GIANNI, Francesco Maria
Nacque a Firenze il 4 nov. 1728, figlio secondogenito di Nicolò Francesco, di nobile e antica famiglia fiorentina (nel 1751, con la nuova legge sulla nobiltà, fu ascritta al patriziato cittadino) e di Anna Clarice Mannelli, figlia del senatore Iacopo. Il padre, all'inizio del secolo tra i segretari del granduca Cosimo III, si era poi dedicato soprattutto ad amministrare e incrementare il non piccolo patrimonio fondiario della famiglia, che alla sua morte andò poi al G., vista la professione religiosa del primogenito, Giuseppe Maria, e delle due sorelle Maria Angela e Maria Elisabetta, e la rinunzia dei fratelli Giovanni e Luigi.
Assai scarsi sono i dati relativi alla sua gioventù e alla sua educazione. In seguito il G. attribuì all'erronea guida del padre e al proprio carattere manchevolezze nella propria istruzione, e una ristrettezza di vedute che l'avrebbe portato all'impiego pubblico in un'ottica strumentale, di guadagno e "decorazione". Diversamente da altri protagonisti della vicenda delle riforme e da molti alti funzionari, non risulta aver frequentato le istituzioni educative toscane più prestigiose, quali lo Studio fiorentino o l'Università pisana e, per quanto finora noto, non fu membro di alcuna accademia.
Forse anche questo spiega la difficoltà di riportarlo a un universo culturale preciso e d'inserirlo nel quadro di letture e dibattiti proprio dei contemporanei più significativi. Un'indicazione sulla sua formazione si trae forse da un passo - poi cassato dalla censura - della prima stesura del necrologio a lui dedicato nel Supplemento allaGazzetta di Firenze (Arch. di Stato di Firenze, Carte Gianni, f. 9, ins. 148), che accenna a una prima giovinezza dedicata a "intendere l'aritmetica in genere, e la particolarità dei negozianti con addentrarsi altresì nel giro di Banca e nella scrittura applicando quest'ultima ad amministrazioni civili ideate d'ogni maniera".
Una preparazione ragionieristico-commerciale, quindi, che parrebbe giustificare il suo ingresso negli impieghi, il 27 maggio 1750, come aiuto soprannumerario nell'Ufficio dei soprassindaci (magistratura preposta al controllo della contabilità degli uffici finanziari), a cui nell'agosto seguì il passaggio ad aiuto effettivo. In giudizi successivi appare ambizioso, impegnato e competente, e questo spiega in parte la rapidità della carriera: nel 1754 entrò nell'amministrazione dell'appalto delle finanze (allora gestito dalla compagnia Diodati) come direttore della dogana di Pisa, carica che occupò fino al 1759.
Frattanto, il 26 dic. 1753, aveva sposato Maria Alessandra de' Medici, figlia di Pietro Paolo, senatore e patrizio fiorentino, la quale nell'agosto precedente gli aveva dato il primo figlio, Ridolfo Maria, cui seguiranno poi Anna Maria Maddalena (1755) e Niccolò Maria (1762), tutti morti prima di lui.
