MOLZA, Francesco Maria
– Il M. nacque a Modena il 18 giugno 1489, unico figlio di Ludovico di Niccolò e Bartolomea di Francesco Forni, entrambi appartenenti a casate di ceto borghese.
Le vicende della famiglia Molza tra XV e XVI secolo si innestano nella vita cittadina dominata dai conflitti tra le famiglie magnatizie, che determinarono un costante clima di tensione e di violenze, a stento controllato dai governatori di nomina ducale. Poco dopo la nascita del M. Ludovico prese i voti di terziario francescano (per questo nei documenti è distinto solitamente con l’appellativo di frate), seguito dalla moglie, che si fece suora del medesimo Ordine. Vissero in castità il resto della vita, dedicandosi alle pratiche caritatevoli; Ludovico ricoprì senza fini di lucro uffici nell’amministrazione cittadina. Essendo nato nel 1463, era ancora minore alla morte del padre (1478) e l’eredità fu data in amministrazione allo zio Gherardino, il quale, dinanzi alla noncuranza per gli interessi della casa mostrata dal nipote, non esitò a usurpare l’eredità di Niccolò, nominando erede alla propria morte il figlio Francesco. Alla morte di quest’ultimo (1513) sul patrimonio avanzarono pretese i sette figli dell’altro zio di Ludovico, Filippo. Con l’ingresso di nuovi pretendenti la contesa si complicò seriamente, generando una lunga e complessa vertenza giudiziaria che ebbe una influenza diretta sulla biografia del Molza.
Il M. ricevette la prima educazione in patria, ma non si conosce il nome del suo precettore. Dopo un approccio agli studi di diritto nell’Università di Bologna, presto abbandonati per le lettere classiche, l'esordio letterario avvenne con il carme in distici Quale solet vitrei modulari ad fluminis undas nelle Collettanee grece, latine, e vulgari per diversi auctori moderni nella morte de l’ardente Seraphino Aquilano edite da Giovanne Filoteo Achillini (Bologna, C. Bazalieri, 1504), l’importante silloge plurilingue in memoria del poeta scomparso il 10 ag. 1500, alla quale diedero il loro contributo i principali verseggiatori dell’epoca. I progressi compiuti negli studi persuasero Ludovico ad acconsentire al trasferimento del figlio a Roma al fine di perfezionare la sua formazione. La data dell’arrivo nell’Urbe non è nota documentalmente, ma poiché nell’elegia Ad sodales, v. 58, il M. si definisce ancora puer all’epoca, si è soliti collocarla nel 1505. Di questo primo periodo romano non resta alcun resoconto circostanziato. Dalle notizie successive si deduce che il M. si immerse nella vita culturale della splendida Roma di Giulio II, ma anche diede prova di una cordiale inclinazione per il gentil sesso destinata a rimanere un tratto costante della sua personalità, aggravato dal giudizio moralistico di incontinenza e libertinismo cucitogli addosso a causa dell’infezione luetica che lo condusse alla morte dopo una lunga e travagliata malattia. Messo sull’avviso circa la condotta libera del figlio, Ludovico lo richiamò in patria, forse nel 1511 o nell’anno successivo, in vista di un matrimonio d’interesse che avrebbe dovuto dare un taglio alla vita impenitente e insieme trovare un appoggio nelle vertenze patrimoniali con i parenti. Il M. si trovò a dover accettare le nozze con Masina de’ Sartori, di Antonio e Violante Carandini, di due anni più vecchia di lui, sorella dell’arcivescovo di Santa Severina Giovan Matteo, cameriere segreto e commensale di Giulio II, il quale si era impegnato a patrocinare le ragioni di Ludovico. Il matrimonio, celebrato alla fine del 1512, nei quattro anni successivi diede quattro figli (il primogenito Camillo e Alessandro, Ercole, Niccolò), senza che la paternità alleviasse nel M. l’insofferenza per la vita familiare e mutasse il sentimento di estraneità nei confronti della moglie. Precettore dei figli del M. fu Giovanni Bertari, del quale, come testimonia il carteggio, egli si valse anche quale fiduciario in diversi negozi delicati riguardanti la famiglia e che rimase in casa fino alla morte (1558) anche come pedagogo della numerosa prole di Camillo.
L’aggravarsi della lite giudiziaria offrì al M. l’opportunità per fare ritorno a Roma con l’incarico di seguire di persona il negozio. La prima lettera ai familiari da Roma è del 1° nov. 1517, ma il M. tirò in lungo di proposito il disbrigo della pratica per garantirsi il motivo di restare nella città. Anche su questo secondo periodo romano, le notizie sono indirette. Riprese la vita gaudente, rinsaldò i legami con i letterati conosciuti nel precedente soggiorno. Il concittadino Iacopo Sadoleto, segretario ai brevi nella Cancelleria apostolica, propiziò l’accesso in corte del M., sebbene non risulti che ottenesse un ufficio. Guido Postumo Silvestri negli Elegiarum libri duo (Bologna 1524, c. XCIIv) lo descrive presente a una battuta di caccia organizzata dal pontefice nelle campagne di Palo nel novembre 1520, alla quale parteciparono numerose personalità della Curia e letterati forestieri di stanza a Roma. Un ricordo del M. è anche nell’elegia IV del libro II, indirizzata a Giovan Matteo Giberti dimorante nella sua villa di Tivoli. Le relazioni coltivate in questo periodo offrirono al M. l’opportunità di ampliare la cerchia delle conoscenze, stabilendo contatti con altri ambienti culturali della penisola. Del 3 apr. 1519 è la sua affiliazione, unico forestiero, all’Accademia Senese, destinata a trasformarsi in Accademia degli Intronati, di cui resta come documento il diploma in originale con la sottoscrizione autografa del M., conservato nella Biblioteca civica di Siena (Autografi Porri, filza 5). Nello stesso anno partecipò con due componimenti (Ignote o vortex undis pluvialibus aucte, Hunc venerare hospes tumulum, lachrymisque profusis) alla collettanea In Celsi Archelai Melini funere amicorum lacrimae (Roma, A. Mazzocchi) publicata, con dedica a Giberti, in memoria del giovanissimo letterato romano Celso Mellini (1500-19).
La morte di Mellini aveva commosso non tanto per la crudezza in sé della scomparsa repentina di una promessa dei cenacoli umanistici capitolini, quanto per il ruolo di paladino della romanità cui egli era assurto pronunciando in Campidoglio, 16 giugno 1519, l’orazione contro l’umanista fiammingo Cristoforo Longolio, giunto a Roma per perfezionarsi nello studio del greco e fatto segno di una reazione ostile da parte dei letterati romani. In quella circostanza il M. non era stato tra gli oppositori di Longolio: alcune lettere di quest’ultimo da Padova databili al 1520 testimoniano i rapporti confidenziali che intercorsero tra i due.
