisa descrizione fisionomica dei volti dei dolenti si rifà invece alla ritrattistica lagunare, da Palma a Giovanni Demio, più che a quella lombarda di G.B. Crespi, detto il Cerano, per l'influenza del quale bisognerebbe ipotizzare un viaggio a Milano assolutamente non documentato, come d'altro canto il più volte evocato soggiorno a Mantova (Rossi, 1991, pp. 9 s., 125 s.).
L'inizio del quarto decennio è segnato dalla morte, nel 1632, di Alessandro Maganza e conseguentemente dal progressivo e poi definitivo svincolarsi del M. dall'attività e dagli stilemi di quella bottega, che sostituì subito con lo studio della pittura veneziana del Cinquecento, disegnando, copiando e attualizzando le opere di Tiziano e del Veronese, quest'ultimo evocato in maniera diretta, per quanto ancora didascalica, nei Martiri di Nagasaki e nella Madonna col Bambino in gloria e santi della chiesa di S. Francesco a Schio.
In queste prove il M. è ormai lontano dalle atmosfere cupe e fumiganti dei Maganza; le sue pennellate sono veloci, intrise di colori vivaci - gialli limone, fucsia, rossi accesi, arancioni - forse ispirati al gusto cromatico di Andrea Vicentino.
Nel 1635 il M. ebbe l'incarico di eseguire una tela allegorico-celebrativa in memoria di Agostino Nani, destinata al palazzo del Capitanio di Vicenza. La tela, andata perduta, era la prima commissione pubblica civile a Vicenza, indice dell'ormai completata affermazione dell'artista in ambito locale.
Lo conferma un inventario del 2 giugno 1636, con relativa stima di opere pittoriche appartenenti alla Confraternita di S. Nicola di Vicenza, in cui il M. si firmava qualificandosi come "pictor" (Brownell, p. 88 doc. 3).
Nel 1638, alla morte di Sante Peranda, il M. fu incaricato di portare a termine il Paradiso che il pittore veneziano aveva iniziato a dipingere sul soffitto della chiesa degli Incurabili a Venezia (Ridolfi).
Non è noto per quali vie egli fosse riuscito a farsi conoscere nella piazza lagunare e quali fossero i suoi reali contatti con la bottega di Peranda, che Lanzi riteneva il primo maestro del M.; e del resto le opere in questione sono andate disperse. Un legame più solido può invece essere scorto nella committenza: la chiesa degli Incurabili infatti apparteneva, come l'Oratorio vicentino di S. Nicola, all'Ordine dei teatini, per il quale il M. aveva già lavorato a Vicenza nella chiesa di S. Stefano (Puppi, p. 151). Fatto sta che il soggiorno veneziano fu decisivo per la completa maturazione in direzione barocca dello stile del M., che si dedicò ancora e assiduamente allo studio dei maestri del passato, come il Veronese (l'Adorazione dei magi del duomo di Vicenza del 1640 circa non è che una libera interpretazione della versione del Veronese nella chiesa di S. Corona) e soprattutto il Tintoretto che, poco presente a Vicenza, dovette essere per il M. una vera e propria rivelazione: le composizioni grandiose e riccamente articolate, la tensione dinamica delle scene, le torsioni dei corpi, gli scorci arditi, i forti contrasti luministici del Tintoretto manierista divennero gli elementi basilari di una nuova grammatica stilistica che il M. stava proprio allora elaborando e definendo, confrontandosi anche con le soluzioni figurative dei pittori della cosiddetta corrente "rinnovata", Domenico Fetti, Johann Liss e Bernardo Strozzi (quest'ultimo a Venezia dal 1633).
Scarsissimi sono i documenti che riguardano il M. tra il 1637 e il 1644 (Rossi, 1991, p. 29); eppure sono proprio quelli gli anni che segnano la sua definitiva maturazione.