In seguito il G. pose in quel periodo pisano la propria "rigenerazione" (Diaz, p. 6), affermando che a Pisa e a "certi suoi buoni amici" doveva l'approfondirsi dei suoi interessi su temi di finanza e commercio e lo stimolo a una raccolta sistematica d'informazioni sull'economia toscana. Di fatto sembra che a Pisa stringesse rapporti con un prestigioso lontano parente, l'abate marchese Antonio Niccolini, esponente importante e influente della cultura politica e religiosa toscana alla metà del Settecento. A lui dovette, come poi affermò, i contatti con personaggi di rilievo non solo in ambito pisano, quali Gaspero Cerati e Paolo Frisi. Segno del livello delle sue conoscenze e competenze è il riconoscimento del debito verso la sua "amicizia e attività" espresso da Gian Rinaldo Carli nell'inviare a Iacopo Stellini il proprio Saggio politico ed economico sopra laToscana, steso a Pisa nel 1757 grazie alle informazioni fornite dal Gianni. Non è chiaro se le ragioni di contrasti presto iniziati tra il G. e uno dei dirigenti dell'appalto, Antonio Serristori, venissero da dissensi politici o da frizioni legate a rapporti d'ufficio e al suo carattere difficile. In ogni caso, già dal 1757 egli chiese l'appoggio del Niccolini in vista di un diverso incarico. L'abate, che s'era servito di lui per risolvere problemi nei propri rapporti con l'amministrazione dell'appalto, gli ottenne udienze dal capo del Consiglio di reggenza, il maresciallo Antonio Botta Adorno, e da Pompeo Neri, che dopo il ritorno da Milano stava divenendo l'uomo di punta del partito delle riforme entro la dirigenza dello Stato. Nel 1759 i tentativi del G. ebbero successo: il 29 agosto divenne provveditore dell'arte della seta, al vertice della magistratura che reggeva l'attività manifatturiera primaria a Firenze e nel paese. Così occupò un ufficio di punta dell'amministrazione, in stretto contatto da un lato con gli organi del governo, dall'altro con i rappresentanti degli interessi economici cittadini di maggior rilievo. La sua ascesa fu sancita nel novembre 1760 dalla nomina a senatore, allorché questa dignità fu rivitalizzata attribuendola ai titolari delle principali cariche amministrative. Tuttavia non solo la nuova posizione, ma anche la vicinanza a P. Neri e la fama di uomo capace e competente nei problemi di contabilità e finanza, lo posero prima tra gli esecutori, poi tra i programmatori delle più delicate operazioni di governo.
Per ordine del Botta Adorno, ma su iniziativa del Neri, nel 1764 andò una prima volta a Siena per ispezionare la situazione delle finanze di quello Stato. Da allora, con l'inizio d'una serie di difficoltà e carestie che travagliarono la Toscana fino al 1768, il G., del quale erano già note l'avversione al sistema vigente e le posizioni vicine ad un liberismo protezionistico - in consonanza con la nuova cultura economica che si diffondeva dagli anni di Sallustio Bandini - contribuì ai dibattiti e alle riforme relative al sistema annonario.
Nel 1776 fu di nuovo a Siena, sempre su incarico del Neri, in vista d'una riforma di quell'Ufficio dell'abbondanza, e vi tornò l'anno successivo per guidarne l'abolizione. Dopo che l'arrivo nel settembre 1765 del nuovo granduca Pietro Leopoldo, poi affiancato dal nuovo primo ministro Franz X.W. Rosenberg-Orsini, avviò un processo d'interventi che avrebbe mutato a fondo la Toscana, il G. si avviò a divenire progressivamente un protagonista. Chiamato il 25 nov. 1766 a far parte della deputazione presieduta da F. Pecci, incaricata di una generale ricognizione dello stato di agricoltura, arti e commercio nel paese, insieme con Filippo Neri (fratello di Pompeo) e Angelo Tavanti provvide a predisporre i quesiti relativi alle arti. Nei dibattiti che seguirono cercò d'indirizzare l'impellente riforma del caotico sistema di dazi e dogane, eredità del complesso processo storico di formazione del Granducato, verso una soluzione che compensasse la limitazione dei privilegi locali con la salvaguardia della specificità produttiva delle singole zone, attraverso il mantenimento di dazi interni. La proposta fu però respinta, data la tendenza ormai prevalente a unificare e liberalizzare il mercato interno, sancita nel 1768 da una decisione sovrana.
Nell'estate del 1767, interpellato sulla progettata riforma delle arti (che, avviata nel 1769, portò l'anno successivo alla creazione della Camera di commercio), il G. espresse contrarietà alle misure proposte, insistendo sull'opportunità di mantenere l'arte e la legislazione che tutelava la localizzazione cittadina della manifattura, sottolineando i benefici della concentrazione dell'attività, connessi all'abbondanza di manodopera (carente nelle campagne), e i suoi riflessi positivi per l'Erario, per il gettito elevato e costante delle imposizioni sui consumi.
