MONTI, Francesco
MONTI, Francesco. – Figlio di Stefano, «egregio sartore» della corte estense, nacque a Bologna nel 1685 (Zanotti, 1739, II, p. 217).
Quattro anni dopo la famiglia si trasferì a Modena. All’età di quindici anni il padre lo avviò alla scuola di Sigismondo Caula, un pittore all’epoca affermato in città. Nel 1703, grazie ai buoni uffici di Pellegrino Antonio Orlandi, entrò nello studio bolognese di Gian Gioseffo Dal Sole, che allora rappresentava l’erede della lezione carraccesca contro l’accademismo di Marcantonio Franceschini. Alla sua bottega poté conoscere il giovane Donato Creti, avvicinandosi così alla tendenza più aggiornata della cultura pittorica felsinea, quella di Giuseppe Maria Crespi e Antonio Gionima.
La sua prima opera documentata è la Pentecoste, dipinta nel 1713 per la chiesa di S. Spirito in Reggio Emilia (ora in S. Prospero), firmata e datata. La tela, pur dipendente dalla maniera di Dal Sole, si di mostra coraggiosa per l’innovativo schema iconografico e sperimentale nella ricerca di modi espressivi autonomi. Attorno al 1715 risale la Sacra Famiglia con s. Giovanni Battista in S. Maria Maddalena a Bologna, un’opera che rivela la conoscenza dei lavori di Simone Cantarini e Creti, per l’uso della materia sfratta e trasparente e per la stesura pittorica morbida e chiaroscurata, che si risolve in uno stile brioso. Nel 1720 fu aggregato all’Accademia Clementina e l’anno successivo ne fu nominato direttore (Zanotti, 1739, I, pp. 67 s.). Intorno a questi anni dipinse per i marchesi Durazzo di Genova una tela raffigurante Achille che trascina il corpo di Ettore (Genova, palazzo Durazzo Pallavicini). Alla stessa committenza si devono tre tele con storie di Alessandro Magno: il Nodo gordiano, l’Entrata in Babilonia e la Visita alla moglie di Dario, della stessa collezione genovese. L’inaspettata inventiva della messa in scena e la padronanza tecnica di queste tele rivelano un artista ormai cresciuto, sempre più vicino al gusto sofisticato di certa pittura veneta rococò, in particolare quella di Giovan Battista Pittoni. Nel 1723 ricevette dal conte Antonio Bianchini la commissione di decorare la sacrestia dell’oratorio di villa Bianchini a Lavinio di Sotto, impresa che però egli affidò nelle mani del quadraturista Giovanni Zanardi, suo futuro collaboratore. Nel 1725, quando non era presente a Bologna, fu eletto principe dell’Accademia Clementina (Zanotti, 1739, I, p. 71). Monti si trovava infatti a Venezia, dove lo aveva chiamato l’irlandese Owen Mc- Swiny – attore, drammaturgo e vulcanico impresario teatrale – con l’incarico di disegnare i cartoni realizzati da Carlo Cignani per gli affreschi del palazzo dei Giardini di Parma che erano stati acquistati dal console inglese a Venezia Joseph Smith. Grazie alla buona riuscita di questa operazione, McSwiny decise di coinvolgere Monti nella prestigiosa committenza delle cosiddette «tombe allegoriche» inglesi. Fin dal 1723, infatti, McSwiny stava pianificando la realizzazione di 24 tele per commemorare alcuni dei più famosi protagonisti della storia inglese; la serie era patrocinata da Charles Lennox, duca di Richmond, che avrebbe voluto esporla nella dining roomdella propria residenza di campagna a Goodwood. Si trattava di uno dei primi tentativi di creare «un contrapposto secolare e patriottico all’iconografia sacra della Controriforma e alla più generalizzata pittura d’historie del continente » (Haskell, 1966). Allo scopo McSwiny aveva interpellato gli artisti di maggior fama di Bologna e Venezia oltre a Monti: Creti, Canaletto, Pittoni, Sebastiano e Marco Ricci, Antonio Balestra e Giovan Battista Piazzetta, distribuendo i compiti in base alle varie specialità, in modo che in ogni dipinto intervenissero più pittori, per le figure, per le architetture, per il paesaggio. A Monti spettano cinque tele: le allegorie di James Stanhope (1726, Bologna, Pinacoteca Nazionale), di William Cadogan (Londra, The Matthiesen Gallery), di Sydney Godolphin (1727, Londra, The Matthiesen Gallery), di Archibald Campbell, I duca di Argyll (Bologna, Pinacoteca nazionale) e di William Cowper, lord cancelliere di Inghilterra (coll. priv.), le prime quattro in collaborazione con Nunzio Ferraioli, per la parte del paesaggio, e con Pietro Paltronieri detto il Mirandolese, per l’architettura, mentre l’ultima sempre con Ferraioli per il paese e con Giuseppe Orsoni per l’architettura.
