MICHIEL, Francesco
MICHIEL, Francesco. – Nacque a Venezia il 7 maggio 1641 da Angelo di Costantino e Maria di Nicolò Surian. Era il quarto di sei figli maschi: Girolamo (nato nel 1630), Niccolò (nato nel 1631), Costantino (1639-57; nobile d’armata che cadde nella battaglia dei Dardanelli il 17 luglio), Marino (1642-95, provveditore generale delle Armi in Morea) e Domenico (nato nel 1645).
L’esistenza del padre del M. fu troppo breve perché gli si aprisse – dopo l’ingresso in Maggior Consiglio il 4 dic. 1634 – una carriera di rilievo: fu della Camera d’imprestidi; fu tra i votati, il 28 febbr. 1644, alla Podesteria di Chioggia; avogador di Comun, s’oppose, poco prima di morire, nel febbraio 1646, con un discorso fremente di sdegno in Maggior Consiglio, all’allargamento della nobiltà marciana, deciso dal Senato previo un versamento (cui si cominciava a ricorrere per fronteggiare le spese della guerra antiturca).
Certo che il M. – il quale antecedentemente era stato «principe» dell’Accademia dei Generosi (che, diretta dal somasco Giuseppe Ventilati docente di retorica nel seminario ducale di Murano, s’era costituita quale espressione del collegio nobiliare qui ospitato e si era distinta con una miscellanea in prosa e versi offerta al doge Bertucci Valier dal titolo La gloria da acquistarsi col proprio valore …, Venetia 1657, nella quale figuravano componimenti del M. e di suo fratello Marino) –, accasandosi, il 10 sett. 1662, con Cassandra di Girolamo Damiani, vedova di Giovan Battista Moro, si discostò dall’ossessione paterna d’una nobiltà incontaminata. La moglie, non nobile ma ricca, sgomberò da angustie economiche la carriera politica del Michiel.
Eletto il 6 luglio 1664 podestà di Vicenza, si sottrasse alla carica e il 10 agosto fu designato al suo posto il fratello Niccolò, che, raggiunta la sede, vi rimase sino al 31 maggio 1667. Nominato, il 13 luglio 1668, rappresentante veneto presso Carlo Emanuele II e all’uopo istruito dalla commissione del 19 settembre, il M. partì a fine novembre, giungendo, a causa del maltempo, solo il 25 dicembre a Torino, dove il 19 febbr. 1669 fece l’ingresso ufficiale.
Il M. doveva impegnarsi a promuovere la causa del «soccorso» sabaudo alla Repubblica, impegnata nella guerra di Candia, ma il ministro delle Finanze Giovanni Battista Trucchi appariva insensibile alle richieste, conformemente «alla bassezza de’ suoi natali», sottolineava il M. che sembra far proprio l’odio della grande nobiltà piemontese per chi assecondava la volontà dello stesso duca d’abbassarne l’influenza. Non mancava comunque d’affannarsi a sollecitare la «raccolta delle genti» da avviare alla volta di Creta, di rappresentare le «pressanti urgenze» della sua difesa, anche quando si diffuse la voce – che s’ostinò a smentire; d’altronde solo il 19 ottobre il Senato ammise con lui la pace colla Porta – della resa. Né giovò al prestigio del M. e della Serenissima l’arresto, sia pure momentaneo, d’un paggio che il 13 luglio 1670 aveva attaccato briga, proprio nell’anticamera del duca, con un paggio dell’abate d’Altacomba Antonio di Savoia, ossia il figlio naturale di Carlo Emanuele I. Evidente, nel duca intimante al M. la consegna del violento, l’intento di por fine una volta per tutte agli arroganti comportamenti del personale dell’ambasciata veneta. Ma, per la Serenissima, troppo remissivo il M., che avrebbe dovuto non acconsentire all’imperiosa richiesta di consegna.