Una testimonianza significativa dell’adesione all’ideale di rinascita dell’antico nel clima fastoso e solenne della Roma leonina è costituito dalla canzone in morte di Raffaello (6 apr. 1520).
Il M., rivolgendosi al pontefice, dimostra piena coscienza dell’opera dell’artista urbinate, che il 1° apr. 1514 era stato nominato conservatore delle antichità dell'Urbe e si era impegnato nella stesura di una pianta della Roma antica. L'impresa, sulla quale si appuntavano grandi aspettative, assunse un valore esemplare nel progetto di rinascita dell’antico patrocinato dal pontefice grazie alla lettera scritta da Baldassarre Castiglione su suggerimento di Raffaello, che sviluppava il significato teorico dell’operazione. Significato di cui il M. si dimostra pienamente avvertito nella canzone, che per questo motivo si distingue dai numerosi generici compianti composti nella circostanza.
Altrettanto importante risulta l’assenza del M. dall’altra grande collettanea poetica latina uscita a Roma in quegli anni, i Coryciana, pubblicati nel 1524 per la cura dell’umanista calabrese Blosio Palladio (Pallai). Il curiale lussemburghese Johann Goritz (latinamente Coryciuis) e i letterati del circolo che si riuniva intorno a lui furono interpreti di un’istanza critica verso il culto classicistico della romanità e di un orientamento più deciso in senso cristiano della poesia umanistica. Queste posizioni contenute in un misurato dissenso acquistarono una risonanza più radicale con l’elezione al soglio del papa olandese Adriano VI (9 genn. 1522), i cui propositi di riforma della Curia e di correzione degli splendori mondani della vita culturale romana contribuirono a dare un orientamento più deciso in tal senso alla raccolta coriciana, anche oltre le originarie posizioni moderate e concilianti del suo ispiratore.
In quegli anni un avvenimento privato polarizzò l’esistenza del Molza. Terminata la relazione con Furnia, dedicataria di diversi carmi latini non oltre la primavera del 1522, il M. fu preso da una nuova passione per la cortigiana romana Beatrice Paregia, o da Ferrara, di madre spagnola. Il nuovo amore ebbe il carattere di una relazione basata su autentici sentimenti di affetto e di stima per la donna, cantata in ispirati versi latini e volgari. Ma la relazione sconveniente suscitò un certo disappunto tra le conoscenze del M. e la severa rampogna di Vittoria Colonna, che nel sonetto Molza ch’al ciel quest’altra tua Beatrice instaurò un tagliente confronto tra il M. e Dante. Il M. replicò con L’altezza de l’obietto, onde a me lice, che pone con orgoglio l'amata sullo stesso piano delle figure femminili cantate dai tre grandi trecentisti (anche la Laura di Petrarca e la Selvaggia di Guido Cavalcanti). A questa relazione amorosa si è soliti riferire, senza che esista la prova del rapporto tra i fatti, un avvenimento che mise a repentaglio la vita del poeta, stando a quanto egli stesso riferisce nell’elegia Ad Lycorim, senza fornire tuttavia informazioni più precise. Nella primavera del 1522 un rivale smanioso lo colpì con una coltellata all’addome. Rimessosi in salute, la partenza da Roma per Bologna coincise con l’avvento del papa olandese. Non si sa come e quando la relazione con Beatrice ebbe fine, sebbene è improbabile che la donna lo seguisse a Bologna.
Il soggiorno bolognese si protrasse fino al 1525. Il M. rivide Bembo, annodò rapporti con Romolo Amaseo e altri professori dello Studio, conobbe numerosi personaggi di stanza o di passaggio nella città: tra questi Giovanni Della Casa, Carlo Gualteruzzi, Ludovico Beccadelli, Galasso e Alfonso Ariosto (rispettivamente fratello e cugino del poeta), Antonio Brocardo, Giulio Camillo, Giovangiorgio Trissino. Fu ospite di Camilla Gonzaga, di Giovan Pietro del ramo dei conti di Novellara, la quale riuniva intorno a sé un circolo di artisti e letterati. La colta e affabile gentildonna fu corteggiata dal M. e da Bembo, e tra i due poeti si instaurò una sorta di amabile competizione, della quale offrono testimonianza le lettere che si scambiarono nei mesi successivi.
Di certo la relazione si mantenne per entrambi entro i limiti di una devozione galante e di natura letteraria, che per il M. non aveva nulla in comune con le precedenti storie con Furnia e Beatrice.
Tra i frequentatori del salotto di Camilla, il prolifico rimatore Girolamo Casio de’ Medici cantò la gentildonna nella sezione intitolata La Gonzaga del suo voluminoso canzoniere Cronica (Bologna 1525, ma 1528). Nove sonetti (cc. 83v-85v) sono dedicati al busto di Camilla eseguito dallo scultore Alfonso Cittadella, non conservato, sul quale forse anche il M. compose delle rime, se Casio, secondo uno stilema diffuso in altri lirici di epoca prebembesca, si sofferma sul duplice omaggio reso a un tratto alla gentildonna dall’artista e dal poeta.
Tra le lodi enfatiche indirizzate da Casio al M., di particolare rilievo sono quelle che lo dipingono come emulo di Boccaccio: egli è «Certaldo poi nel suo Decamerone» (Il Molza che ne versi, e nelle prose, v. 6) e «Novo Petrarcha e Boccatio in volgare» (Libro intitulato Bellona nel quale si tratta di armi di lettere e di amore, [Bologna non prima del 1527], c. [8r], st. 51, v. 4). Queste dichiarazioni consentono di datare, almeno in parte, al secondo periodo romano l’impegno del M. in campo novellistico. Con un’identica patente di imitazione boccaccesca, le novelle molziane saranno ricordate anche da Paolo Giovio nel Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus, la cui composizione risale al periodo tra il 15 maggio 1527 e i primi mesi del 1528. Sette novelle spicciolate (Roma, Biblioteca Casanatense, Mss., 3890) non autorizzano tuttavia a pensare a un progetto di novelliere organico, né si conserva notizia di altre novelle andate perdute. Quattro novelle ebbero una stampa tarda a Lucca (V. Busdraghi, 1561) e alcune furono accolte nelle Cento novelle scielte raccolte da Francesco Sansovino (Venezia 1562).