Quello stesso agosto, mentre si recava per la terza volta a Siena, fu coinvolto insieme con F. Neri, L. Bartolini e altri in uno scandalo, presto tacitato, relativo all'appalto del lotto (nel quale era cointeressato dall'anno precedente), forse riportabile, vista l'appartenenza degli interessati all'ala riformatrice, all'aspro scontro provocato dall'avvio della riforma annonaria. L'episodio si chiuse con l'assoluzione di tutti, tranne una figura minore, e non ebbe conseguenze sulla sua posizione; dal dicembre ricoprì prima ad interim, poi (1769) stabilmente la carica di maggiordomo della Real Casa, che lo pose in continuo contatto col sovrano.
Nell'aprile 1768, lasciata la carica di provveditore, destinata all'abolizione, divenne soprintendente generale del riordinato Ufficio revisione e sindacati, che sostituiva la precedente magistratura del soprassindaco e dei sindaci, con analoghi compiti e poteri di ispezione e sorveglianza contabile sulle amministrazioni degli altri uffici, che il G. seppe sfruttare politicamente. Da allora le sue incombenze si moltiplicarono, perché fu chiamato di continuo a esprimere pareri o a intervenire in provvedimenti che richiedevano le specifiche competenze del suo ruolo. Nel 1769, per l'allivellazione delle terre dell'ospedale di Bonifazio, elaborò un modello di livello perpetuo (pur derivante da precedenti soluzioni di Giulio Rucellai), che prevedeva la libera commerciabilità del bene reso quasi allodiale, divenuto poi lo strumento tecnico per attuare la politica di derivazione popolazionista, diretta alla formazione d'una piccola proprietà contadina, favorita dapprima da Pietro Leopoldo negli anni Settanta e poi, dopo iniziali oscillazioni, sostenuta decisamente dal Gianni.
Dal 1770, con la partenza del primo ministro Rosenberg e l'effettiva assunzione della direzione del governo da parte del sovrano, si fece preminente la posizione di Tavanti, consigliere di Stato e direttore delle Finanze, affiancato da uomini a lui legati da intenti comuni quali F. Neri, membro autorevole della Camera di commercio, e A. Serristori, uno dei tre amministratori generali. Costoro, promotori d'una linea politica economica liberista riconducibile latamente alle idee fisiocratiche e uniti in un solido blocco di potere, furono per il G. i principali avversari politici, con i quali stabilì solo accordi tattici e su obiettivi parziali. Negli scontri che vi furono egli cercò appoggi facendosi interprete, a volte ambiguo, di interessi costituiti di famiglie della dominante - i proprietari, i setaioli - e, soprattutto, nel rapporto col sovrano.
Nel 1773 Pietro Leopoldo scriveva di lui: "uomo di talento, accorto e lesto, di capacità negli affari dei consigli, e delle finanze", ma anche "di testa calda, vendicativo" nonostante le "vedute buone"; "odiato universalmente", perché "fautore di novità e perché sparla e tratta male la gente disprezzando tutti"; "ottimo per il suo impiego" e per "essere sentito in tutte le cose di finanze ma senza mettervelo mai: sarebbe questo però il suo desiderio". E concludeva: "bisogna servirsene di molto per stangare, ascoltarlo, ma non seguitare né fidarsene". Questo ritratto lucido e impietoso, che conferma giudizi coevi, delinea un rapporto strumentale, che al contempo rese il G. un importante referente e una fondamentale pedina nel complesso gioco di Pietro Leopoldo per acquisire il controllo degli apparati amministrativi, in particolare finanziari; inoltre illumina di luce ambigua l'avversione al "dispotismo ministeriale" che il G. dichiarerà sempre.
Ma accanto ai dissensi esisteva un terreno d'intesa. La creazione della Camera delle Comunità, nuovo organo centrale di controllo delle amministrazioni locali, segnò un rafforzamento del processo di centralizzazione, ma quando si dovette far fronte alla disastrosa situazione economica legata al riassetto del fiume Bagnolo, non potendo la Camera gestirla direttamente, la soluzione del G., di rilasciare l'amministrazione di quella imposizione ai diretti interessati, avviò un processo di ben più ampio respiro. E l'autoamministrazione delle "ziende" comunitative da parte dei possessori, principio base della nuova riforma comunitativa, costituì un comune terreno d'intesa tra il G. e la direzione delle Finanze. Così, a partire dal 1771, si aprì una temporanea fase di collaborazione che lo vide, in stretto contatto col Tavanti, impegnato nella redazione dei nuovi statuti generali e locali, prima con l'esperimento del nuovo statuto di Volterra, poi con un ampio lavoro che richiese viaggi per tutto il Granducato e la stesura degli altri, fino all'emanazione di quello di Siena nel 1786.
