MANTICA, Francesco Maria
Nacque a Venzone (presso Udine) nel 1534 dal nobile Andrea e da Fontana di Rizzardo di Fontanabona, sorella del giurista Giovanni Fontebono (morto nel 1556). Ebbe due fratelli, Pietro e Gian Daniello, e una sorella (che si sarebbe imparentata con la famiglia Fenicio).
Quando il padre morì, il M. aveva appena sette anni e lo zio materno lo accolse presso di sé e si occupò della sua educazione, compiuta presso il letterato Francesco Filamelo. Intorno ai quindici anni il M. fu avviato agli studi di giurisprudenza e nel 1551 s'iscrisse all'Università di Padova, dove studiò con Bernardino Tomitano, professore di filosofia e medicina, con Girolamo Tornielli e con l'illustre giurista Guido Panciroli. Dopo un soggiorno di studio presso l'ateneo di Bologna, il M. tornò a Padova e stabilì rapporti assai stretti con il giurista Tiberio Deciani (tanto che il figlio di questo gli avrebbe dedicato il quinto volume dei Responsa del padre, pubblicato nel 1602). Deciani gli consegnò le insegne dottorali conseguite in diritto civile il 29 ott. 1558 e in diritto canonico il 17 marzo dell'anno seguente.
Fin dal 1558 il M. era stato avviato alla docenza nell'ateneo patavino con la lettura del secondo "luogo" di mattina di testo, glossa e Bartolo (che, avendo un carattere di complemento, doveva essere espletata dai lettori senza riferire le opinioni dei dottori e senza disputare); nel 1560 seguì la lettura di Istituzioni, cioè il corso più elementare di diritto civile, in sostituzione di Nicolò Graziano. Nei decenni successivi il M. percorse una solida e ben documentata carriera accademica con l'insegnamento straordinario e ordinario fino a conseguire, nel 1582, il secondo "luogo" della cattedra principale di diritto civile, quella cosiddetta di mattina (con lo stipendio di 800 fiorini).
La docenza del M. non si distinse per qualità particolari e, rispetto ad altri maestri dello stesso ateneo, la sua opera risultò diligente, conformandosi al tradizionale mos Italicus nel metodo di insegnamento e di interpretazione del diritto.
Nel processo di ammissione al tribunale della Sacra Romana Rota, oltre all'attività docente, si ricorda anche l'occupazione in consulendo et iudicando esercitata tanto a Padova quanto a Bologna e attestata dai consilia superstiti. Nel 1575, a causa della peste, il M. si ritirò temporaneamente a Venzone e in quegli anni mise a punto il trattato De coniecturis ultimarum voluntatum, che uscì a Venezia nel 1579 presso Damiano Zenaro ed ebbe numerose edizioni successive.
L'opera esplora, in dodici libri, l'applicazione della interpretatio e delle sue categorie ai negozi, e tra questi al testamento. Qui, non dandosi i criteri di generalitas né di necessitas riferibili alla sfera degli atti pubblici, si tratta di ispezionare la dichiarazione con cui si formula l'accordo: l'interpretatio, dunque, è l'operazione con cui si indaga il nesso non evidente tra verba e voluntas del privato per "intelligere attraverso i verba ciò che avesse disposto la voluntas del privato" (Caprioli). Il M., pertanto, compiva un'esemplare "fenomenologia della dichiarazione" (ibid.).
Il 18 genn. 1586 Sisto V elesse il M. al posto di uditore rotale spettante alla Repubblica di Venezia, incarico al quale Ippolito Aldobrandini aveva rinunciato per la promozione al cardinalato. Decisivi per la scelta furono proprio i buoni uffici di Aldobrandini, i cui due nipoti erano stati allievi del M. a Padova, e la protezione dei cardinali Federico Corner e A. Peretti Montalto e dell'ambasciatore veneto a Roma, L. Priuli.
Il M., con il nipote Germanico Fenicio, si recò quindi a Roma, dove giunse in aprile (come risulta dalla tonsura, conferita il 4 aprile, e dalla presentazione del motu proprio il 15 del mese) e prese residenza in maggio. Accedette al nuovo incarico di uditore rotale con le consuete due dispute, sostenute in occasione dell'avvio dell'anno giudiziario nel novembre 1586, e con la formale ammissione il 10 dicembre successivo; Sisto V gli concesse una pensione annua di 250 scudi su una commenda delle Marche.
Con il successore di Sisto V, Nicolò Sfondrati eletto con il nome di Gregorio XIV, la situazione del M. non mutò, malgrado Nicolò fosse stato iscritto all'Università di Padova agli inizi degli anni Sessanta e, dunque, sia ipotizzabile una reciproca conoscenza.
Asceso al soglio pontificio Aldobrandini (Clemente VIII), nella creazione del 5 giugno 1596 il M. fu promosso al cardinalato del titolo di S. Adriano, poi mutato in S. Tommaso in Parione (24 genn. 1597) e di S. Maria del Popolo (17 giugno 1602). È in questa circostanza che prese gli ordini e fu consacrato dall'amico cardinale Agostino Valier, di Verona.