Messi a frutto gli studi giovanili, egli sviluppò una personale cifra stilistica, in cui le componenti anticlassiche si arricchivano e si individualizzavano nell'adozione di precisi e inequivocabili dettagli, quali i rigonfiamenti delle vesti, le discese a capofitto di angeli e dei, la materia sensuosa e grassa. Lo si vede bene nella Visitazione della chiesa di S. Maria Elisabetta di Arzignano, databile all'inizio del quinto decennio, in cui il prototipo manierista (il Tintoretto della sala superiore della Scuola di S. Rocco o, forse, Palma il Giovane nella chiesa di S. Nicola da Tolentino) fu trasformato in una macchina scenografica protobarocca dall'irrompere impetuoso, nella parte alta della tela, di un Padre Eterno che scende in volo accompagnato da un nugolo di angioletti appena abbozzati.
Al 25 sett. 1644 è datato un mandato di pagamento a favore del M. per la Glorificazione del podestà Gaspare Zane destinata alla sala del Consiglio del palazzo del podestà di Vicenza, ora al Museo civico (Ivanoff, 1942, p. 71).
Quest'opera è la prima di una lunga serie di tele di soggetto celebrativo ed encomiastico che avevano l'obiettivo di perpetuare nella provincia veneta la tradizione dei teleri civici di palazzo ducale, con l'identica funzione di esaltare la stabilità e l'efficienza del governo e dell'amministrazione periferica della Serenissima. Il M. subentrò così ai Maganza nel ruolo di pittore ufficiale nei palazzi pubblici vicentini e in questa veste dovette attenersi, per quanto possibile, alle linee generali dettate dalla funzione e dalla tradizione del genere. D'altro canto, come ha puntualizzato Pallucchini (1981), il genio del M. e la sua fervida fantasia, già di per sé inclini a soluzioni ricercate e inconsuete, sembrano adeguarsi senza drammi alla pittura allegorica, all'uso della metafora e del simbolo. Nello stesso anno, il M. eseguì due teleri con il Giudizio universale e il Paradiso, già nella chiesa di S. Francesco Grande a Padova, ora perduti (Rossi, 1991, p. 29). Suggestioni tintorettiane si avvertono in altre opere del quinto decennio: dall'Allegoria del Tempo e della Fama del Musée départemental de l'Oise di Beauvais (1645-46) all'Ultima cena di Verona (Museo di Castelvecchio; 1645-47) e a quella di Verolanuova (S. Lorenzo, 1648-49).
Tra il 1645 e il 1646 il M. realizzò la grande tela con la Traslazione delle spoglie dei ss. vescovi di Brescia Dominatore, Paolo, Anastasio e Domenico nel duomo vecchio di Brescia, realizzata forse per monsignor Giacomo Pilotti, canonico del duomo e molto legato alla famiglia Gambara, che coltivava un culto speciale per s. Carlo Borromeo (Boselli).
La lunga processione ecclesiastica - tema caro all'arte postridentina - si snoda su tutta la larghezza del dipinto sullo sfondo della piazza del duomo e del castello; mentre la folla in secondo piano è solo suggerita dalla fitta ripetizione dei volti, i personaggi principali sul fronte sono ben caratterizzati e tra essi si distingue s. Carlo Borromeo che precede il baldacchino sorreggendone un'asta. Allo spazio chiuso e stipato della terrena processione si contrappone in alto lo spazio aperto del cielo in cui gli angeli, colti in movimenti vorticosi, sono figure quasi chimeriche, disfatte nella luce e nel colore. L'atmosfera in cui sfila il corteo è dunque irreale, frutto di una fantasia eccitata, vicina a quella di El Greco (Domenico Theotokopulos), ma non fino al punto da stravolgere i contenuti tradizionali che sono invece perfettamente in linea con le istanze religiose del tempo. La stessa inclinazione verso il patetismo allucinato, cara anche a gran parte della pittura lombarda di inizio Seicento, ritorna con accenti ancor più forti nel Miracolo di Ezzelino (Brescia, S. Francesco), di poco successivo.
A meno di due anni di distanza dall'esecuzione della tela vicentina per Gaspare Zane, il M. si cimentò nuovamente nel genere celebrativo con una serie di tele, di carattere insieme civico e religioso, destinate alla Rotonda di Rovigo (chiesa della Beata Vergine del Soccorso), lavoro che lo tenne occupato per quasi un decennio.
