PIAVE, Francesco Maria
PIAVE, Francesco Maria. – Librettista, nacque a Murano (Venezia) il 18 maggio 1810, figlio di Giuseppe (vetraio, podestà di Murano dal 1808 al 1816) e di Elisabetta Casarini, fratello di Andrea e Luigi Nicolò.
Fino al 1827 frequentò il Seminario patriarcale di Venezia. I quattro anni successivi non sono documentati: probabilmente seguì il padre a Pesaro, dove proseguì gli studi letterari e (forse) filosofici. In data non precisabile (1831?) si trasferì a Roma, forse grazie all’amicizia del padre con Gregorio XVI, eletto papa in quell’anno. Il 10 aprile fu affiliato all’Accademia Tiberina (Miragoli, 1924, p. 186) dove entrò in contatto con influenti personalità della cultura romana come Jacopo Ferretti e Giuseppe Gioachino Belli. Divenne anche socio d’Arcadia; il Catalogo dei Pastori arcadi (vol. 10, Custodia Gabriele Laureani, c. 101r, n. 1229 [olim 1014]) riporta: «1837 – Piave sig. Francesco Maria, Veneto – Crisandro Eurotense» (soprascritto al precedente nome «Tersandro», cancellato). La notizia trova conferma nell’Indice per nomi pastorali (ibid., c. 184r).
Il 26 agosto 1838, scrivendo a Ferretti, Piave comunicò la morte del padre e la decisione di rientrare a Venezia, dove giunse il 6 settembre, per ricongiungersi alla famiglia. Qui lavorò come revisore-correttore presso il tipografo Giuseppe Antonelli («piucche padre», a Ferretti 23 settembre 1838; Cagli, 1987, p. 9), sotto il quale probabilmente aveva già fatto esperienza da adolescente. Per Antonelli tradusse il Compendio della storia del cristianesimo dell’abate di Bérault Bercastel dalla discesa dello Spirito Santo fino a’ nostri giorni condotta (4 voll., 1839-42) e il Dizionario delle date, dei fatti, luoghi ed uomini storici, o Repertorio alfabetico di cronologia universale di A.-L. d’Harmonville (6 voll., 1842-47, con aggiunte di Piave secondo Cicogna, 1853, p. 497). Durante una visita dell’imperatore Ferdinando I a Venezia e alla tipografia Antonelli (15 ottobre 1838), Piave gli recitò un sonetto; l’apostrofe all’«Alto Signore» alludeva all’apertura liberale, che molti italiani speravano allora dal sovrano (a Ferretti, 24 ottobre 1838; Cagli, 1987, p. 10). Nel 1840 Piave iniziò la collaborazione con la Gazzetta privilegiata di Venezia, per la quale scrisse «non pochi articoli, spezialmente di Belle Arti» (Cicogna, 1853, p. 498), a partire dal 30 marzo; fra i pittori recensiti, Ippolito Caffi, Horace Vernet, Ferdinando Bassi.
La lettera di Piave a Ferretti dell’11 settembre 1841 documenta l’inizio dell’attività di librettista: «sto cavando un libretto buffo dalla Bottega del caffè di Goldoni», terminato 16 giorni dopo (Cagli, 1987, pp. 11 s.); si tratta del Don Marzio per il compositore Samuel Levi, che rimase inedito e non fu mai rappresentato. In calce all’autografo si legge: «il mio primo lavoro di simil genere […] con tutta la modestia di un Debutante» (Venezia, Archivio storico del teatro La Fenice, autografo, c. 18r). Il 22 marzo 1842 Piave scrisse a Ferretti di aver «quasi compiuto un secondo» libretto (Cagli, 1987, p. 12): alludeva al Duca d’Alba scritto da Giovanni Peruzzini per Giovanni Pacini, alla cui revisione Piave contribuì. Il 17 agosto 1843 siglò il contratto per un libretto da fornire a Giuseppe Verdi, per la prima volta a Venezia (Conati, 1983, p. 69); già terminata la ‘selva’ (ossia la prima stesura in prosa) e la versificazione di un Cromvello da Victor Hugo (27 agosto), il 5 settembre Verdi e la presidenza fenicea optarono per l’Hernani dello stesso drammaturgo, e un nuovo contratto (23 settembre) obbligò Piave a completare il nuovo libretto in meno di due mesi (il Cromvello passò poi a Pacini nel 1848, reintitolato Allan Cameron). Così scrisse a Ferretti il 13 novembre 1843: «in 70 giorni ho dovuto scrivere due libretti d’Opera seria. Il primo Cromvello non fu trovato abbastanza spettacoloso; fu dunque d’uopo scrivere il secondo che ha per titolo ‘Ernani. Azione lirica in quattro parti’» (Cagli, 1987, p. 14).