L'incarico di rivedere l'amministrazione della Camera di commercio, che ebbe nel 1773, gli consentì d'intensificare l'attacco a un'istituzione già vista con diffidenza da parte del sovrano, sospettoso del formarsi di ogni centro di potere. L'attività di quest'organo di stimolo e finanziamento di iniziative imprenditoriali nel campo delle manifatture sul territorio toscano, col ruolo che cercò di assumere di centro propulsivo della diffusione di nuove tecniche, suscitò l'ostilità del G., dichiaratamente contrario a qualsiasi intervento dello Stato ma anche estremamente diffidente nei confronti di tentativi di modifica della tradizionale localizzazione dell'apparato produttivo. La sua operazione ebbe successo, soprattutto dopo la morte di F. Neri (1779), quando venuti meno gli ostacoli diretti ottenne l'abolizione della Camera e la cessazione delle sue iniziative (1781).
Nell'istituzione (1778) della prima commissione sui catasti (possibile passo verso la temuta imposizione unica sulle terre, di derivazione fisiocratica) e nella progressiva concentrazione del debito pubblico, attuata con la vendita dei patrimoni di amministrazioni ed enti e l'impiego del ricavato in luoghi di Monte, il G. vide una minaccia per la politica di allivellazioni che cercava di favorire, dato il prevedibile collegamento con una revisione e aumento dell'imposizione diretta, cui era nettamente contrario. Colse così l'occasione d'un provvedimento parziale (l'editto del 25 ag. 1778) per una prima proposta di scioglimento del debito pubblico. Si trattava di permettere ai privati di riscattare, versando luoghi di Monte, la quota d'imposizione cadente sui beni propri o di altri (in questa ipotesi la decima in vigore a Firenze e nel contado), avviando una privatizzazione dei debiti pubblici. L'ispirazione della misura - che la storiografia riferisce ad A. Hutchinson - gli venne, a quanto dichiarò, da un provvedimento di Cosimo I.
La proposta fu severamente criticata dal Tavanti e respinta da Pietro Leopoldo. Nel frattempo il G. portò avanti assiduamente il riassetto della contabilità, richiamando le singole amministrazioni a un maggior rigore, e il sovrano ricorse sempre più a lui per le questioni più delicate. Nel 1777 l'incaricò di elaborare un progetto di riforma dell'esercito che preluse all'istituzione (1780) dei corpi di guardie nazionali e di milizie civiche, che sostituirono le truppe professionali precedenti. Ma l'episodio più noto e importante iniziò nella primavera del 1779, quando Pietro Leopoldo, trasmettendogli le sue Idee sopra il progetto della creazionedelli Stati, avviò la stesura d'un progetto di costituzione del quale il G. divenne referente ed estensore. È stato sottolineato più volte come la sua prima reazione fosse di perplessità e resistenza. Il funzionario, legato a una concezione assolutistica della sovranità e permeato di una scettica e fin troppo realistica sfiducia nei propri concittadini, si muoveva su un terreno altro da quello sul quale veniva muovendosi Pietro Leopoldo nel progettare la nuova legge fondamentale. Ancora alla fine del 1782, nell'inviare al principe (atto col quale si chiuse la prima fase della vicenda) una stesura oramai quasi compiuta della bozza di costituzione, richiamava alla cautela e alla preparazione opportuna prima di compiere "un passo tanto nuovo e grande", che sarebbe potuto "diventare anche pernicioso" per un paese "punto disposto a poterla ricevere". Com'è noto, altri e complessi furono i motivi che al momento fecero recedere Pietro Leopoldo dal suo intento.