In quel periodo realizzò la Presentazione della Vergine al tempio (1645 circa), la Glorificazione del rappresentante di Venezia Giovanni Cavalli (1646), l'Incoronazione della Vergine (1646-49), la Glorificazione del rappresentante di Venezia Bertucci Civran (1649) e la Glorificazione del rappresentante di Venezia Sante Moro (1653). Lo schema compositivo delle Glorificazioni si allinea alla finalità commemorativa del programma (si tratta di tele offerte come ex voto dai magistrati che lasciavano la carica), in cui si metteva in scena la glorificazione del rappresentante alla presenza della Madonna col Bambino, di altri santi e di figure allegoriche che ne esaltavano le virtù; ma, al di là del soggetto, tutt'altro che innovativo nel ricalcare le orme del ritratto di gruppo cinquecentesco, di queste tele sorprendono la materia pittorica, quasi impalpabile, la luminosità dei colori (bianco e rosa che si alternano in un gioco di emulazione veronesiana), la pennellata veloce e irrequieta che molto deve a Fetti, i movimenti fluidi dei personaggi, allungati e contorti, che vengono dal Tintoretto ma anche, senz'altro, dalle incisioni parmigianinesche mediate da Andrea Schiavone (Andrea Meldolla). Pure nelle più tarde Glorificazioni vicentine - quella di Alvise Foscarini inquisitore del Monte di pietà e del Podestà Girolamo Priuli (Vicenza, Museo civico), entrambe del 1649 (Rossi, 1991, p. 30) - fino alle ultime - quelle del Podestà Alvise Foscarini del 1655 e del Podestà Tommaso Pisani del 1656 (Vicenza, Museo civico) - il M. lasciava libero spazio alla sua fantasia, spostando l'attenzione sui dettagli, spesso di garbata naturalezza, e sulla ricchezza cromatica della pennellata. In queste tele civiche si coglie inoltre la particolare fisionomia del M. ritrattista, meglio documentata in tali inserti che non nei ritratti singoli (ma fa eccezione il raffinatissimo Ritratto di Giambattista Bufalini della Staatsgalerie di Stoccarda, databile agli anni Cinquanta): infatti i volti di questi rispettabili cittadini o di autorità locali, soprattutto le loro espressioni forzate ed eccitate, confermano l'inclinazione del M. verso il bizzarro e il grottesco.
Tra il 1646 e l'inizio di febbraio del 1648 il M. realizzò, con l'aiuto della bottega, un complesso di affreschi, ventotto figure monocrome in terretta gialla raffiguranti divinità olimpiche e allegorie, sulle pareti della sala dell'Odeo nel teatro Olimpico di Vicenza (Rossi, 1991, pp. 146 s.). Documenti del 1647 certificano che in quell'anno il M. stava lavorando alla tela con l'Angelo custode (Verolanuova, S. Lorenzo), per monsignor Pilotti, opera consegnata solo nel gennaio 1650.
Nel 1648 un suo dipinto raffigurante il Beato Giovanni da Schio, oggi perduto, fu collocato nella cappella di S. Raimondo della chiesa di S. Corona di Vicenza (ibid., pp. 29 s.). Due anni dopo, la banca e il capitolo dell'ospedale di S. Marcello a Vicenza decisero di affidargli il compito di completare la decorazione, andata perduta, del salone dell'ospedale (Brownell, pp. 90 s. doc. 8).
La produzione del M. del sesto e settimo decennio rivela un approfondimento in direzione melodrammatica della narrazione, agitata da una furia espositiva che si esplica con particolare incisività nella Figlia di Iefte del Museo del Castello del Buonconsiglio a Trento, nell'Orfeo ed Euridice dell'Accademia dei Lincei a Roma e nel Martirio di s. Bartolomeo della parrocchiale di Carpenedolo (nel Bresciano).
Il 7 febbr. 1653 il "pitore Maffei" fu nominato come creditore in attesa di pagamento da parte della Confraternita dell'Ospedale di S. Marcello (Brownell, p. 91 doc. 8). La data 1653 compare inoltre sul retro della Madonna col Bambino tra i ss. Giuseppe e Giovannino del Museo civico di Feltre.