Ernani è quindi il terzo libretto completo scritto da Piave, non precisamente l’opera di un principiante. La collaborazione con Verdi segnò la svolta nella carriera del librettista: fu la prima occasione in cui Piave affrontò temi cari alla giovane generazione e alla nuova mentalità del ribellismo, di cui Hugo era il simbolo. Analogo impegno emerse nei due successivi libretti, entrambi del 1844 ed entrambi per Verdi: I due Foscari (da Byron) e Lorenzino de’ Medici (da Giuseppe Revere; nel 1845 Verdi abbandonò il progetto, che passò a Pacini).
I due drammi tematizzano punti centrali del pensiero politico coevo: nel primo il rapporto fra legge e volontà individuale («doveri» e «diritti», nelle parole di Mazzini), nell’altro il tirannicidio e l’anticesarismo (un personaggio di grande rilievo è il cospiratore Filippo Strozzi, nome che Mazzini usava come pseudonimo nell’esilio svizzero).
Dopo il successo dei Due Foscari (Roma, 3 novembre 1844), favorito anche dai contatti romani di Piave, Verdi nel 1846 gli chiese di rivedere il libretto dell’Attila di Temistocle Solera, altra opera dai forti temi politici, e iniziò a consultarlo anche per la scelta dei cantanti. Molti altri compositori gli si rivolgevano come a un collaboratore fidato; Piave scrisse 9 libretti per Pacini, 5 per il veneziano Tommaso Benvenuti, 4 per Federico Ricci e per Gaetano Braga, 2 per Cagnoni, Levi, Liguoro, Peri, Pisani e Balfe, per Verdi 10 (se si contano Stiffelio e Aroldo a sé, e senza i due citati progetti andati a vuoto). Dei rimanenti libretti, la maggior parte fu affidata a musicisti meno noti; in alcuni casi non si conosce neppure il nome del compositore cui erano destinati.
Piave si produsse anche nel genere comico; dopo il citato «melodramma giocoso» Don Marzio scrisse almeno altri cinque libretti di tal genere (l’ultimo è La tombola per Antonio Cagnoni, 1867). Il più celebre fu Crispino e la comare, musicato dai fratelli Luigi e Federico Ricci nel 1850, un «libretto fantastico-giocoso» quasi noir (Crispino si confronta con la Comare, cioè la Morte, ma, diversamente da Don Giovanni, si pente per tempo e viene perdonato).
Il biennio rivoluzionario coinvolse anche Piave; il 19 febbraio 1848, da Milano dove provava Il campo dei Crociati (La schiava saracena) di Mercadante, poi probabilmente rinviata per le Cinque Giornate, scrisse a un «caro amico» di Venezia (Guglielmo Brenna?): «non vedo l’ora d’essere a casa mia perché il soggiorno di Milano non è […] certamente de’ più piacevoli» (Venezia, Archivio storico del teatro La Fenice, Prot. Pres. 108, c. 1v). Tornato in patria, nel 1849 fu attivo nella Repubblica di San Marco, dapprima come sorvegliante delle caserme, quindi sottotenente della Guardia civica, infine capitano quartier mastro della I Legione; in questa situazione Verdi gli scrisse: «Iddio vi benedica miei buoni veneziani […] dimmi a lungo quali sono le vostre speranze» (Parigi, 1° febbraio 1849, Morazzoni, 1929, pp. 29-30). Nel 1850 Piave propose a Verdi Stiffelio, basato su un argomento allora assai scottante, il divorzio, già affrontato nella Griselda (1846-47) per Federico Ricci, tratta dalla Griseldis di Friedrich Halm (Griselda, diversamente dalla tradizione di Boccaccio e Petrarca, si ribella alle ingiuste prove inflittele dal coniuge e lo abbandona).
