MELOSIO, Francesco
– Nacque a Città della Pieve, presso Perugia, il 9 genn. 1609 da Federico e da Maddalena Isabella Brizi. La famiglia paterna figura negli elenchi dei nobili pievesi del secolo XVI (Perugia, Biblioteca comunale, Mss., G.105, c.89).
Compiuti i primi studi a Firenze, si trasferì a Roma per seguire i corsi di filosofia e giurisprudenza, entrando poi al servizio, in qualità di aiutante di camera, del cardinale Bernardino Spada, appassionato collezionista di opere d’arte. La sua prima composizione databile (1634) è il Lamento di Volestano moribondo (in Norreri), sul generale dell’esercito imperiale Albrecht von Wallenstein assassinato il 25 febbr. 1634. Insoddisfatto del proprio stato alla corte del cardinale, il M. lasciò il servizio il 10 ag. 1640, ma probabilmente si trattenne ancora a Roma, poiché due suoi sonetti, in difesa di Gian Lorenzo Bernini contro le critiche degli avversari al campanile di S. Pietro e alla statua di s. Longino nella basilica, furono composti non prima dell’anno successivo. Nel corso del 1641 dovette tuttavia trasferirsi a Venezia, dove cominciò a operare nell’ambiente musicale come poeta. Tre suoi sonetti in lode della cantante Anna Renzi furono pubblicati nella seconda impressione del libretto di Giulio Strozzi La finta pazza con musiche di Francesco Sacrati (Venezia 1641), mentre il suo primo libretto di dramma per musica, L’Orione, commissionato dal teatro di S. Moisè, non fu accettato.
Il soggetto del dramma, il pellegrinaggio di Orione a Delo e la sua involontaria uccisione da parte di Diana, era affatto nuovo per l’epoca. Il gigantesco cacciatore Orione, accecato dal re Enopione, che non voleva dargli in sposa la figlia Merope, raggiunge l’isola di Delo insieme con il fedele amico Filotero. Sull’isola, come predetto dall’oracolo, Orione recupera la vista per l’intervento di Apollo. Cade però vittima di uno scherzo di Amore, che lo fa invaghire di Aurora e di Diana, suscitando l’ira di Venere e la gelosia di Titone, marito di Aurora. Venere, con la complicità di Amore, induce Apollo a vendicarsi di Orione, accusandolo di una presunta offesa al dio. Con un inganno, Apollo induce così la sorella Diana a colpire con una freccia mortale l’amato Orione, scambiato per un mostro marino. La morte di Orione suscita l’ira di suo padre, Nettuno, che scatena una tempesta. È solo con l’intervento di Giove che ritorna la pace fra gli dei: l’eroe ucciso è assunto in cielo e trasformato in costellazione. Nell’originale libretto momenti di ironica rappresentazione del mondo mitologico – come nella scena dei Ciclopi, della quale sembra ricordarsi, trent’anni dopo, il Persée di J.-B. Lully – si alternano con scene di intenso e raffinato pathos, come nel celebre lamento di Diana (atto III, scena 4).
In sostituzione del dramma rifiutato, il M. scrisse per il teatro di S. Moisè il Sidonio e Dorisbe, musicato da Nicolò Fontei (Venezia 1642).
L’argomento è tratto dall’Adone di G.B. Marino (c. XIV, «Degli errori», ott. 196-396), dove si narra del principe Sidonio, che si finge giardiniere per essere accanto a Dorisbe, la principessa nemica, della quale è segretamente innamorato. A differenza dell’Orione, è nelle possibilità della messa in scena, più che nel testo, che il Sidonio e Dorisbe offre numerose novità rispetto ai drammi per musica rappresentati in quegli anni nei teatri veneziani. Sono esclusi dalla vicenda divinità e personaggi mitologici e l’attenzione dello spettatore è catturata dalle peripezie romanzesche del protagonista, che conducono, con un alternarsi di situazioni patetiche e drammatiche, allo scioglimento felice della vicenda. Al Prologo, con le figure allegoriche della Fortuna e dell’Ardire, è anteposto uno «Scherzo» metateatrale, con un coro di dame che giocano, interrotte da un messaggero di Talia introdotto dal Tempo, che le invita a lasciare il palcoscenico per far posto all’improvvisa apparizione della scena teatrale e a diventarne spettatrici. Una novità adottata contemporaneamente a Roma nelle scene, ideate da Andrea Sacchi, ma già attribuite a G.L. Bernini, del Palazzo d’Atlante.