Poco prima del 1655 il M. lavorò nell'oratorio delle zitelle a Vicenza, dove realizzò un ciclo pittorico conservato oggi al Museo civico, comprendente la Visitazione, il Riposo durante la fuga in Egitto e l'Assunzione.
Pur conservando l'ossatura formale manieristica, il M. adotta il suo lessico preferito: sfrangia i contorni delle figure e stende una materia pittorica grassa e capace di riflettere la luce gemmea, esaltata dagli accostamenti complementari delle tinte.
Nel gennaio 1655 il M. fu incaricato di eseguire la già ricordata Glorificazione del podestà Alvise Foscarini, per la sala del Consiglio del palazzo del podestà di Vicenza. Nello stesso anno dipinse e datò il Miracolo di Cordova per l'oratorio di S. Nicola da Tolentino di Vicenza, la cui decorazione pittorica, che lo vide lavorare al fianco del veneziano Giulio Carpioni, si protrasse per altri due anni, con i Miracoli di Perugia e di Foligno (1656) e il S. Nicola e le anime del purgatorio (1657). Nel 1656 fu pagato 130 ducati per la Glorificazione del podestà Tommaso Pisani, per il palazzo del Podestà vicentino (Rossi, 1991, p. 30).
Il 19 maggio 1657 il M. scrisse di suo pugno una lettera da Padova a un destinatario non precisato, identificabile probabilmente in Bonifacio Pergola, relativa a una trattativa di vendita di alcuni dipinti del Maffei. La lettera testimonia la presenza del M. a Padova, dove si trasferì all'inizio del 1657, forse per sfuggire alla concorrenza sempre più pressante di Carpioni, e dove passò gli ultimi anni della sua vita.
Nel giugno del 1658 fu pagato per "haver dipinto il cielo del baldachino della cupola maggior" della basilica del Santo di Padova (ibid., p. 31). Questa pala, perduta, risulta terminata nel 1659, mentre altri pagamenti sono noti al gennaio 1660. Sempre nel 1658 stimò la Gloria di casa Selvatico del Padovanino (A. Varotari) di villa Selvatico a Battaglia Terme.
Della fine del sesto decennio è la grande tela per S. Benedetto (ora S. Giustina) con Mosè fa scaturire l'acqua dalla roccia, fantasmagorica macchina pittorica di sapore ancora tardomanierista, in cui è evidente la suggestione indelebile dei chiari colori veronesiani. Le ultime opere del M., per le chiese padovane di S. Tommaso Becket (ciclo di tele sul soffitto con i Misteri del Rosario, cui collaborarono altri tre artisti: Marcantonio Bonaccorsi, Luca Ferrari e Giovanni Battista Pellizzari) e dell'Immacolata (due tele con S. Giovanni a Patmos e il Crocifisso), mostrano comunque una maggiore robustezza nel disegno e nell'impianto plastico delle figure.
In particolare nella Crocifissione della chiesa S. Tommaso Becket la sua visione assume una forma monumentale e, nel contempo, un tono più drammatico, per la scelta di tinte cupe e fortemente contrastate. Una pittura ancor più scura e drammatica caratterizza i cinque ovali con episodi mitologici (al centro Prometeo con lo specchio e l'aquila, ai lati Dedalo e Icaro, Prometeo liberato, Perseo con la testa di Medusa e Andromeda legata allo scoglio) eseguiti intorno al 1658 per il soffitto di casa Nani a Venezia e ora nella sala di Gregorio Lazzarini in Ca' Rezzonico.
Il M. morì a Padova il 2 giugno 1660, giorno in cui la parrocchia di S. Giorgio ne registra la morte, di "anni 55", e la sua sepoltura nella chiesa del Santo (Puppi, p. 158 doc. 3). La data coincide con quella indicata nel necrologio dell'ufficio della Sanità, in cui si aggiunge che il M., "pittore vesentin", era stato "amalato di febre e fistolo" (Rossi, 1991, p. 31).
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