L’ascesa al soglio del nuovo papa mediceo, Clemente VII, che prometteva l’aprirsi di una nuova epoca di mecenatismo, pose fine al soggiorno bolognese. Nella primavera del 1525 il M. ritornò a Roma, preceduto da una commendatizia alla madre Isabella di Ercole Gonzaga, con il quale aveva stretto amicizia a Bologna, datata 13 marzo. A Roma non risulta abbia assunto impegni o uffici pubblici. Tre lettere al padre (27 novembre, 1° e 5 dicembre 1525) aggiornano sull'annosa causa per l’eredità con Niccolò di Filippo e i suoi fratelli, nella quale era stato raggiunto un lodo elaborato dai cardinali Lorenzo Campeggi e Cristoforo Numai, ma nel febbraio 1528 la lite si trascinava ancora con faticosi accordi separati. Solo poco prima di morire, Ludovico stipulò un compromesso con alcuni figli di Filippo, ma alla sua morte Niccolò, che non lo aveva accettato, tentò di impossessarsi con la forza dei beni contesi.
Agli anni anteriori al sacco del 1527 risalgono i riconoscimenti al M. di letterati contemporanei. Al verseggiatore latino e volgare tributò il suo omaggio Lilio Gregorio Giraldi nel primo dei Dialogi duo de poetis nostrorum temporum, composto durante il soggiorno romano tra il 1513 e il 1527 e ambientato nella città durante il pontificato di Leone X. Nell’opera, che si propone di dare una panoramica della letteratura contemporanea in latino, il M. riscuote un giudizio di poeta dotto per l’eleganza dei suoi versi volgari, prima ancora di essere elogiato per la sua erudizione nelle lingue antiche, non senza però che l'asciuttezza di Giraldi eviti un giudizio moralistico sul poeta che «licet nimio plus mulierum amoribus insanire videatur, inter rarissima tamen ingenia connumerandus». Con questa testimonianza converge il giudizio di Giovio nel ritratto divertito del M. «poeta eruditus, perurbanus, comis, quem saepe saevis amoribus perditum ac exulantem sinu suo molliores Musae benignissime receperunt» nel citato Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus. Ma nell’elogium elaborato post mortem il giudizio di Giovio si consolida nel bilancio di uno stile di vita lascivo, che impedì al M. di consolidare la fama di cui aveva fatto intravedere chiare speranze: «Foede prodigus honestique nescius pudoris neglectum rerum omnium ad innoxiae libertatis nomen revocabat, usque adeo supine, ut summae laudis et clarioris fortunae certissimam spem facile corruperit».
Nel 1527 il M. fu spettatore dell’evento fatidico del sacco di Roma. I sentimenti di sdegno e di scoramento per il fatto, che segnò nella coscienza dei contemporanei la fine traumatica della stagione aurea della rinascita, trovarono espressione in toni assai vivi nell’elegia Ille ego perpetuus Tarpei culminis hospes a Luigi Priuli e in diversi sonetti. Non è noto come egli scampasse al disastro, ma l’anno dopo era a Modena. Forse evitò di risiedere in città e si ritirò nella residenza materna di Gorzano, da lui ribattezzata Spelonca, come sembra testimoniare l’elegia Ad Furnium indirizzatagli da Benedetto Lampridio, che un po’ goffamente lo ritrae immerso in solitarie meditazioni sulla natura e sul cosmo (Carmina illustrium poetarum Italorum Jo. Matthaeus Toscanus conquisivit, I, Parigi 1576, p. 119).
Il 28 apr. 1529 il M. era di nuovo a Roma. Il carme Ad Michaelem Maium diede voce agli auspici che circondavano le trattative tra l’inviato imperiale Michele Maggi e i delegati del papa, che portarono alla riconciliazione tra il pontefice e l’imperatore con il trattato di Barcellona del maggio 1529. È la testimonianza che il M. a questa altezza cronologica si muoveva a suo agio nella diplomazia pontificia e si proponeva di farsene interprete nei suoi versi. L’influenza raggiunta negli ambienti curiali e la fiducia che Clemente VII riponeva in lui portò all’incarico di segretario del nipote del pontefice Ippolito de’ Medici, creato cardinale il 10 genn. 1529.
A fianco del munifico e ambizioso Ippolito, il M. accrebbe i suoi contatti con le maggiori personalità del mondo aristocratico, con artisti e letterati, di cui Ippolito amò circondarsi. Il legame del M. con Medici andò oltre i termini del rapporto tra un segretario e il proprio signore, e si tradusse da parte del M. in una devozione sincera, sostenuta dalla condivisione autentica delle ragioni e dei calcoli che animarono l’intensa attività politica e diplomatica condotta da Ippolito fino alla morte imprevista, nel 1535. Il ruolo di consigliere e confidente che ricoprì lo portò ad assoggettare la sua produzione poetica alle esigenze encomiastiche e cortigiane, ma ciò non fu subito dal M. come una costrizione ed egli si prestò di buon grado all'esercizio d’occasione, applicandosi a celebrare gli eventi pubblici e dinastici della cronaca come una necessità intrinseca alla società colta e splendida di cui egli si sentiva parte. Oltre ai carmi latini, ai sonetti e alle canzoni che celebrano le imprese di Ippolito, la relazione che legò Medici alla bella Giulia Gonzaga è all’origine delle Stanze per il ritratto della gentildonna eseguito da Sebastiano del Piombo, ultimate dal M. nel marzo 1534. Per Ippolito il M. ideò un’impresa, dedicata a Giulia, che divenne molto celebre, sebbene Giovio ne criticasse l’eccessiva erudizione (Dialogo dell’imprese militari e amorose, a cura di M.L. Doglio, Roma 1978, p. 68).
Il M. seguì Ippolito nel 1530 al convegno di Bologna tra Carlo V e Clemente VII, evento non solo politico-diplomatico in virtù del concorso da ogni parte d’Italia di letterati intenzionati a discutere dei temi più urgenti che dividevano la res publica litteraria, a cominciare dalla questione della lingua. Assorbito dai doveri dell’ufficio, non si recò a Modena quando, nell’agosto 1531, vennero a morte, a un giorno di distanza l’uno dall’altro, il 13 e il 14, i due genitori. Come estremo atto di condanna per la disaffezione mostratagli dal figlio per tutta la vita, Ludovico lo privò quasi del tutto dell’eredità, che fu trasmessa al nipote primogenito Camillo e agli altri, ancora minori, sotto la tutela della madre. Il M. trovò il modo di esprimere il suo dolore in forme letterarie nei sonetti Anime belle, che vivendo esempio; Si come augelli semplicetti et puri; Alta fiamma amorosa, et ben nat’alme.