Seguirono i grandi libretti per Verdi – oltre i già citati, e dopo il Macbeth (1847) e Il corsaro (1848), furono Rigoletto (1850), La traviata (1853), Simon Boccanegra (1857) e La forza del destino (1862) – ma anche lavori fortunati come Vittor Pisani e Rienzi per Achille Peri, fino ai tardi libretti del 1867 Don Diego de Mendoza per Pacini e Olema la schiava per Carlo Pedrotti (data solo nel 1872; gli autografi, conservati nell’Archivio storico del teatro La Fenice, sono di estremo interesse).
Il recente ritrovamento del Fondo Piave al Museo del vetro di Murano, ora a Casa Goldoni a Venezia (21 libretti autografi, 35 a stampa), offre un nuovo ritratto del librettista, ben diverso dal luogo comune del facile versificatore prono agli ordini del musicista. Se il rapporto con Verdi è di subalternità, ben diverso è l’atteggiamento di Piave con gli altri compositori, per esempio Federico Ricci, cui abitualmente consegnava un ‘testo d’autore’ definitivo. Altrettanto autoriale è l’atteggiamento con Pacini; quando per esempio questi chiede modifiche all’Assedio di Leida a causa del «colore politico che vi è dentro», Piave non acconsente per una questione di coerenza drammatica («tutta l’opera porta la stessa tinta»; lettera del 12 giugno 1852, in Antolini, 2003, p. 193). Per quanto riguarda Verdi, il principale merito di Piave, più che nella qualità della versificazione o nel taglio delle scene, risiede nella fedeltà all’intenzione teatrale, all’«effetto» immaginato dal compositore sin dalle prime ispirazioni. Dalla consultazione degli autografi emerge anche la pratica artigianale: Piave era uso conteggiare il numero dei versi per scene e atti (in media 200-250 per atto), sicché si osservano frequenti indicazioni numeriche circa l’estensione delle scene. Negli anni più fecondi Piave giunse a scrivere un libretto ogni due-tre mesi, per un totale di circa 70 libretti in circa 25 anni di attività.
Secondo l’uso coevo, le responsabilità del poeta teatrale non si limitavano alla stesura del testo verbale: gli spettava anche la cura della messinscena. In una nota biografico-professionale per la domanda di assunzione alla Scala, indirizzata al governatore della città Massimo d’Azeglio, datata 17 marzo 1860 (Sant’Agata, Archivio Verdi; copia a Parma, Istituto nazionale di Studi verdiani) si legge: «dal 1844 egli fu sempre addetto a quel Gran Teatro della Fenice, come poeta e direttore della messa in scena di quegli Spettacoli»; il documento contrasta con la documentazione della Fenice, che solo dal 1849 al 1859 lo indica come «Poeta incaricato per la messa in scena degli Spettacoli» (Il teatro La Fenice, 1989, pp. 191-229). Nel 1854 Piave chiese a Verdi e alla contessa Giulia Samoyloff (così si firmava Julija Pavlovna Samojlova) aiuti per trasferirsi alla Scala (Antolini, 2003, p. 191); Verdi gli rispose da Parigi (10 febbraio 1854): «per il posto alla Scala […] so che la fatica è infinitamente più grande che non a Venezia» (dove Piave era impegnato solo per un quadrimestre); «potresti resistere a stare per dieci mesi dell’anno inchiodato sul palco scenico avendo da fare con tutte le teste di c… che lo riempiono?» (Baker, 1986-87, p. 160).