Nell'autunno del 1781, quasi contemporaneamente all'emanazione della nuova tariffa doganale, che sanciva la vittoria della politica liberista e realizzava sul piano normativo l'unificazione del mercato interno toscano, morì il Tavanti, al quale succedette il Serristori. Così il G., oramai privo di avversari alla sua altezza, vide aprirsi la possibilità di rimettere in discussione gli indirizzi della politica economica. Chiamato a far parte (1782) della nuova deputazione incaricata di esaminare il problema dei livelli e poi il rifacimento degli estimi, espresse critiche durissime sugli esperimenti fatti e sui catasti di prova da realizzare, portando avanti il principio, poi accettato, dell'opportunità di lasciare alle singole Comunità l'iniziativa di procedere a correzioni e rifacimenti senza interventi dall'alto. Nel 1784 fu emanata la Memoriaistruttiva per l'alienazione dei patrimoni pubblici, da lui stesa, atto fondamentale delle allivellazioni che precisava in via definitiva l'obiettivo della "più estesa divisione delle terre" e la scelta della concessione a livello in luogo del sistema di mezzadria come mezzo per far rifiorire l'agricoltura. Tuttavia la considerazione delle esigenze delle casse statali, in rapporto alla solvibilità dei livellari, segnarono d'una incertezza di fondo la preferenza dichiarata per chi lavorava direttamente la terra. Infine, nel 1786, il G. presentò al granduca un piano generale di riforma della finanza pubblica. Assunta come distruttiva per l'agricoltura l'imposizione sulle terre, le entrate dovevano basarsi su tassazione indiretta, dazi e dogane, e sulle principali privative regie, in primo luogo il sale. Si sarebbe dovuto procedere all'abolizione del debito pubblico (gravoso per gli interessi e i costi di gestione) sulla base della proposta del 1778 di riscatto con i luoghi di Monte, da parte di singoli e Comunità, delle quote d'imposta diretta (tassa di redenzione e altre a questa riunite) gravanti su enti pubblici e privati. Cadeva così ogni ipotesi di catasto. Si doveva poi introdurre una nuova tariffa doganale redatta in base alla bilancia del commercio, imponendo dazi sull'ingresso dei beni di consumo a tutela delle produzioni del paese, e lasciando libertà completa di esportazione. Andavano rivedute le gabelle delle città per favorirvi l'incremento delle manifatture, eliminando i residui privilegi di Firenze. Una nuova deputazione creata il 7 giugno 1786, presieduta dal Serristori ma comprendente il G., ebbe sostanzialmente l'incarico di portare avanti, non senza contrasti, questo piano e la separazione del conto dello Stato dal conto della Corona (con la conseguente riorganizzazione dei bilanci), alla quale egli lavorava per incarico sovrano dal 1779. Il 7 marzo 1788 furono emanati l'editto di scioglimento del debito pubblico, una nuova legge sul sale che ne fissava un prezzo unico in tutto il territorio e la revisione della tassa di macine, testatico ora pagabile in relazione alla capacità contributiva, che il G. avrebbe voluto abolire. Per la tariffa le resistenze furono strenue, non solo da parte degli avversari interni alla deputazione. Anche se nel 1788 egli riuscì, per la crisi di quegli anni, a far approvare provvedimenti che procedendo sulla via del protezionismo proibivano l'esportazione d'una serie di materie prime (seta, lana, pelli, cenci e altro), l'opposizione di Pietro Leopoldo a un dazio d'ingresso sulle grasce e il bestiame, che avrebbe compromesso l'immagine della Toscana come modello di libertà del commercio, portò a una situazione di stallo che alla partenza del sovrano non era ancora risolta.