Alla corrispondenza tra Guidobaldo da Montefeltro e il residente urbinate a Roma Giovan Maria Della Porta, tra il 31 agosto e il 21 settembre 1532, risale la testimonianza più convincente di una prova del M. con la scrittura teatrale, sebbene il testo sia andato perduto. Dal carteggio risulta che egli ad istanza di Ippolito compose una commedia, la cui unica copia era stata spedita a Giulia Gonzaga a Itri prima del 4 settembre. A livello di congettura è rimasto al contrario il tentativo di G. Aquilecchia di attribuire alla coppia Molza - Claudio Tolomei la paternità della commedia Gli Ingannati, invece che al lavoro collettivo dei senesi accademici Intronati o al loro principe Alessandro Piccolomini, secondo la tesi più accreditata.
Dal dicembre 1531 all’aprile 1532 il M. risiedette a Roma. Alla prima metà del 1532 risale probabilmente la lunga elegia Ad Henricum Britanniae regem uxoris repudiatae nomine, nella quale il M. espone le posizioni della Curia e della diplomazia cesarea sulla delicata questione del divorzio di Enrico VIII dalla sua prima moglie Caterina d’Aragona. Solo la nomina di Ippolito a legato a latere presso l’imperatore al seguito della spedizione antiturca in Ungheria, permise di congedarsi temporaneamente dal suo signore e fare ritorno a Modena nel luglio 1532, dopo tre anni di assenza. Ippolito si unì alla corte di Carlo V a Ratisbona il 12 ag. 1532. La campagna ungherese si risolse con un rapido successo ed egli fece ritorno in Italia già in ottobre. Il Molza si ricongiunse con lui a Mantova e in dicembre partecipò al nuovo incontro tra Clemente VII e Carlo V a Bologna.
A Bologna era anche Tiziano e in occasione fu commissionato all’artista il celebre ritratto «all’ungheresca» di Ippolito, oggi conservato a Firenze nella Galleria di Palazzo Pitti, su cui il M. compose l’epigramma Hyppolitum Medica cernis qui gente viator. Il messaggio del ritratto era particolarmente incisivo, dato che in questo momento Ippolito era considerato il punto di riferimento dei fuoriusciti fiorentini e ciò rendeva concrete le sue intenzioni di svolgere un ruolo personale nelle vicende politiche della penisola, mettendo in pericolo l’equilibrio appena raggiunto con gli accordi di Bologna del 1530. Sugli altri carmi latini e sulle rime di contenuto politico del M., la canzone Sacri pastor, perché a la vostra cura si innalza dall’adulazione cortigiana a tratteggiare un ampio manifesto politico in cui il poeta rivolge il suo messaggio all’intero mondo cristiano lanciando il monito a superare lacerazioni e dissidi interni in nome dell’unità necessaria per affrontre la minacia degli infedeli.
La notizia della presenza a Nizza al seguito di Ippolito e Clemente VII nel mese di ottobre 1533, per le nozze tra la nipote del pontefice, Caterina, e il delfino di Francia Enrico di Valois, è legata alla fragile testimonianza di una lettera di Giovanni Della Casa a Carlo Gualteruzzi, da Firenze il 2 genn. 1534. Uno scorcio di ironico distacco dal mondo della politica in quella congiuntura arriva invece dal Capitolo sopra la gita a Nizza di Francesco Berni, che mette in burla le smanie di prelati e gentiluomini romani di presenziare all’evento, al quale accorsero in massa svuotando l’Urbe. Un cantuccio del componimento (vv. 82-94) ospita un motto del «Molza nostro» in sintonia con la canzonatura verso i maneggi della politica e dei fastosi ma vuoti riti della vita di corte. Ciononostante non vennero meno gli incarichi politici. Nel settembre 1534 il papa si decise a togliere la legazione della Marca d’Ancona al cardinale Benedetto Accolti e il M., in ragione dei rapporti di amicizia che lo legavano ad Accolti, fu incaricato di redigere in nome di Ippolito la lettera con cui fu comunicata la decisione. L'amicizia con il prelato rimase intatta, come dimostra lo scambio epistolare e di versi latini negli anni successivi. Il 20 giugno 1533, dopo trent'anni di beghe, si era chiusa a Modena la lite per l’eredità familiare: il M. e Niccolò di Filippo, per parte sua e dei fratelli morti che non si erano accordati precedentemente con Ludovico, sottoscrisse mediante procuratori il rogito notarile che pose fine alle liti.
Nei primi anni Trenta a Roma il M. fu partecipe del cenacolo di letterati che si riuniva intorno a Uberto Strozzi ed è consuetudine indicare con il nome di Accademia dei Vignaiuoli. Ne erano membri oltre a Berni, Della Casa, Giovio, Agnolo Firenzuola, Lelio Capilupi, Mattio Franzesi, Giovanni Mauro d'Arcano. Tra i Vignaiuoli il M. assunse lo pseudonimo di Siceo e diede il suo contributo al programma faceto del sodalizio con i tre capitoli berneschi Dell’insalata, Della scomunica, Delle fiche, sebbene la sua posizione non fu in tutto omologabile a quella degli altri poeti della conventicola. Dalla corrispondenza di Berni con gli amici romani da Firenze, tra il 1534 e la morte il 26 maggio 1535, il M. è spesso associato a Della Casa. Ai due, Berni tende a riconoscere una particolare distinzione rispetto agli altri poeti burleschi partecipanti al sodalizio.
Rilevante atto politico fu, nell'estate 1534, l’orazione latina pronunciata contro Lorenzino de’ Medici, colpevole di avere mutilato le statue dell’arco di Costantino e in altri luoghi di Roma. L’episodio, di cui non sono ancora chiare fino in fondo le motivazioni, suscitò grande scalpore nell’Urbe e la collera di Clemente VII. Lorenzino fu costretto ad abbandonare la città, colpito da due bandi pubblici e il M. interpretò il risentimento collettivo con una violentissima orazione pronunciata contro il colpevole nell’Accademia Romana. È probabile che alla base dello sdegno del M. per il responsabile del gesto sconsiderato fosse il sincero interesse per la conservazione delle antichità e la sensibilità per il ripristino di quanto fosse andato distrutto nei secoli oscuri; che egli aveva espresso in toni consapevoli e appassionati nella canzone in morte di Raffaello nel 1520. Ma nell’invettiva dovette avere una parte determinante il calcolo di proteggere Ippolito dal discredito che gli poteva provenire dallo scomodo parente, nonché di concentrare l’odio suscitato dal reprobo sul rivale politico di Ippolito, il duca Alessandro, presso il quale Lorenzino era riparato a Firenze. Dopo che questi ebbe portato a termine l’omicidio di Alessandro (6 genn. 1536), il M. aderì alla lettura retrospettiva che nella pubblicistica contemporanea tese a presentare l’episodio romano come primo estrinsecarsi dei sentimenti antitirannici nell'animo del Bruto toscano (così ad esempio B. Varchi in Storia fiorentina, XV, 23, dove riporta un «bellissimo epigramma» del M. testimone dell’ammirazione maturata per il Bruto tirannicida).
