FRANCESCO MARIA della Rovere, duca d'Urbino
Nato nel 1490 da Giovanni della Rovere prefetto di Roma e da Giovanna, figlia di Federico duca d'Urbino, morì a Pesaro il 20 ottobre 1538. Educato da prima nella severa corte paterna di Senigallia, passò, alla morte del padre (1501), nella corte splendida dello zio Guidobaldo d'Urbino, mentre Cesare Borgia toglieva alla madre sua Senigallia. Adottato da Guidobaldo nel 1504, gli succedette nel 1508, aggiungendo al ducato Senigallia ricuperata. Capitano generale delle milizie dello zio Giulio II contro Venezia nel 1509 e contro Ferrara nel 1511, non s'illustrò per grandi fatti; vide nel 1511 sotto i proprî occhi ribellata al papa Bologna e si ritirò a furia, perdendo artiglierie e bagagli. Del disastro si palleggiarono la responsabilità, non incolpevoli forse entrambi, F. e il cardinale legato Alidosi, che il duca, furente per le accuse mossegli innanzi al papa, uccise di sua mano in Ravenna (22 maggio 1511). Tradotto in giudizio, per volere del papa fu assolto, e da Giulio II morente ebbe, in compenso di crediti suoi, Pesaro (20 febbraio 1513), che divenne sua sede. Leone X lo confermò capitano generale della Chiesa, ma lo sostituì poi con Giuliano e con Lorenzo de' Medici. E F., trascurando il suo dovere feudale, non volle partecipare all'impresa di Lombardia contro l'assalto dei Francesi (1515), anzi diede favore a questi, sicché il papa lo dichiarò per fellonia decaduto dal suo stato, che fu conquistato con poca fatica e dato a Lorenzo (1516). Ma F. riuscì con un colpo di mano a riconquistare il ducato (1517) e tenne fronte otto mesi all'esercito papale. Conchiuso poi un accordo, si ritrasse a Mantova, aspettando e preparando tempi migliori. Alla morte di Leone (1521), ricuperò pressoché tutto lo stato e, avendo difeso a Rimini il dominio della Chiesa, ebbe da Adriano VI l'investitura del ducato (1523). Fu allora governatore generale delle armi dei Veneziani e mandato da questi in aiuto agl'imperiali in Lombardia (1523-24), dove contribuì a ridurre all'estremo i Francesi, pur risparmiando l'esercito, e da Venezia ebbe per questo la nomina a capitano generale. Di nuovo in Lombardia nel 1525, provvide solo alla difesa del dominio veneziano. Conchiusa la lega di Cognac, dimostrò, innanzi alle sollecitazioni del Guicciardini, fredda prudenza: dall'assalto contro Milano (7 settembre 1526) si ritrasse quasi in fuga e non riuscì a salvarne il castello. Né impedì che i lanzichenecchi passassero il Po, e difese bensì Firenze, domandovi anche una sommossa contro i Medici, ma seguì da lontano lentamente la valanga, che piombava su Roma: nei giorni del sacco era in quel di Perugia e a Orvieto (maggio 1527). L'egoismo dei collegati, la timidezza di Clemente VII, la scarsità, l'indisciplina, l'avidità delle milizie giustificavano in parte il suo contegno; ma non è fuor di luogo il sospetto che i suoi indugi si dovessero anche alla ruggine antica fra lui e i Medici. Combatté ancora gl'imperiali, espugnando Pavia; e dopo la pace di Barcellona (1529) protesse lo stato veneziano. Nei patti di Bologna fu dall'imperatore riconosciuto come duca. In conflitto con Paolo III per avere fatto sposare al figlio Guidobaldo l'erede del ducato di Camerino (1534), ebbe poi sicurtà per l'impresa contro i Turchi. In questa era designato capitano delle forze di terra, quando morì. Lodato per religione, per onestà di costume, giustizia, prudenza, abile organizzatore di milizie, maestro della nuova arte del fortificare, ebbe fama di capitanio in le fasse, ma emulò con poca fortuna e poca gloria il temporeggiare di Fabio. Fu scarsamente colto e assai inferiore nel mecenatismo agli antecessori.
V. tav. CLXXVIII.
Bibl.: G. B. Leoni, Vita di F. M. di Montefeltro della Rovere, Venezia 1605; R. Marcucci, F. M. I. d. R., parte 1ª (1490-1527), Senigallia 1903; articoli in Arch. storico italiano, s. 5ª, XLVII (1911), p. 144 segg. e in Arch. della R. Soc. rom. di st. patr., XXXIX (1916), p. 548 segg. Cf. anche le opere del Reposati, del Dennistonn, dell'Ugolini sui duchi di Urbino e Pastor, Storia dei papi, Roma 1925 segg., III-V.