Il G. si differenziò dalle posizioni del granduca anche nelle vicende relative a Scipione de' Ricci, e in particolare quanto ai provvedimenti di creazione dei patrimoni ecclesiastici, verso i quali esercitò una critica severa dal punto di vista della buona amministrazione, anche se il cattolicesimo ortodosso al quale fu sempre legato può far sospettare - con altri suoi interventi che tendevano a equiparare i diritti di laici ed ecclesiastici anche riguardo alla proprietà fondiaria - una distanza dalle posizioni anticuriali correnti. Quando, nel 1789, Pietro Leopoldo riprese il progetto di costituzione, il G. fu chiamato di nuovo a stenderlo insieme con l'editto di emanazione; vi lavorò con qualche maggiore apertura, anche se la portata delle riflessioni del sovrano e le suggestioni teoriche che contenevano gli rimasero sostanzialmente estranee. Solo all'inizio del 1790, di fronte all'ormai imminente partenza di Pietro Leopoldo per ascendere al trono imperiale, invitò il principe a dar corso all'attuazione della grande iniziativa, ma oramai questi aveva deciso altrimenti.
Il 1789 aveva segnato per il G. l'ingresso nel Consiglio di Stato, e quindi nel governo, pur senza un portafoglio. Come risulta dalle istruzioni lasciate al figlio Ferdinando III, Pietro Leopoldo non aveva mutato parere riguardo a lui: dalla sua ambizione e sete di potere bisognava guardarsi, e sarebbe stato troppo pericoloso alla direzione d'un dicastero. Temeva il possibile "dispotismo ministeriale" di chi era servito a combatterlo: il G. era stato la voce contro, e tale doveva rimanere. Incluso dal granduca, allorché lasciò il trono toscano, nel Comitato di reggenza che doveva governare il paese fino all'arrivo del nuovo sovrano, egli divenne uno dei principali bersagli dei tumulti annonari che sconvolsero il paese. Quando anche la sua casa fu saccheggiata lasciò Firenze, rifugiandosi a Bologna. Incapace di comprendere le tensioni provocate dalle trasformazioni conseguenti alle riforme e dalla politica insieme liberista e repressiva di Pietro Leopoldo, non seppe mai passare dalle accuse agli uomini - i suoi colleghi del governo, in primo luogo - a un'analisi più profonda e consapevole degli eventi. Segno del suo isolamento è il fatto che fu l'unico membro della reggenza la cui carriera politica si chiuse allora: pur conservandogli la carica, Ferdinando III lo tenne a distanza e lo escluse dalla partecipazione attiva al governo.
All'approvazione della nuova tariffa doganale - che, nonostante il mantenimento di misure protezionistiche per le manifatture, modificava l'impostazione da lui sostenuta e seguiva di nuovo un indirizzo liberista - e al conseguente concorso bandito (1791) dall'Accademia dei Georgofili sulla libertà del commercio, il G. replicò pubblicando un opuscolo (Memorie per servire alla dissertazione per l'Accademia dei Georgofili diFirenze) che stimolò gli scritti a favore del protezionismo manifatturiero del cugino Matteo Biffi Tolomei. E con interventi a stampa, spesso pubblicati alla macchia, con memorie fatte circolare manoscritte fra gli amici e con l'amplissima corrispondenza tentò di avere voce nelle vicende politiche in corso. I provvedimenti culminati nel 1794 con la revoca dello scioglimento del debito pubblico lo videro riproporre le sue idee in materia fiscale (Meditazione sulla teoria e sulla praticadelle imposizioni…; Memoria istorica delloscioglimento del debito pubblico dellaToscana). E quando, ancora nel 1794, un rovesciamento nella politica di libertà annonaria mise in pericolo le conquiste dell'età trascorsa, il G. si schierò decisamente dalla parte dei liberisti. Da allora si pose come difensore della libertà e delle riforme leopoldine, rovesciando le posizioni precedenti e reinterpretando il passato e il ruolo avuto, ciò che rende i suoi scritti non completamente affidabili ai fini di una ricostruzione storica. Di fronte alle vicende travagliate del periodo, pur attraverso lucide analisi della concreta realtà toscana, vide sempre nella tradizione del riformismo la soluzione che avrebbe potuto evitare la rivoluzione; uomo di riforme, non di utopie, non riuscì a unire alla concreta sensibilità per i fatti una prospettiva di analisi di più lunga veduta.