Il 10 ag. 1535 il M. era a Itri con Giulia Gonzaga e Marcantonio Soranzo al capezzale di Ippolito, spirato dopo una breve malattia a seguito di un’infreddatura contratta in una cavalcata. Lo sconforto del M. fu totale: egli vedeva fallire le aspettative di riscatto politico dell’Italia maturate intorno al suo padrone; insieme mancava con Ippolito un protettore con cui aveva condiviso interessi letterari e aspettative, con un'intensità che andava ben oltre la condizione del normale servizio e della devozione servile. Egli non esitò a denunciare con parole inequivoche il veneficio perpetrato nel sonetto Anima bella e di quel numer una e nella canzone Fra le sembianze, onde di lunge avrei, composta sul modello della canzone delle visioni di Petrarca (R.v.f. 313); trasfigurò allegoricamente il delitto perpetrato in immagini di animali innocenti, intesi a circondare Ippolito dell’aura di vittima sacrificale dei tempi crudi in cui ebbe la ventura di vivere. Il compianto del padrone amato si protrasse negli anni con intatta devozione. Nel sonetto Poich’al voler di chi nel sommo regno, con il quale, nell'approssimarsi della fine, incaricò l'amico Trifone Benci di comporre il suo epitafio, l’evocazione commossa di Ippolito si affaccia a rammemorare l’esperienza più felice e appagante della propria esistenza, nella prospettiva di un ricongiungimento nella vita eterna.
Con la scomparsa di Ippolito si registrò nel M. un malinconico congedo dalla vita brillante e sfarzosa e una intensificazione dell’attività letteraria. Nel novembre 1535 fu a Napoli nel seguito del cardinale Giovanni Salviati, del quale non risulta però fosse al servizio, alla conferenza con Carlo V per decidere il destino del Ducato di Firenze, finalmente tenutasi e risoltasi con un grave smacco per gli oppositori del duca Alessandro. La circostanza offrì al M. l’occasione di intrattenersi con i letterati napoletani: fece la conoscenza di Bernardino e Coriolano Martirano, con i quali mantenne rapporti negli anni successivi, Pietro Summonte, Giovan Francesco Alois, Galeazzo Florimonte, il giovane Berardino Rota. A questa fase risalgono alcuni componimenti filoimperiali di timbro adulatorio, come le elegie Tela Scythas Caesar debellatura fugaces, esortazione post factum a compiere l’impresa africana, e Dum te Seirenum retinet terra hospita, Caesar, in cui invita Carlo V a lasciare Napoli per Roma, che si apprestava tributargli accoglienze fastose; o ancora Postquam Deorum permissu urbem pristinae, invito a compensare i poeti dispensatori di fama eterna.
Il 10 ag. 1536 era ancora a Roma, ma verso la fine del mese si recò a Modena. Durante la sosta a Firenze conobbe Varchi. Non ci sono prove che abbia incontrato in quella occasione anche Piero Vettori, del quale Varchi era intrinseco, ma è probabile che questi facesse conoscere le sue composizioni al filologo fiorentino, che le apprezzò. I due letterati si sarebbero frequentati durante il breve soggiorno romano di Vettori a Roma, ospite di monsignor Niccolò Ardinghelli, dal novembre 1536 al gennaio 1537.
Nel 1540 Vettori richiese la consulenza del M. e degli amici romani a proposito delle Posteriores castigationes in epistolas quas vocant familiares (di Cicerone), che egli aveva da poco terminato di comporre e che spedì all’uopo a Donato Giannotti. Il cardinale Giovanni Gaddi mise a disposizione i codici della sua biblioteca, su cui eseguirono la collazione Giannotti e Ludovico Fabri da Fano. Le cattive condizioni di salute impedirono al M. di partecipare a queste riunioni di studio, ma rilesse il manoscritto con le nuove lezioni recensite, esprimendo un parere favorevole.
Da Firenze, nell’autunno 1536, il M. si trasferì a Bologna, dove si trattenne fino al principio di novembre ed ebbe modo di incontrare di nuovo Varchi, di passaggio in città sulla via di Padova per rendere visita a Bembo. Dopo il congedo Varchi compose il lungo carme Ad F. Mariam Molsam (Liber carminum, a cura di A. Greco, Roma 1969) e portò a Bembo alcune rime avute dal M., tra cui la canzone sulla morte di Ippolito de’ Medici. Tornato a Firenze, in dicembre Varchi fece avere a Bembo le Stanze sul ritratto di Giulia Gonzaga copiate da Ugolino Martelli.
Il M. si trattenne a Roma per tutto il 1537. Il fitto carteggio con il figlio Camillo palesa le ristrettezze economiche in cui egli, rimasto privo di servizio dopo la morte di Ippolito, versava, e dall’altra parte l’assottigliarsi delle rendite e le lamentele per le continue sue inadempienze verso la famiglia. In questo periodo cadono le trattative per il matrimonio di Camillo con Ludovica di Antonio Colombi, nipote del banchiere modenese Ludovico Colombi, dalla dote ricchissima, che era stata promessa in sposa al figlio del Molza. Ma il duca di Ferrara aveva promesso a sua volta la fanciulla a un suo cortigiano e il M. si trovò di nuovo coinvolto in faticosi maneggi, che le cure degli interessi di famiglia parevano portarsi sempre dietro. Tutti gli sforzi si risolsero in un insuccesso: per non scontentare uno dei pretendenti il duca diede in sposa la giovane al ferrarese Battistino Strozzi, governatore di Modena, e Camillo fu compensato con una sorella, Isabella, e con la dote più modesta di 6000 ducati. Le nozze furono celebrate l’8 marzo 1539. Dall’unione sarebbero nati ben nove figli, tre maschi e cinque femmine, tra le quali Tarquinia, destinata a essere una delle letterate più in vista del suo tempo.
A questo periodo risale la prova poetica in volgare più impegnativa del M., l’elegantissimo poemetto La Ninfa Tiberina, in lode di Faustina Mancini, la giovane nobildonna celebrata dai poeti dell’Accademia farnesiana per la sua bellezza e per le sue virtù, andata sposa del condottiero Paolo Attavanti e destinata a morire ventenne di parto il 6 novembre 1543. Il 10 genn. 1538 Annibal Caro dava ancora notizia a Varchi che il M. non vi aveva posto l’ultima mano, ma poco dopo il poema fu portato a Padova da Mattio Franzesi, il quale il 12 febbr. 1538 riferì al M. l’accoglienza ricevuta dall’opera (Firenze, Biblioteca nazionale, II.VII.129, p. 54).