Inutile, d’altra parte, la permanenza del M. laddove il governo era poco convinto della necessità del mantenimento di rapporti stabili con Torino. Già il 9 ag. 1670 il Senato gli ordinò di prendere licenza dal duca e dalla corte, adducendo ragioni personali e di salute, per poi, il 23, aggiungere d’aver cura, prima della partenza, di levare dalla sede le insegne venete. Con la sua partenza senza che altri gli succedesse nell’incarico, le relazioni veneto-sabaude – riprese, dopo oltre trent’anni d’interruzione, nel 1662 – furono prossime a una nuova interruzione, sancita con il congedo da Venezia, il 5 marzo, del conte Giovanni Battista Bigliore Luserna, l’ambasciatore sabaudo, e prolungatasi per oltre settant’anni.
Nominato il 5 nov. 1670 ambasciatore in Francia, il M., dopo aver riferito in Senato sulla missione piemontese il 21 genn. 1671, ottemperando alla commissione del 18 marzo, partì da Padova il 27 aprile per arrivare a fine maggio a Parigi. Fece il suo ingresso pubblico il 14 settembre e il 4 novembre presentò le credenziali a Luigi XIV.
Comunque non era certo col sovrano che il M. poteva avanzare le timide proteste della Serenissima per il contrabbando dei «gondolieri» con la livrea dell’ambasciata di Francia a Venezia, per un vascello veneto «arrestato» e condotto a Tolone, per lo «svaleggio» di una nave veneziana perpetrato da un corsaro francese. Anche se il re mostrò al M. la sua benevolenza: tenne infatti a battesimo il suo ultimogenito, nato a Parigi l’11 giugno 1673; gli conferì il cavalierato e dimostrò la sua gratitudine per il dono, da parte della Serenissima, d’una gondola dorata e adornatissima che arrivò a Versailles nel 1679. I ministri del re, invece, prestavano al M. una cortese, ma anche distratta attenzione, mentre la Repubblica, come insisteva il M., era sempre pronta ad assecondare la Francia, a esempio liberando nel 1671 tutti i galeotti francesi imbarcati nella flotta veneta. Ma quel che prevale nei dispacci è il dispiegarsi, impersonato dal re Sole, d’una potenza che, inarrestata, s’impone e rispetto alla quale Venezia è ininfluente. Ammagato il M., come genuflesso – e un po’ genuflesso l’intero governo veneto – in una sorta d’adorante ammirazione lungo la quale lo scrupoloso cronista delle mosse del re (che era sempre in movimento; e sempre in movimento pure il M. che seguiva «i regii passi») diventa, pur nell’informare il proprio governo, il cantore del gigante della storia, nel quale le «doti più preclare et eccellenti», le qualità più straordinarie «unite insieme» costituiscono la stupefacente «perfettione» d’uno strepitoso «prodigio della natura». Non appariva pertanto il caso d’infastidire il sovrano bisbigliando che una nave francese aveva recato «insulto», nell’Arcipelago, a un mercantile veneto, elencando i tanti atti pregiudizievoli contro i legni di S. Marco, rammentando che a Durazzo un «petacchio» con «effetti» di mercanti veneziani era stato predato da un vascello che pareva maiorchino e che, comunque, sventolava il vessillo di Francia. Intimidita, la Serenissima non osava fare presente la propria tanto vantata giurisdizione del Golfo e consigliava il M. di evitare di parlarne, paga la Repubblica e il suo ambasciatore di memorizzare le condiscendenti espressioni di buona disposizione per Venezia e di considerare che le prepotenze francesi in mare avvenivano al di fuori della volontà regale.
Il 23 sett. 1673 il M. fu nominato ambasciatore presso l’imperatore e pertanto si congedò dal sovrano francese, una volta giunto a Parigi l’8 novembre il successore Ascanio Giustinian. Arrivò a Padova solo il 19 genn. 1674 e presentò a Venezia la relazione che – sfrondata dell’entusiasmo ammirante dei dispacci – si limitava a constatare che Luigi XIV «regge da sé solo» – ossia senza un minimo di spazio ai «regii fratelli», ai «principi di sangue», a un qualche «favorito» – «con assoluto impero i popoli».
Gli fu consegnata la commissione del 17 febbr. 1674 relativa al nuovo incarico diplomatico e in aprile intraprese, con tre figli e un nipote, il viaggio a Vienna, che si concluse in giugno.
