CARACCIOLO, Francesco Marino
Figlio di Marino, principe di Avellino, e di Francesca d'Avalos, nacque postumo il 29 genn. 1631. Erede universale dei titoli e dei beni del padre, che nel suo testamento non aveva mancato di indirizzargli suggerimenti pratici per conseguire prestigio e successo, fu tenuto a battesimo per procura dall'infanta di Spagna, Maria, regina d'Ungheria, la quale poco prima della sua nascita aveva goduto dell'ospitalità della principessa d'Avellino. Il C. fu posto dapprima sotto la tutela dello zio Tommaso Caracciolo, vescovo di Cirene, il quale assolse ai suoi doveri nei confronti del nipote con molto impegno e, oltre ad amministrarne i beni. ottenne per lui la successione nell'ufficio di gran cancelliere, già detenuto dal padre, e dal 1636 lo stipendio di capitano di una compagnia di uomini d'arme. Passato sotto la tutela di un altro zio, Giuseppe Caracciolo, principe di Torella, il 25 maggio 1646 il C. compare per la prima volta quale attore in un documento pubblico.
Scoppiato a Napoli nel 1647 il moto che prese nome dal capopopolo Masaniello, il C. si diede ad assoldare uomini per metterli a disposizione del viceré. Presto però le sue terre furono raggiunte dall'ondata di rivolta. Dopo una infruttuosa puntata a Montoro, ebbe notizie della sollevazione di San Severino e si ritirò in Avellino, ma, mentre Paolo di Napoli si impadroniva del suo palazzo di Atripalda, egli, che sentiva di essere in una situazione precaria, anche se l'ordine del viceré, consapevole dell'importanza strategica della città, era di tenere Avellino saldamente, abbandonò il castello. Rifugiatosi dapprima a Capua, raggiunse verso il 15 dicembre con lo zio Giuseppe, che era accorso in suo aiuto, Aversa, dove erano concentrati molti baroni fedeli alla Spagna e vi rimase fino al principio dell'anno successivo, mentre gli insorti (19 dicembre) avevano occupato e messo a sacco la sua città. Nel consiglio di guerra del 6 gennaio, cui prese parte, il C. era stato contrario al parere di ritirarsi, che però fu poi approvato dalla maggioranza. Si portò quindi a Capua, poi a Gaeta e infine il 22 febbraio nella parte di Napoli fedele al viceré. Conclusosi il moto rivoluzionario con la partenza del duca di Guisa e con la riconquista - cui partecipò anche il C. - dei quartieri presidiati dai popolari, ai primi di. aprile del 1648, riebbe dai Parenti di Paolo di Napoli, fatto uccidere dal duca di Guisa, Avellino e San Severino. Nel giugno il C., che era stato segnalato per l'impegno posto nel ristabilimento dell'ordine da don Giovanni d'Austria in una sua relazione, consegnò al nuovo viceré, il conte di Oñate, un prete che aveva fatto arrestare ad Atripalda, perché latore di lettere filofrancesi.
Quando nell'estate la flotta francese, guidata dal principe Tommaso di Savoia effettuò, dopo aver occupato Procida, uno sbarco a Vietri, vicino Salerno, il C. partecipò con segnalato coraggio ai combattimenti, che furono - con successo - ingaggiati per impedire la costituzione di una pericolosa testa di ponte.
Nell'ottobre del 1650 il C., che pure aveva avuto un certo atteggiamento di fronda nei confronti dell'autoritario viceré ed era stato per questo detenuto per due brevi periodi in Castelnuovo, partecipò a Napoli al solenne rito, che si celebrò alla presenza dell'Oñate, nella chiesa del Carmine, in ringraziamento del felice esito della spedizione contro Portolongone, caduta qualche anno prima nelle mani dei Francesi. Poco più di due anni dopo presenziò dopo una sfarzosa cavalcata ad un rito analogo nella stessa chiesa in occasione della riconquista di Barcellona da parte del sovrano spagnolo. Nel 1653 fu incaricato di recare al papa la tradizionale chinca. Egli prese parte al corteo, che si svolse a Roma con grandissima pompa il 28 giugno, ma ritornò a Napoli senza aver chiesto licenza ad Innocenzo X, poiché si rifiutò di attendere per essere ricevuto.