Privo di un ufficio curiale e di un padrone, il M. non partecipò all’evento del congresso tra l'imperatore e il re di Francia patrocinato da Paolo III a Nizza nel marzo 1538. Dalla città francese, dove si trovava al seguito dello zio Iacopo, Paolo Sadoleto fece intervenire questi presso Paolo III per trovare al M. una sistemazione. Dopo il ritorno della Curia a Roma, il M. fu assunto al servizio del cardinale Alessandro, che aveva rilevato gli uffici di Curia ricoperti da Ippolito.
A fianco dell’intelligente e colto Farnese si ricreò il rapporto di fiducia e intesa che il M. aveva sperimentato negli anni del suo primo servizio. Come per A. Medici egli non fu solo segretario e incaricato di mansioni di particolare delicatezza, ma godette della stima e dell’affetto del padrone, ricoprendo una posizione eminente all’interno della cerchia di letterati di cui il porporato amò circondarsi. Primo impegno del poeta fu quello di accompagnare con i suoi versi la legazione condotta da Alessandro, insieme con i più esperti colleghi porporati Marcello Cervini e Giovanni Poggi, per presentare le condoglianze a Carlo V, ritiratosi in un convento gerosolimitano presso Toledo a piangere la morte della consorte Isabella (1° maggio 1539). All’occasione risalgono la lunga consolatio Ergo etiam nostros, Caesar, te volvere casus. Poiché gli accordi di Nizza avevano previsto il matrimonio tra il giovane Ottavio Farnese e la figlia naturale di Carlo V Margherita d'Asburgo, il M. si prodigò a celebrare la iuventus del futuro secondo duca di Parma nell’elegia Extinctum flebat quondam Venus aurea Adonim, che si profonde in un rigoglio di immagini mitologiche senza accennare al futuro connubio. Concepiti espressamente per le nozze sono invece i sonetti Eterno foco, e più d’ogni altro grato e Gite, coppia gentil, e ’l bel sommesso. Anche per le nozze di Vittoria Farnese, figlia di Pierluigi, con Francesco duca d’Aumale, terzogenito di Claudio III duca di Guisa, il M. compose per tempo un epitalamio di 322 esametri e un sonetto. Ma le trattative, condotte tra il 1540 e il 1541, ebbero esito negativo
Nell’ottobre 1538, nonostante gli sforzi del M. e dei suoi conoscenti di bloccarne l’uscita, apparve a Venezia l’edizione non autorizzata Rime di diversi per cura del letterato veneziano Francesco Amadi, che raccoglievano i componimenti di tre poeti: Girolamo Molin, Girolamo Brocardo e il Molza. La parte del M., la più consistente del volume, era composta di 48 sonetti, 8 canzoni, un componimento in terzine, le Stanze per il ritratto di Giulia Gonzaga e la Ninfa Tiberina. Sempre al M. vi era attribuita una seconda parte delle Stanze sul ritratto della Gonzaga, che in realtà costituiscono un autonomo poema di Gandolfo Porrino. Il volumetto proponeva con una certa omogeneità tre autori che per diversi rispetti non si potevano ricondurre al magistero bembiano e anzi nel caso di Brocardo erano stati protagonisti di una contrapposizione che aveva assunto coloriture drammatiche fino, secondo la fama, alla morte di crepacuore del poeta a causa dell’ostracismo infertogli nella società letteraria veneziana, che gli avrebbe procurato il suo modo di versificare in dissenso dalla maniera bembesca. Quella veneziana rappresenta peraltro l’unica edizione in vita di versi del M., che non curò di dare forma organica ai suoi scritti e li diffuse in maniera informale presso amici e conoscenti senza preoccuparsi della circolazione incontrollata che ne scaturì.
Conclusesi le attività dell’Accademia dei Vignaiuoli, il M. continuò a partecipare al sodalizio anche quando, verso il 1538, si diede una organizzazione più regolata sotto il nome di Gioco e poi Reame della Virtù per impulso di Claudio Tolomei. Al cenacolo aderivano inoltre Caro, Franzesi, Giovan Francesco Leoni, Giulio Poggio, Francesco Monterchi, Marco Manilio, Tommaso Spica.
All’attività del Reame della Virtù si deve riportare anche il Commento di ser Agresto da Ficaruolo sopra la prima ficata di padre Siceo, composto sotto pseudonimo da Caro non oltre la prima metà del 1539 sopra il capitolo Delle fiche del M. e andato a stampa nell'agosto dello stesso anno. Precede l’operina la dedica al M. e a Caro, cioè rispettivamente l’autore del testo commentato e quello del commento, a firma di Barbagrigia stampatore, cioè Antonio Blado, ma che in realtà è di pugno dello stesso Caro. Ne esce un ritratto sorridente dell’amico, che unisce il lato serio del consiglio al suo signore, all’epoca il cardinale Alessandro Farnese, e della salda erudizione a quello della festevolezza e della socialità. In maniera impreveduta dall’autore, lo scritto fu oggetto di una intensa circolazione manoscritta, le cui vicende sono ricostruibili attraverso l’epistolario di Caro.
Dal principio 1541 Tolomei tentò di rianimare le riunioni languenti dei Virtuosi con l’innesto di nuovi personaggi e con un programma più nettamente orientato all'indagine antiquaria. Quale testimonianza di questa nuova fase si deve considerare la lettera di Luca Contile a Sigismondo d’Este il 18 luglio 1541. Al momento in cui scrive, informa Contile, l’attività dell'Accademia consisteva in radunarsi due volte la settimana per leggere a turno Vitruvio. Secondo recenti ricostruzioni, esauritasi l’Accademia della Virtù, Tolomei sarebbe stato l’animatore di una Accademia Vitruviana, che si sarebbe spenta a sua volta con la sua partenza da Roma nel 1542: una filiazione sarebbe l’Accademia dello Sdegno, nelle cui fila sarebbero confluiti molti dei Vitruviani, a cominciare dallo stesso Tolomei, e nuovi personaggi, come Trifone Benci, Dionigi Atanagi, Girolamo Ruscelli, Giovan Battista Palatino, Tommaso Spica. L’Accademia era già costituita e operante verso la fine del 1542 e il M. risulta esserne stato partecipe.