Il 15 gennaio 1855 nella parrocchia di S. Stefano a Venezia sposò la cantante Elisa (Elisabetta) Gasparini (nata a Gorizia nel 1825, morì a Milano nel 1906), che gli era stata presentata per un’audizione dal tenore Antonio De Val (Quarti, 1939, p. 334); dal matrimonio nacque una figlia, Adelina, anch’essa cantante: nel 1883 era pronta per il debutto (poi mancato) alla Fenice (Abbiati, 1959, IV, p. 187). Cantò anche a Parigi, dove la sentì Emanuele Muzio, che nel 1883 ne diede un giudizio non del tutto negativo (G.N. Vetro, L’allievo di Verdi Emanuele Muzio, 1993, p. 203).
Solo nel 1859 Piave abbandonò la Fenice, chiusa per la guerra; così ne scrisse a Verdi: «mi raccomando a te, se ti è possibile lavora per me, che ne ho molto bisogno fisico e morale», alludendo a possibilità di lavoro nei teatri di Genova o Milano (1° dicembre 1859; Abbiati, 1959, II, p. 564). Lasciata Venezia, rimasta austriaca, il 3 marzo si stabilì con la famiglia a Milano; con l’appoggio di Clara Maffei e di Verdi presso il nuovo governatore d’Azeglio, il 30 giugno 1860 firmò il contratto con la Scala (Milano, Biblioteca Trivulziana, Cart. 115, fasc. 5: Contratti dell’Appalto Marzi).
Fu creata per lui una figura nuova nella struttura scaligera, che riuniva le competenze fin allora separate del ‘poeta’ (sostituendo Peruzzini) e del ‘direttore di scena’ (sostituendo Giovanni Carraro) preposto alla parte visiva (con il compito di «mettere in iscena le opere», fare le «ordinazioni» per la scena e le commissioni per i «figurini»). Il contratto obbligava Piave a stilare le «ordinazioni» anche «pei Teatri Carignano e Regio di Torino» (art. 5); il tutto per un mensile di sole 130 lire (un cantante di cartello guadagnava circa 300 volte tanto per stagione; lo stesso Piave prendeva circa 600-1000 lire per libretto). La Gazzetta musicale di Milano segnalò l’assunzione (XIX, n. 27, 7 luglio 1861, pp. 108 s.), riportando un elenco dei suoi libretti.
Nel 1865 Piave cercò di ottenere la nomina per l’insegnamento di letteratura drammatica e declamazione nel conservatorio milanese. Sconsigliato da Verdi («sarebbe un fiasco certo, e bisogna evitarlo», 21 gennaio 1865; Marica, 2002, p. 312), Piave volle egualmente presentare la domanda, respinta. Il carico di lavoro e la delusione professionale finirono per esaurirlo: il 5 dicembre 1867 fu colpito da un ictus cerebrale che gli tolse l’uso della parola e la possibilità di movimento. Ricordi pubblicò nel 1868 un Album per canto a benefizio del poeta melodrammatico F. M. Piave: vi presero parte Auber, Cagnoni, Mercadante, Federico Ricci, Thomas e lo stesso Verdi (Stornello); l’incasso andò a sostegno della famiglia. Piave visse ancora nove anni in stato semivegetativo; la famiglia fu aiutata da diversi musicisti, ma soprattutto da Verdi, che garantì anche «completa educazione e sicuro avvenire» alla figlia (Giulio Ricordi, Gazzetta musicale di Milano, XXXI, n. 11, 12 marzo 1876, p. 96).
Morì il 5 marzo 1876; Verdi si assunse tutte le spese del funerale e della sepoltura nel Cimitero monumentale di Milano.