Anche questo libretto non fu pagato dal committente, il musicista e impresario Pietro Francesco Caletti detto Cavalli, e il M. si rivolse prima al nobile N. Contarini, poi a un certo avvocato Pozzi. Per l’occasione scrisse due capitoli in terza rima, in cui espresse le sue ragioni con freddure e ironie. Probabilmente del 1642 è anche il sonetto Lodasi la penna di un virtuoso amico (in Poesie e prose, Venezia 1695) dedicato a Claudio Monteverdi, che in quell’anno rappresentò al teatro dei Ss. Giovanni e Paolo L’incoronazione di Poppea.
Già nel periodo veneziano versi del M. furono musicati da Carlo Caproli, Giacomo Carissimi, Fabrizio Fontana, Arcangelo Lori, Marco Marazzoli, Atto Melani, Carlo Rainaldi, Luigi Rossi, Mario Savioni e inseriti nelle raccolte di Filiberto Laurenzi (Concerti et arie a una, due e tre voci, ibid. 1641) e Loreto Vittori (Arie a voce sola, ibid. 1649). Altre poesie, quaternari, sonetti e serenate testimoniano di una permanenza del M. a Ferrara, di incerta durata e collocazione temporale, ma probabilmente successiva al soggiorno veneziano e comunque all’anno di pubblicazione delle Poesie di Ignazio Trotti (Ferrara 1646), che ancora manoscritte avrebbero procurato al M. incubi notturni. Nobile ferrarese era anche il marchese Guido Villa, maresciallo di campo del re di Francia e generale di cavalleria al servizio del duca di Savoia Carlo Emanuele II, che diventò protettore del M. negli anni Quaranta. Villa partecipò alla liberazione di Casale Monferrato dall’assedio degli Spagnoli, argomento del sonetto del M. Nel soccorso di Casale con la rotta dei Spagnoli (in Norreri), così come lo è la satira A Dio alli Spagnoli nell’uscir dalla cittadella d’Asti (ibid.), composta probabilmente alla fine di luglio 1644. Intorno a quella data potrebbe quindi ritenersi la sua entrata al servizio del marchese. Alla corte di Torino, per una giostra, compose invece due sonetti dedicati «alle bellissime donne» della città, uno per i cavalieri della Costanza e l’altro per i cavalieri indiani.
Nel 1647 gli alleati toscani di Odoardo Farnese, duca di Parma in lotta con il papa per il possesso del Ducato di Castro e Ronciglione, assediarono e occuparono Città della Pieve. Un parente del M., Luca, fu preso come ostaggio insieme con altri maggiorenti della città e portato a Firenze, mentre la casa del M. fu devastata. Un quaternario composto sulla sua casa in rovina può far pensare a un breve ritorno del M. nella città natale in quello stesso anno e a un suo soggiorno a Roma dovrebbe risalire la descrizione della piena del Tevere del 1647 in una poesia su un debitore condotto in prigione in barca, dedicata al cardinale Camillo Pamphili. Dello stesso anno deve ritenersi anche il Lamento di Marinetta moglie di Masaniello (ibid.), il capo delle sollevazioni di Napoli del 1647.
Fu invece una tenebrosa affaire alla corte di Torino a ispirare al M. i suoi sonetti insieme più famosi e controversi.
A Torino, all’inizio del 1648, furono condannati a morte i presunti responsabili di un’improbabile congiura contro il giovane duca Carlo Emanuele e sua madre, la reggente Cristina di Francia. Un frate autore di almanacchi, Giovanni di Santo Stefano, sospettato di aver disseminato nelle sue opere maldicenze contro il duca, la reggente e il marchese Giacinto Simiana di Pianezza, fu imprigionato e sottoposto a tortura. Fra i tormenti confessò l’esistenza di una congiura e accusò il senatore Bernardino Sillano, Gian Antonio Solino, aiutante di camera della reggente, e l’uditore Masino di Nizza di aver fatto diversi tentativi di assassinare il duca e la madre, prima avvelenando l’acqua santa, poi per mezzo di fiori dai vapori velenosi e infine progettando di utilizzare un rituale magico con statuette di cera da trafiggere con un’acuminata spina di pesce. Il M. descrisse nitidamente il tragico epilogo della vicenda in quattro sonetti (ibid.), implacabili nel loro contrappunto di spietate acutezze e degni di stare a paragone con le più inquietanti incisioni di Jacques Callot, Le miserie della guerra o I supplizi.