Immediatamente il M. fu inserito nella congregazione del Concilio, quindi dal luglio 1596 cominciò a operare anche in quella concistoriale (responsabile, tra l'altro, di conferire diocesi e benefici vacanti), secondo una precisa strategia di Clemente VIII che prevedeva la collocazione negli organismi curiali di tutti gli uomini di fiducia promossi nella nutrita creazione cardinalizia, resi più fedeli dalle elargizioni papali da cui dipendevano molti di loro in quanto cardinali poveri. Il M., che a questo gruppo apparteneva, ricevette all'inizio del 1598 la prefettura della Chiesa di Parenzo in Istria, del valore di 5000 ducati, con pensione di 1000 scudi pro persona nominanda.
Sempre nel luglio 1596 il M. entrò nella congregazione istituita per seguire la vertenza insorta a Milano a seguito della grida del governatore I. Fernández de Velasco sulla coltivazione del riso, che aveva indotto il presidente del Magistrato delle entrate ordinarie, il giurista pavese Jacopo Menocchio, a prendere provvedimenti contro i fittavoli delle proprietà ecclesiastiche disubbidienti, e per questa ragione era incorso nella scomunica. Il M. proseguì a occuparsi dei conflitti giurisdizionali, sempre più acuti verso la fine del pontificato clementino, allorché nel 1603 fu immesso nella congregazione incaricata della questione di Ceneda e Aquileia.
Secondo quanto stabilito nel concistoro del 30 marzo 1598, il M. entrò nella congregazione presieduta dal cardinale Giulio Antonio Santoro e incaricata di valutare le possibilità di utilizzare 150.000 scudi del Tesoro di S. Pietro per restituire il debito contratto con il banchiere F. Guicciardini in occasione del trasferimento del papa a Ferrara per la devoluzione di quella città allo Stato pontificio. Il 3 aprile la congregazione si pronunciò a favore, malgrado l'opinione contraria dei cardinali Domenico Pinelli e Ascanio Colonna, e il papa partì da Roma dieci giorni più tardi e rimase a Ferrara fino al dicembre.
Nel 1600 il M. condivise la critica di Cesare Baronio e Roberto Bellarmino sull'esosità della dote nuziale della pronipote del pontefice, Margherita Aldobrandini, prossima sposa del duca di Parma, Ranuccio Farnese, secondo il disegno del cardinal nipote Pietro Aldobrandini. Questo fatto, che suscitò l'attenzione e lo stupore dell'ambasciatore veneto M. Venier in quanto il M. era creatura di Clemente VIII e come tale si presumeva incondizionatamente fedele agli interessi degli Aldobrandini, appannò il favore del M. presso il papa, sebbene ne alimentasse la fama "di grand'huomo da bene" (Fattori, p. 308 n. 23).
Già uno dei predecessori di Venier, G. Dolfin, nel 1598 aveva giudicato il M. "uno dei migliori cardinali del Collegio per bontà, per dottrina, e per una sincerità meravigliosa, se bene alcuni l'accusano dicendo che tanta sincerità in questi tempi non è lodevole, volendo diversi che sia pieno d'arte per avvantaggiarsi, aspirando in tal modo a fortuna maggiore; ma sia come si voglia è un santo" (Le relazioni degli ambasciatori veneti…).
In occasione del conclave del 1605 si sparse la notizia, infondata, dell'elezione del M.: l'episodio, raccontato da T. Amayden (Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 1336, cc. 195-197) è probabilmente esagerato, anche perché in altre fonti il M. è menzionato insieme con altri cardinali papabili, segno di un conclave assai frammentato.
Personalità di singolare modestia e frugalità (risiedette, infatti, nei palazzi Vaticani fino alla fine del 1608, quando i lavori per la Fabbrica di S. Pietro lo costrinsero a lasciare le stanze e a prendere il palazzo in Borgo dei signori Cesi, altresì conosciuto come del marchese di Riano), non permise che la carriera in Curia gli mutasse lo stile di vita austero e la dedizione agli studi. Durante il periodo romano, infatti, scrisse il secondo importante trattato, Vaticanae lucubrationes de tacitis et ambiguis conventionibus, che uscì a Roma nel 1609.
L'opera, in ventisette libri, si pone come logica derivazione dalla precedente analisi sulla volontà testamentaria. Il tema, infatti, è quello delle convenzioni tacite e ambigue nei contratti privati, dalle quali sorgono le incomprensioni, i conflitti e i contenziosi giudiziari, perché "quod verbis non est expressum, plerunque tacite et varie intelligitur; et quod a contrahentibus dictum et a tabellionibus scriptum est, quandoque usqueadeo ambiguum et oscurum videtur ut quid ipsi senserint, difficillimum sit perscrutari" (dalla dedica a Paolo V). Ai tre libri che affrontano il tema in via generale, seguono considerazioni che riguardano le diverse tipologie dei negozi, ripartite in singoli libri.
Il M. morì a Roma nella notte tra il 28 e il 29 genn. 1614.
Aveva fatto testamento presso il notaio Celso Cusano quattro giorni prima, e aveva istituito eredi Andrea, figlio del fratello Pietro, l'abate Germanico (futuro vescovo di Famagosta) e Francesco, figli del fratello Gian Daniello; a Francesco, come primogenito, legò il feudo di Fontanabuona, acquistato tra il 1609 e il 1610.
Le esequie furono celebrate il 30 gennaio e il sepolcro fu collocato nella chiesa agostiniana di S. Maria del Popolo, in una cappella della navata sinistra adorna di un busto marmoreo commissionato dal nipote Germanico, il quale nel 1618 ebbe cura di far pubblicare le Decisiones Sacrae Rotae Romanae dello zio, un insieme di trecentosettantacinque testi approntati per il tribunale tra il 1587 e il 1596.
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