Costante argomento negli incontri del M. coi funzionari cesarei furono le questioni confinarie specie dalla «parte del Friuli» quando da Graz partì un bando contro sudditi veneti di Moggio per presunte operazioni a danno degli arciducali. Un editto del quale il M. chiese la ritrattazione. E, laddove si verifica la clamorosa irruzione armata dei «bagolinesi» nel contado del conte Antonio di Lodrone, spettò al M. addebitare a costui – di per sé «feudatario e suddito» della Serenissima; e, tuttavia, fieramente antiveneziano – una provocatoria prepotenza a danno della Comunità di Bagolino. Ma era soprattutto l’effettivo esercizio della giurisdizione adriatica a suscitare contrasti, laddove i sequestri operati dai navigli armati veneti non erano riconosciuti a Vienna e se ne pretendeva il rilascio. Motivo d’allarme per la Repubblica le aspirazioni portuali di Trieste, Fiume, Buccari; ed eventualità paventata l’affacciarsi da qui d’una presenza mercantile, incoraggiata da Vienna, d’operatori olandesi e d’altre «nationi». E sin lesiva pel sempre ribadito dominio marciano del Golfo la pretesa del viceré di Napoli, cui aderì la corte cesarea per la concomitante pressione della diplomazia spagnola, al passaggio di milizie per l’Adriatico, cui la Repubblica non poteva assentire per principio e in linea di coerenza con la propria neutralità, che il M. valorizzava in termini d’una meritoria vocazione alla pace, al cui ripristino invitava anche l’imperatore Leopoldo I. Tramite tutta la sua diplomazia e soprattutto tramite l’abilità argomentativa del M., Venezia s’autocandidava, con toni sommessi ma non per questo privi di presunzione, alla mediazione, nell’illusione di ritrovare il ruolo d’autorevole arbitraggio svolto, con Alvise Contarini, nelle paci di Vestfalia nel 1648. Ma era decisa l’opposizione spagnola a che si desse spazio a un intervento veneziano e pertanto lungo il 1675 la ventilata mediazione della Serenissima fu lasciata cadere.
Il M. – che, ancora l’8 nov. 1676, aveva chiesto d’esser sollevato dall’onere di un’ambasciata nociva, perché troppo dispendiosa e logorante della sua salute –, una volta sostituito da Ascanio Giustinian, a metà dell’ottobre 1677, si portò a Baden, per di qui rientrare a Venezia, dove, il 19 marzo, presentò la propria relazione. Denunciava in questa la «diffidenza» dell’imperatore pei propri «ministri», cui, tuttavia, affidava «il maneggio del governo».
Più volte savio del Consiglio, più volte membro del Senato, savio di Terraferma, savio alla Scrittura, savio all’Arsenale, allorché, nel 1685, si trattò di designare, il 10 maggio, il podestà di Verona e, l’8 novembre, il capitano di Vicenza, figurava tra i votati, ma non a sufficienza. Ancora attorno al 1675 l’anonima rassegna dei patrizi più in vista aveva esclusa per lui l’assegnazione d’un «reggimento» in una qualche importante città suddita. Tenuto il rettore in questa a rapporti colla nobiltà locale, spesso superba, era motivo di imbarazzo e di inopportunità politica la presenza di una moglie che fosse «dama di grado inferiore». Fatto sta che il M., pur diplomatico accreditato, non fu preposto – come forse aspirava – a un capitanato o a una podesteria di spicco, ma continuò a operare all’interno di palazzo ducale, essendo, nel 1694, savio del Consiglio.
Il M. morì a Venezia, nella sua casa a S. Leonardo, il 19 nov. 1699.
Degli almeno quattro figli maschi avuti dalla moglie, mentre il primogenito Angelo (1663-86) scomparve antecedentemente la morte del M., restarono Costantino (1665-1717 circa; fu avogador di Comun), Girolamo (1668-1767; fu nobile in armata e provveditore all’Arsenale) e Nicolò Alvise (1673-1767; fu della Quarantia e, nel 1731-32, rettore a Belluno).
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G. Benzoni