Nell’estate 1538 si erano frattanto manifestate le prime avvisaglie del morbo che avrebbe segnato gli ultimi anni di vita del M., in un alternarsi di fasi acute e di periodi di quiescenza. Nel 1539 si registrò un sensibile miglioramento, ma il 1° sett. 1540 il male aveva fatto progressi tali da impedirgli di scrivere di suo pugno una lettera al figlio Camillo. Del 2 ottobre seguente è una toccante lettera del M. al figlio, nella quale lamenta le ristrettezze in cui viveva, le spese per i medici e gli speziali, i tradimenti dei domestici infedeli, ma anche esprime pensieri più accorati del solito per la stolidezza di Camillo nel governare gli affari di famiglia. L’8 apr. 1541 Franzesi ragguagliava Varchi, allora a Bologna, sullo stadio avanzato della malattia e sull’inefficacia delle cure: il M. era allora ricoverato nel palazzo S. Giorgio, dimora del cardinale Farnese. Nel 1542 un peggioramento lo indusse a pensare al ritorno a Modena: il timore della fine imminente ispirò la commossa elegia Ad sodales, con cui prese congedo dagli amici in toni di malinconico rimpianto per le gioie condivise nel passato. La «bellissima, e lacrimosa elegia» era composta il 17 ag. 1542 e Caro ne diede notizia a Giovan Francesco Stella e, il successivo 10 settembre, al figlio del M., Camillo, rassicurandolo che il padre non era in pericolo di vita. Si era infatti diffusa la notizia della morte, suscitando cordoglio e poi un’ondata di rallegramenti di seguito alla smentita.
Camillo si recò a Roma con i denari per il viaggio e trasportò il padre a Modena, dove giunsero nel maggio 1543. L’epistolario di Caro testimonia l’affettuosa intimità che da Modena teneva il M. legato agli amici romani e l’apprensione con cui essi si tenevano informati sul suo stato di salute. Caro gli inviava nuove sulla cronaca dell’Urbe, insieme con incoraggiamenti a seguire le cure prescritte e a confidare nella guarigione. Il 4 giugno 1543 ricevette la visita di Ottavio Farnese e il 2 luglio del cardinale Alessandro. Lo raggiunse Trifone Benci, che dopo la morte del cardinale Contarini, nel 1542, era rimasto libero da uffici e si dedicò totalmente all’amico, standogli accanto sino alla fine. Benci coadiuvò anche il M. nel tentativo di dare una veste ordinata agli scartafacci che il poeta, sinora indifferente all’esigenza di sistemare i suoi scritti, aveva portato con sé da Roma. Un provvisorio miglioramento manifestatosi al principio del soggiorno modenese permise di portare a compimento il corpus di elegie latine, in quattro libri, che oggi costituisce il codice Vaticano Borgiano 367, autografo.
Il riacutizzarsi del male con il sopraggiungere della stagione fredda interruppe i lavori editoriali e la situazione ebbe un ulteriore aggravamento quando alla fine dell’anno il M. subì un’emiparesi facciale, da lui attribuita a terapie errate a cui si era sottoposto, che, oltre a menomarlo pesantemente, lo gettò nello sconforto e lo indusse a non accettare più cure mediche. La crisi fu superata ma le condizioni generali erano tali da far ritenere imminente la fine, come scrisse a Bernardo Spina Contile, che visitò il malato il 14 febbraio. Il 25 successivo il M. ricevette l’ultima visita del cardinale Farnese, che si recò a Modena espressamente per vederlo. Agli ultimi giorni risale anche la testimonianza di Tommasino de' Bianchi di un M. sfigurato dal male e che tuttavia, in preda a una sorta di delirio, smaniava di mettersi in viaggio per Roma, nonostante le forze venissero meno.
Il 28 febbr. 1544 il M. morì a Modena nella casa di famiglia. Fu sepolto il giorno dopo nella chiesa di S. Lorenzo, dove erano inumati i genitori. Epilogo di una vita familiare vissuta sempre come una costrizione e nella quale egli non seppe esprimere i pregi della sua ricca umanità fu la modesta sepoltura, alla quale solo 42 anni dopo, nell’ottobre 1586, la nuora Isabella Colombi aggiunse un epitafio con il nome anche del marito Camillo e del figlio Ludovico, che vi erano stati pure tumulati.
Il giorno della morte del M. Camillo comunicò la notizia al cardinale Farnese offrendo i suoi servigi (Lettere d'uomini illustri, p. 98). L’11 marzo 1544 partì per Roma insieme con il fratello Alessandro, per recuperare gli effetti paterni e presentarsi al cardinale Farnese nella speranza di ricevere qualcuno dei favori riservati al padre. Tennero dietro i tentativi di dare alle stampe gli scritti paterni. Il cardinale Farnese, tramite il letterato Giacomo Gallo, richiese a Benci il manoscritto delle elegie, che gli fu spedito il 3 sett. 1544. Benci fu indennizzato con il compenso di 10 scudi. Alla realizzazione di una stampa di tutte le poesie del M. si opponeva però lo stato caotico in cui si trovavano i manoscritti. Il 3 ag. 1546 Camillo si offrì di occuparsene (ibid., pp. 99-100), ma ricevette l’ordine di consegnare le opere volgari a Caro a Piacenza e quelle latine a Girolamo Fracastoro a Venezia, affinché le correggessero e le ordinassero per la stampa. Camillo avrebbe dovuto seguire solo l’esecuzione della stampa. Il 10 sett. 1547 il duca Pierluigi Farnese fu assassinato a Piacenza: Caro ebbe a temere per la sua vita e riuscì a mettere in salvo a stento le carte molziane. Nonostante tutto, portò a termine la revisione e consegnò il lavoro a Camillo per la stampa. Questi non ne fece nulla. Solo molti anni dopo si recò a Venezia e lasciò l’incartamento in mano di non si sa chi, quindi, tornato a Modena, passò a miglior vita. Ciò avveniva il 22 o 23 apr. 1558. Il 16 giugno 1558 la moglie Isabella comunicò la notizia al cardinale Farnese, pregandolo di prendere sotto la sua protezione i tre figli maschi. Il 16 luglio i «i libri del Molza» furono consegnati da Isabella al cardinale, che li fece riavere a Caro per l’ennesimo tentativo di edizione. Questi, costatando la confusione in cui erano state ridotte le carte, rispedì tutto a Modena, chiudendo definitivamente il progetto di dare veste tipografica alle cose molziane maturato negli stessi ambienti in cui si erano prodotte ed erano state apprezzate.
Il pronipote Camillo, figlio di Tarquinia (morto a Roma nell’aprile 1631), lavorò all’edizione delle rime del bisnonno e, raccoltele, vi premise la dedica al principe Alfonso d'Este (25 apr. 1614) e una prefazione. Il lavoro, pronto per la stampa, è testimoniato dal manoscritto Palatino 269 della Biblioteca nazionale di Firenze.
Una medaglia funebre con l’effigie del Molza fu coniata da Leone Leoni: perduta, resta l’elogio che ne fa Aretino in una lettera all’artista del luglio 1545 (Lettere). Secondo la testimonianza di G. Vasari, il M. è ritratto, insieme con altri letterati, nella Sala degli uomini illustri di casa Farnese affrescata da Taddeo Zuccari nella villa Farnese di Caprarola.