Gli scritti pubblicati in vita uscirono sotto forma di opuscoli spesso pubblicati alla macchia, di difficile reperimento. Ne diamo una lista: Memorie e pensieri per formare tre ragionamentisulla ricchezza nazionale, Arezzo 1791; Memorie per servire alla dissertazione perl'Accademia dei Georgofili di Firenze, s.l. [1791]; Meditazione sulla teoria e sulla praticadelle imposizioni, e tasse pubbliche, s.l. 1792; Pensiero che viene esposto all'esame degli economisti, s.l. [1793]; Memoria istorica dello scioglimentodeldebito pubblico della Toscana, s.l. 1793; Discorso di un toscano ai suoi concittadini residentinelle Magistrature Comunitative sopra la circolaredel Soprassindaco… de' dicembre 1793, s.l. [1794]; Voto sincero di un residente inun Consiglio generale di una comunità di Toscanasulla circolare… de' 7 ag. 1794, s.l. [1794]; Ricordi presi nel 16apr.1795 sul rincaro de' grani, s.l. [1795]; Discorso sull'aggiottaggio, Roma 1795; Undiscorso sul debito pubblico indirizzato aldegnissimo cavalier C., Italia 1801; Un'occhiata alla Toscana dopo la pacefirmata a Lunéville, Genova 1801; Discorsoad una amica dama toscana. All'occasioneche dalle sue lettere di Firenze s'intese, che ipoveri e mendicanti erano assai multiplicati, e divenuti molesti, s.l. [1804].
Finché gli fu possibile cercò di riacquistare un ruolo attivo: nel 1799, all'arrivo dei Francesi, accettò di entrare nel Bureau de consultation per la parte finanziaria, operando per limitare il peso delle contribuzioni e difendendo la libertà del commercio. I timori destatigli dal sollevamento aretino lo fecero fuggire a Genova, dove ebbe l'incarico di rappresentare gli interessi toscani; ma con la pace di Lunéville e la nascita del Regno d'Etruria il suo ruolo pubblico cessò. Ludovico di Borbone l'escluse dal consiglio, del quale nominalmente aveva seguitato a far parte, e gli assegnò una pensione da riscuotersi preferibilmente fuori dalla Toscana. Dopo un breve soggiorno a Pisa si stabilì definitivamente a Pegli, ove trascorse la gran parte degli anni rimanenti della sua vita, testimone e commentatore attento degli eventi attraverso una rete di corrispondenti più o meno autorevoli, che riconoscevano in lui l'ultimo dei grandi personaggi dell'età di Pietro Leopoldo.
Nel 1805 stese le Memorie sulla costituzione di governo immaginata daPietroLeopoldo, che prima circolando manoscritte, poi pubblicate da L. de Potter (1825), perpetuarono la tradizione leopoldina legandola al costituzionalismo dei nuovi tempi e unendo indissolubilmente, nella ricostruzione e reinterpretazione del G., il principe e il suo consigliere.
Morì a Genova nel 1821.
Tra i più importanti inediti pubblicati dopo la morte: Memorie sulla costituzione di governo immaginata dal granduca Pietro Leopoldo da servire all'istoria del suo regno di Toscana, in L. de Potter, Vie de Scipion de Ricci, évêque de Pistoie et de Prato, III, Bruxelles 1825, pp. 358-375; F.M. Gianni, Scritti di pubblica economia, storico-economici e storico-politici, Firenze 1848-49, I-II (la raccolta più importante, curata da G. Ponsi; contiene la maggior parte degli scritti editi e degli inediti, inclusi i Pensieri sopra lo stato attuale della Toscana indirizzati a sua maestà il re, che poi correttamente C. Mangio, I patrioti toscani fra "Repubblica Etrusca" e Restaurazione, Firenze 1991, pp. 369 s., ha attribuito a R. Leoni); Pensieri sulla ricchezza nazionale dedotta dalla sussistenza individuale pubblicati per cura di Abele Morena, Arezzo 1894; Ricordi sulla riforma frumentaria di Pietro Leopoldo per cura e con prefazione di Abele Morena, Arezzo 