Con un’evidente forzatura si è voluto stabilire (Gnoli) un nesso fra questi sonetti patibolari e la nomina del M., di poco successiva, a viceuditore generale di guerra nell’armata del duca di Savoia, carica che corrispondeva a quella di giudice criminale militare. Nelle motivazioni della patente ducale – unico documento ufficiale reperito sulla carriera militare del M. – si dichiara che egli era «non meno habile nelle cose della guerra che nella professione delle belle lettere» e che gli sarebbero state assegnate «livre ottanta d’argento a soldi venti l’una al mese di giorni quaranta» (Arch. di Stato di Torino, Patenti controllo Finanze, 1300-1717, R.1648, c. 28).
Per questo suo nuovo incarico la paga tardava ad arrivare e il M. chiese l’interessamento del conte Francesco Costa di Polonghera (nell’agosto 1648, all’assedio di Cremona, era morto il suo nobile protettore, il marchese Villa). Nell’aprile 1652 ebbe una licenza per la morte di un suo fratello a Città della Pieve e a Roma incontrò Salvator Rosa. Tornò in Piemonte nel mese successivo. Nel 1653, in occasione dell’elezione a re dei Romani di Ferdinando d’Asburgo figlio dell’imperatore Ferdinando III, il governatore di Milano Luis de Benavides, marchese di Caracena, pubblicò e fece rappresentare l’Orione, il vecchio dramma già rifiutato nel 1642 a Venezia, con musica di P.F. Caletti, e il M. dovette rimaneggiare il prologo per l’occasione, inserendovi le lodi del giovane Ferdinando.
Ancora dal Piemonte, nel 1654, il M. mandò a Rosa un capitolo ispirato alla Satira dell’invidia composta alcuni mesi prima dal pittore. Fu questo probabilmente l’ultimo anno di servizio presso il duca di Savoia. A Perugia, sempre nel 1654, fu rappresentata e stampata, postuma, la commedia delle Fortunate gelosie del principe Rodrigo di Giacinto Andrea Cicognini, della quale il M. aveva firmato il Prologo. Due anni dopo, a Roma, in un’accademia della regina Cristina di Svezia tenuta in palazzo Farnese, il M. recitò La bugia, poesia estemporanea ispirata a un candeliere d’argento vinto nell’estrazione di una lotteria, giocando sul doppio significato della parola bugia (in Poesie e prose).
La composizione, vivamente applaudita in accademia, colpì anche il marchese Massimiliano Palombara, gentiluomo alla corte di Cristina di Svezia, che due anni dopo raccolse proprio col titolo La bugia le sue rime ermetiche (rimaste inedite), in uno stile che può ricordare alcune composizioni del Melosio. Ancora a Roma nel 1658, il M. pronunciò un discorso all’Accademia degli Umoristi, l’ultima domenica di carnevale. Attraverso il cardinale C. Pamphili ottenne quindi da monsignor P. Muti Papazzuri, segretario della Consulta, il governatorato di Monteleone di Spoleto. Nel paese inospitale passò un durissimo inverno, lamentandosene con il cardinale in un quaternario satirico. Intorno al 1659 ottenne il governo di Capranica (ne dà notizia in una lettera datata 4 giugno 1659, pubblicata in calce a una sua poesia, in Poesie e prose). Altri particolari biografici su quegli anni si desumono dalle lettere di Rosa al fiorentino G.B. Ricciardi. Rosa informava che il M. era divenuto sacerdote, che dichiarava (probabilmente mentendo) di aver affatto abbandonato la poesia e faceva, conseguentemente, qualche progresso nella carriera di governatore.
Il M. ebbe altri incarichi di governo, non importanti ma maggiormente lucrosi, negli anni successivi, finché ebbe la possibilità di ritirarsi a vita privata nella città natale, dove compose versi latini, dedicati al vescovo Reginaldo Lucarini, su Città della Pieve, e un Carme sacro sull’Ascensione. L’unica composizione italiana databile con sicurezza agli ultimi anni è un recitativo ameno, il Lamento che fa il Mangia di Siena, del 1667, fornito dal letterato senese Giacomo Maria Cenni insieme con altri inediti del M. al curatore della terza edizione delle Delle poesie (Venezia 1678).
Il M. morì a Città della Pieve il 2 marzo 1670 e fu sepolto nella cattedrale, nella cappella di S. Francesco. Alcuni anni dopo la sorella Cecilia fece porre sulla tomba una lapide sormontata dal ritratto del Melosio.