Dopo l’imponente edizione curata da P.A. Serassi Delle poesie volgari e latine (Bergamo 1747-54 in tre volumi; ristampata la vita e le poesie in volgare), fondamentale anche per la biografia, le lettere e altri documenti relativi al M. che accoglie, sono disponibili in edizioni moderne critiche o commentate: La Ninfa Tiberina, a cura di S. Bianchi,. Milano 1991; Elegiae et alia, a cura di M. Scorsone - R. Sodano, Torino 1999; Capitoli erotici, a cura di M. Masieri, Galatina 1999; Lettera al figlio Camillo (1537), a cura di A. Barbieri, in Lo stracciafoglio, i (2000) n. 2, pp. 40-44 (www.edres.it); Elegia (ca. 1510), a cura di R. Sodano, ibid., pp. 45-51.
Fonti e Bibl.: Christophori Longolii Orationes duae... Eiusdem epistolarum libri quatuor…, Florentiae 1524, c. 76r-v; F. Berni, Poesie e prose, a cura di E. Chiorboli, Genève-Firenze 1934, ad ind.; Epistolario di Bernardo Dovizi da Bibbiena, a cura di G.L. Moncallero, II, 1513-1520, Firenze 1965, pp. 223 s.; Lilii Gregorii Gyraldi Ferrariensis Dialogi duo de Poëtis nostrorum temporum…, Florentiae 1551, p. 49; Il primo volume delle lettere di Luca Contile diviso in due libri, Venezia 1564, pp. 19-20, 68; Lettere d'uomini lilustri conservate in Parma nel Regio Archivio, a cura di A. Ronchini, Parma, 1853, pp. 99-100; G. Vasari, Le vite de' più eccelenti pittori, scultori ed architettori, a cura di G. Milanesi, VII, Firenze 1906, p. 113; A. Caro, Lettere familiari, a cura di A. Greco, I-II, Roma 1957-59, ad ind.; P. Giovio, Gli elogi degli uomini illustri, a cura di R. Meregazzi, Roma 1972, p. 125; Id., Dialogi et descriptiones, a cura di E. Travi - M. Penco, Roma 1984, p. 233; P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, II, Bologna 1987, ad ind.; III, ibid. 1992; P. Aretino, Lettere, a cura di P. Procaccioli, I-IV, Roma 1997-2000, ad indices; F. Baiocchi, Sulle poesie latine di F.M. M., in Annali della Scuola Normale di Pisa, XVIII (1905), pp. 1-172; M. Vattasso, I codici molziani della Biblioteca Vaticana. Con un appendice di carmini inediti o rari, in Miscellanea Ceriani. Raccolta di scritti originali per onorare la memoria di m.r Antonio Maria Ceriani prefetto della Biblioteca Ambrosiana, Milano 1910, pp. 531-555; W. Söderhjelm, Le manuscrit de nouvelles de F.M. M., in Mélanges offerts à Emile Picot par ses amnis et ses élèves, I, Paris 1913, pp. 167-176; G. Sasso, F.M. M. e Vittoria Colonna, in Atti e memorie dell’Accademia di scienze, lettere ed arti di Modena. Sezione lettere, s. 4, III (1931-32), pp. 3-13; A. Roncaglia, La questione matrimoniale di Enrico VIII e due umanisti italiani contemporanei, in Giornale storico della letteratura italiana, CX (1937), pp. 106-119; A. Bullock, Vittoria Colonna and Francesco Maria Molza, in Conflict in Communication, XXXII (1977), pp. 41-51; R. Belladonna, Some linguistic theories of the Accademia Senese and the Accademia degli Intronati of Siena: an essay on continuity, in Rinascimento, XVIII (1978), p. 237; R. Fedi, In obitu Raphaelis, in Studi di filologia e critica offerti dagli allievi a Lanfranco Caretti, I, Roma 1985, pp. 195-223; M. Danzi, Il Raffaello del Molza e un nuovo codice di rime cinquecentesche, in Rivista di letteratura italiana, IV (1986), pp. 537-559; S. Bianchi, Le rime di F.M. M.. Studio introduttivo e saggio di edizione, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze, a.a. 1988-89; Id., Un manoscritto autografo di rime di F.M. M., in Filologia e critica, XVII, 1992, pp. 73-87; R. Fedi, Uno sconosciuto sonetto di F.M. M., in Forma e parola. Studi in memoria di Fredi Chiappelli, a cura di D.J. Dutschke et al., Roma 1992, pp. 341-350; A. Bisanti, «Lavorare il terreno». Una metafora erotica dalla commedia elegia al Molza, in Esperienze letterarie, XVIII (1993), 3, pp. 57-68; G. Aquilecchia, Nuove schede di italianistica, Roma 1994, pp. 49-76; S. Bianchi, Apocrifi molziani in alcuni antichi e moderni manoscritti e stampe, in Studi e problemi di critica testuale, 50 (1995), pp. 29-39; G. Gorni, Casi di filologia cinquecentesca: Tasso, M., Da Porto, Michelangelo, in Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, Milano 1996, pp. 425-442; A. Barbieri, F.M. M. autore della commedia «Gl’Ingannati», in Atti ememorie dell’Accademia nazionale si scienze, lettere e arti di Modena, s. 7, XIV, (1996-97), pp. 221-225; Id., Biografia di F.M. M. dalle Lettere, in Nuovi Annali della Scuola speciale per archivisti e bibliotecari, XII (1998), pp. 117-153; Id., Gl’Ingannati come prototipo teatrale, in Nuova secondaria. Mensile di cultura, VII, (1998), pp. 78 s.; Id., Il M. o la malinconia. La sfortunata vicenda di uno tra i primi poeti del nostro Rinascimento, Firenze 1998; Id., «Gl’Ingannati» di M., uomo di teatro, in Giornale storico della letteratura italiana, CLXXVI (1999), pp. 388-395; Id., Un’ipotesi sulla traduzione francese degli Ingannati, in La Bibliofilia, CII, 2000, pp. 171-175; Id., La paternità dell’Aurelia, in Revue des études italiennes, XLVII (2001) pp. 243-246; S. Bianchi, Le rime di F.M. M., in Edizioni di lirici petrarcheschi del Quattrocento e del Cinquecento, Univ. di Roma «La Sapienza», Dip. di italianistica e spettacolo, 2001; A. Luzio - R. Renier, La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d’Este Gonzaga, a cura di S. Albonico, Milano 2005, p. 229; P.O. Kristeller, Iter Italicum., 1960-92, ad indices.