1895; Ricordi sulla Toscana ne' 26 sett. 1794, pubblicati con tre lettere a M. Biffi Tolomei, in A. Morena, Giudizi sulla Rivoluzione francese nella corte del granduca Ferdinando III, in Arch. stor. italiano, s. 3, XVI (1895), pp. 284-292; I trecconi, a cura e con prefazione di A. Morena, Arezzo 1895; Memoria del sen. G. del 9 maggio 1779, con altro materiale relativo alla costituzione, in J. Zimmermann, Das Verfassungsprojekt des Grossherzogs Peter Leopold von Toscana, Heidelberg 1901, pp. 93-102; Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, in E. Passerin, La società toscana intorno al 1799 con un inedito di F.M. G., in Quaderni di cultura e storia sociale, I (1952), 1, pp. 31 s.; Dalla "Meditazione sul dispotismo", in Illuministi italiani, III, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1958, pp. 1065-1075 (ripresenta anche scritti già editi); Lettere di F.M. G. a Filippo Mazzei, in S. Tognetti Burigana, Tra riformismo illuminato e dispotismo napoleonico, Roma 1965; Relazioni e memorie diverse del senator G. sopra le imposizioni di Toscana, in L. Dal Pane, La finanza toscana dagli inizi del secolo XVIII alla caduta del Granducato, Milano 1965, pp. 459-528; Prospetto di osservazioni fatte sopra diverse annotazioni marginali apposte da s.a.r. a vari articoli delle ordinazioni, in G.M. Manetti, La costituzione inattuata, Firenze 1991, pp. 209-232.
Fonti e Bibl.: Le carte del G. si conservano in Arch. di Stato di Firenze, Fondo Gianni, su cui vedi F. Dini, Archivio Gianni-MannucciLeonetti, in Arch. stor. italiano, s. 5, XI (1893), pp. 349-375. Altre sue memorie e pareri sono sparsi nei principali fondi archivistici relativi alla prima età lorenese. In particolare per il progetto costituzionale: Arch. di Stato di Firenze, Segr. di Gabinetto, f. 167; Segr. Gabinetto.Appendice, f. 10; Vienna, Haus- Hof- und Staatsarchiv, Familienarchiv, Samm. 12-13. Il giudizio di Pietro Leopoldo del 1773 è in Arch. di Stato di Firenze, Segr. diGabinetto, f. 124, pp. 167 s. La figura del G. è trattata da tutta la storiografia sulle riforme leopoldine e il periodo rivoluzionario; ci limiteremo quindi a indicare alcuni lavori più significativi per la ricostruzione della biografia e del pensiero. Un necrologio apparve in Supplemento alla Gazzetta di Firenze, 5 genn. 1822, n. 3; A. Marescotti, Sulla economia sociale, II, Firenze 1856, pp. 74, 122, 131, 177, 195-199, 211-214; G. Ricca Salerno, Storia delle dottrine finanziariein Italia, Padova 1960, pp. 231-233, 243-248; R. Mori, Le riforme leopoldine nel pensierodeglieconomisti toscani del '700, Firenze 1951, passim; F. Venturi, F.M. G., in Illuministi italiani, cit., pp. 981-1083; L. Dal Pane, La finanza toscana, cit., pp. 115 s., 129-165, 181-221; F. Diaz, F.M. G. Dallaburocrazia alla politica sotto Pietro Leopoldo diToscana, Milano-Napoli 1966 (fondamentale); G. Giorgetti, Per una storia delle allivellazioni leopoldine (1966), in Id., Capitalismo e agricoltura in Italia, Roma 1977, pp. 96-212; B. Farolfi, F.M. G. e il ceto dirigente toscano tra despotismoilluminato e dominio napoleonico, in Studi napoleonici. Atti del primo e secondo Congresso internazionale, Firenze 1969, pp. 415-423; P. Albanesi, Il gioco del lotto. Appalto e regia nella Toscana del Settecento, in Ricerche storiche, XVII (1987), 2-3, pp. 286-292; M. Mirri, Riflessioni su Toscana e Francia, riformee rivoluzione, in Annuario dell'Accademiaetrusca diCortona, XXIV (1990), pp. 149-152, 162-164, 200-205; B. Sordi, L'amministrazione illuminata, Milano 1991, ad indicem; C. Mangio, I patrioti toscani, cit., ad indicem.