Quando, l'anno dopo, il duca di Guisa effettuò un nuovo sbarco, questa volta a Castellammare (14 novembre). il C., che come il padre e il nonno era generale della cavalleria, si adoperò nelle operazioni militari, che costrinsero poco più di un mese dopo al reimbarco i Francesi. Da Pavia, ove nel 1655 aveva recato un corpo di cavalleria in aiuto alla città assediata dal duca di Modena, il C. tornò a Napoli agli inizi dell'anno successivo, quando già cominciava a serpeggiare la peste. Rimase in un primo tempo nella città partenopea esercitando il suo ufficio di gran cancelliere, ma poi si recò ad Avellino, dove giunse il 10 giugno, quando l'epidemia si andava ormai manifestando con gran virulenza. In questa occasione si prodigò con intelligenza e abnegazione: cercò di circoscrivere la diffusione del morbo, distribui soccorsi in viveri e in denari e predispose altre provvidenze. Ciononostante soltanto il 9 dicembre il C. poté celebrare con la cittadinanza superstite un Te Deum di ringraziamento per la fine del contagio. Di nuovo a Napoli almeno dal 1659, l'anno dopo inviò un cartello di sfida al connestabile Colonna e nel dicembre partecipò a una processione.
Nel 1662 il C., che l'anno prima era stato creato maestro di campo dello Stato di Milano, si recò a corte in Spagna, forse per sollecitare il grandato. Non l'ottenne, ma l'anno dopo divenne consigliere collaterale e il 18 giugno fu insignito del Toson d'oro da Filippo IV, che inoltre, il 23 marzo 1664, rese ereditario nella famiglia il gran cancellierato. Nel febbraio del 1672 il C., che l'anno prima aveva disapprovato l'opportunità di imporre il calmiere contro la lievitazione dei prezzi, caldeggiato prima e quindi messo in atto dal viceré, cadde ammalato. Ristabilitosi, fu al principio del 1673 uno dei nobili che accolsero il viceré marchese d'Astorga, ma si ammalò di nuovo nel luglio 1674 e morì il 12 dicembre a Napoli. Fu sepolto ad Avellino, nella chiesa del Carmine.
Aveva sposato a Madrid il 7 nov. 1666 Geronima Pignatelli, dalla quale ebbe Francesca, Giovanna e Marino Francesco Maria.
Il C., che svolse anche attività di mecenate, si avvalse dell'opera dello scultore Cosimo Fansaga e fondò l'Accademia degli Inquieti, che aveva sede nel suo palazzo di Atripalda. Nel 1652 Ippolito Viola gli dedicò una sua opera sui sarti; Carlo De Lellis, due anni dopo, il primo tomo dei suoi Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli e Scipione Bellabona la seconda edizione (Trani, 1656) dei Raguagli sulla città di Avellino.
Fonti e Bibl.: M. Bisaccioni, Historia delle guerre civili..., Venezia 1653, pp. 426, 453, 483, 496; M. Giustiniani, Historia del contagio di Avellino, Roma 1662, passim; F. Capecelatro, Diario, a cura di A. Granito, II, Napoli 1852, pp. 55, 60, 119, 331, 353, 374, 378, 411, 537; III ibid. 1854, pp. 12, 71 s., 222 s., 317, 409, 417 s., 513; I. Fuidoro, Succesi del governo del conte d'Oñatte, a cura di A. Parente, Napoli 1932, pp. 36, 53 s., 84, 163, 184, 187, 189-95; G. Zigarelli, Storia della cattedra di Avellino, III, Napoli 1856, pp. 20-25, 32-36; M. Maylander, Storia delle Accad. d'Italia, III, Bologna 1929, p. 299; F. Scandone, Storia di Avellino, III, Avellino 1950, pp. 72-99, 372; B. Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, I, Napoli 1956, pp. 176 s., 183; F. Fabris, La genealogia della fam. Caracciolo, a cura di A. Caracciolo, Napoli 1966, tavv. V, VIIIa.