Il M. non curò mai la raccolta dei suoi componimenti, ma diverse edizioni delle poesie furono pubblicate postume, fra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, via via arricchendosi di inediti. Caduto in un oblio quasi completo nei secoli successivi, coinvolto nel generale discredito della poesia barocca, il M. riacquistò una sua dubbia notorietà di freddurista grazie a un saggio di D. Gnoli d’impianto positivistico, apparso alla fine dell’Ottocento. Il giudizio sostanzialmente negativo di Gnoli è stato stancamente ripetuto fin quasi a oggi con poche eccezioni. Inascoltata apparve infatti l’intuizione di C. Calcaterra, che rivendicò l’originalità del M. come poeta melico, liberandolo dalla limitazione di poeta delle acutezze fredde e fuor di luogo, per giudicarlo «uno dei poeti manieristici che più svolsero la nuova maniera veristica e sensuale» (p. 32). Ai recenti saggi di R.R. Holzer e R. Freitas si deve una valutazione più comprensiva della poesia del Melosio.
Opere: Firenze, Biblioteca nazionale, II.VIII.154 (poesie); II.IV.637 (minute autografe di poesie); Ibid., Biblioteca Riccardiana, Mss., 474; Misc. Riccardiana, 2869 (poesie); Urbania, Biblioteca comunale, Mss., 30 (una canzone); Bologna, Biblioteca Gozzadini, Gozz., 140-151 [Av. I.II.2], vol. III, 6, c. 83 (La pastorella, ottave); Udine, Biblioteca comunale, Mss., 206 (sonetti); Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Morosini-Grimani, 65, cc. 24, 50-65 (sonetti giocosi); 85, n. 107 (una poesia); Cicogna, LXXI.1228/620, cc. 125-130 (raccolta di sonetti amorosi); Poesie e prose, Cosmopoli 1672; Poesie e prose, Bologna 1676; Delle poesie, Venezia 1678; Poesie e prose, Venezia 1695; Poesie e prose, ibid. 1704; Sonetto in disprezzo della corte, Per nozze Sanmartin - Franci, Padova 1884 e Livorno 1884; Promessa di fede del Melosi dal cod. N.474, della Riccardiana, sonetto, Nozze Calzolari Morelli - Malerbi, 21 apr. 1884, Poggibonsi 1884; M. Scherillo, Commedia dell’arte in Italia, Torino 1884, pp. 14 s.; I. Norreri, Un quaternario politico ed altre poesie inedite di F. M., in Bollettino della R. Deputazione di storia patria per l’Umbria, XII (1906), pp. 519-528; C. Calcaterra, Lirici del ’600 e dell’Arcadia, Milano 1936, pp. 349-364; Parnaso italiano, VII, Poesia del Seicento, a cura di C. Muscetta - P.P. Ferrante, Torino 1964, pp. 1801-1813; Poesia italiana. Il Seicento, a cura di L. Felici, Milano 1978, pp. 504-506; Le parole e le ore. Gli orologi barocchi: antologia poetica del Seicento, a cura di V. Bonito, Palermo 1996, pp. 70-73; Drammi per musica. Discorsi accademici, a cura di D. Gambacorta, Perugia 2009.
Fonti e Bibl.: Lettere inedite di Salvator Rosa a G.B. Ricciardi, a cura di A. De Rinaldis, Roma 1939, pp. 136 s., 155 s., 174 s., 215; S. Rosa, Poesie e lettere inedite, trascritte e annotate da U. Limentani, Firenze 1950, p. 94; G. Bolletti, Notizie storiche di Città della Pieve, Perugia 1830, p. 277; D. Gnoli, Un freddurista del Seicento, in Nuova Antologia, 16 apr. 1881, pp. 575-595; F. Canuti, Nella patria del Perugino, Città di Castello 1926, pp. 303-318; A. Belloni, Il Seicento, Milano 1929, pp. 325 s.; C. Calcaterra, Poesia e canto. Studi sulla poesia melica italiana e sulla favola per musica, Bologna 1951, pp. 30-33; U. Limentani, Salvator Rosa - Nuovi studi e ricerche, in Italian Studies, VIII, (1953), pp. 46-49; N. Pirrotta, Il caval zoppo e il vetturino. Cronache di Parnaso 1642, in Collectanea historiae musicae, IV (1966), pp. 215-226; L. Bianconi, Caletti, Pietro Francesco, in Dizionario biografico degli Italiani, XVI, Roma, 1973, pp. 688 s.; R.R. Holzer, Music and poetry in seventeenth-century Rome: setting of the canzonetta and cantata texts of Francesco Balducci, Domenico Benigni, F. M., and Antonio Abati, Ann Arbor, MI, 1990, passim; P. Ariatta, Il lamento del Mangia in un recitativo ameno di F. M., in Bullettino senese di storia patria, XCIX (1992), pp. 403-408; R. Freitas, Singing and playing. The Italian cantata and the rage for wit, in Music & letters, LXXXII (2001), pp. 509-542.
M. Catucci