Soltanto da qualche decennio è stata avviata un’oculata riconsiderazione della produzione librettistica di Piave, tradizionalmente giudicata grossolana e convenzionale. Spesso egli affrontò tematiche attuali e impegnative; i libretti non verdiani mostrano un’autonoma capacità di adattare le forme del melodramma alle più complesse strutture narrative della letteratura internazionale.
Fonti e Bibl.: E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, VI, Venezia 1853, pp. 496-498 (utilizza notizie dedotte da F.M. Piave, Nota autografa destinata all’amico Emmanuele Cicogna, Venezia, Biblioteca del Museo Correr, Epistolario Cicogna, 893/5); P. Cambiasi, La Scala, 1778-1906, Milano 1906, passim; L. Miragoli, Il melodramma italiano dell’Ottocento, Roma 1924, pp. 186-206; G. Morazzoni, Verdi. Lettere inedite, in La Scala e il Museo teatrale, III (1929), pp. 15-46; G.A. Quarti, F. M. P. poeta melodrammatico, in Rivista italiana del dramma, III (1939), pp. 318-340; F. Abbiati, Giuseppe Verdi, Milano 1959, ad ind.; M. Conati, La bottega della musica, Milano 1983, ad ind.; E. Baker, Lettere di Giuseppe Verdi a F. M. P. 1843-1865, in Studi verdiani, IV (1986-87), pp. 136-166; B. Cagli, «… questo povero poeta esordiente». P. a Roma. Un carteggio con Ferretti, la genesi di “Ernani”, in Ernani ieri e oggi, Parma 1987, pp. 1-18; F. Della Seta, Il librettista, in Storia dell’opera italiana, a cura di L. Bianconi - G. Pestelli, IV, Torino 1987, pp. 260-264; Il teatro La Fenice. Cronologia degli spettacoli 1792-1936, a cura di M. Girardi - F. Rossi, Venezia 1989; E. Baker, The correspondence of Giuseppe Verdi and F. M. P. 1843-1867. A preliminary list, in Verdi Forum, 2001-02, n. 28-29, pp. 32-39; M. Marica, Le lettere di Verdi a P. custodite presso l’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano di Roma, in Pensieri per un maestro. Studi in onore di Pierluigi Petrobelli, a cura di S. La Via - R. Parker, Torino 2002, pp. 299-312; B.M. Antolini, La collaborazione tra P. e Pacini nelle lettere della Biblioteca Nazionale di Roma, in Intorno a Giovanni Pacini, a cura di M. Capra, Pisa 2003, pp. 191-216; C. Frigau, «Escan d’Italia i barbari». “Vico Bentivoglio” l’ultimo libretto di Piave, in Chroniques italiennes, 2006, n. 77-78, pp. 127-150; F. Izzo, Verdi, Solera, P. and the Libretto for “Attila”, in Cambridge Opera Journal, XXI (2009), pp. 257-265; E. Baker, P. F. M., in The Verdi Cambridge Encyclopedia, a cura di R.M. Marvin, Cambridge 2013, pp. 339-341; Non solo Giuseppe Verdi. Inediti e non di F. M. P., a cura di B. Poli - C. Squarcina, Venezia 2013 (contiene in facsimile un elenco autentico dei libretti con aggiunte manoscritte della moglie, p. 9); I. Bonomi, Lingua e drammaturgia nei libretti verdiani, in Un duplice anniversario: Giuseppe Verdi e Richard Wagner, a cura di I. Bonomi - F. Cella - L. Martini, Milano 2014, pp. 157-160; E. Rescigno, P. comincia da Goldoni. Il “Don Marzio” per la musica di Samuel Levi, in Studi goldoniani, XI (2014), pp. 21-66; A. Rostagno, P. librettista, due esempi: Lo Sperlingo, Griselda, in Scrittori in musica. I classici italiani nel melodramma tra Seicento e Novecento, in Studi (e testi) italiani, 2015, n. 36, a cura di S. Tatti (in corso di pubblicazione).