Di questi lavori, la cui realizzazione si protrasse fino al 1738-39, il più significativo è la Tomba allegorica di Archibald Campbell, primo duca di Argyll (1730 ca.), visionario notturno, forse memore della serie astronomica di Creti, animato da figurine guizzanti e spiritate che sembrano discendere direttamente da Alessandro Magnasco, anche se qui i toni dominanti sono l’azzurro e il nero, vivi e squillanti, contro i verdi cupi e i rosso-bruni infernali del maestro genovese.
Nel frattempo, il 29 luglio 1726, Monti si era sposato a Bologna con Teresa Marchioni, da cui avrebbe avuto sei figli. Tra questi è necessario ricordare Eleonora, nata il 20 luglio 1727, che fu anche lei pittrice (Malvasia, 1769, pp. 314, 317).
Entro il 1730 possono collocarsi altre opere di piccolo formato, come il Riposo in Egitto (coll. priv.), il Ritrovamento di Mosè e la Rebecca al pozzo (Modena, Museo civico d’arte moderna, collezione Campori), dove Monti recupera la tematica del paesaggio eroico seicentesco rinnovandolo in direzione veneta, grazie agli spazi più ariosi, alla sobrietà figurativa, ai piccoli colpi di pennello stesi con fresca libertà. All’inizio degli anni Trenta, tra il 1730 e il 1731, dipinse per l’Oratorio dei filippini di Bologna una tela raffigurante l’Immacolata Concezione con i ss. Filippo Neri e Barbara (Bologna, Pinacoteca nazionale). Intorno al 1735 ebbe l’incarico di dipingere il Trionfo di Mardocheo per Vittorio Amedeo di Sardegna (Genova, Museo di Palazzo reale). Contemporaneo al Trionfo o di poco successivo è il Martirio di s. Pietro Martire in S. Domenico a Modena, opera che nella composizione in diagonale ricalca quelle di analogo soggetto di Tiziano e Domenichino.
In queste opere Monti dimostra di aver raggiunto una consapevole sicurezza di stile e di mestiere. Lo stile, cresciuto sulla base della tradizione bolognese ed emiliana, forse anche ispirato al Parmigianino della Steccata per le forme fluenti, i visi esangui e ombrosi, i colori accostati in maniera insolita, quasi neomanierista, si era via via addolcito e impreziosito sulla scorta della visione delle opere di Creti e dei maestri veneziani, ma rimaneva comunque coerente con le forme del primo estroso barocchetto emiliano e lombardo, riuscendo così uno strumento perfetto al servizio della committenza privata.
Nel 1736 fu chiamato a Brescia dal marchese Pietro Emanuele Martinengo per eseguire degli affreschi in collaborazione con il quadraturista Stefano Orlandi. I dipinti del salone grande di casa Martinengo raffigurano in otto medaglioni a chiaroscuro le Storie di Ercole, mentre sulla volta campeggia le Deificazione di Romolo. Subito dopo, nel 1737, i padri filippini di Brescia gli chiesero di decorare, in collaborazione con Zanardi, la loro chiesa di S. Maria della Pace. L’impresa, terminata nel 1743, prevedeva una decorazione a grisaille, di colore grigio-ocra, a ricoprire quasi per intero le pareti interne della chiesa, secondo una tradizione tipicamente bolognese: le Storie della Vergine nelle lunette, i quattro Evangelisti nei pennacchi della cupola, i puttini reggighirlande e le Virtù dislocati ovunque appaiono pitture fresche, sciolte, eppure sempre composte e ordinate, alternandosi con eleganza alle quadrature di Zanardi. Il lavoro in S. Maria della Pace fu un grande successo, come dimostrano le numerose commissioni degli anni successivi, che spinsero Monti a stabilirsi definitivamente in Brescia. Al 1738 risale la pala della Pietà in S. Zeno al Foro, dove la scena è organizzata in modo classico, con il gruppo piramidale della Madonna dolente e del Cristo che le giace in grembo, ma l’anatomia dolce e sensuale di quest’ultimo contrasta con lo struggente dolore della Madre in un modo così sottile e sentimentale che forse solo Crespi avrebbe saputo inventare. Al 1740- 43, risalgono gli affreschi nel soffitto dell’ex chiesa di S. Spirito in Brescia (ora sede del liceo Veronica Gambara), dove Monti, coadiuvato da Zanardi, eseguì in quattro scomparti mistilinei le seguenti scene: S. Mauro che taglia i capelli a Horo, favorito di re Teodoberto, l’Incoronazione della Vergine, i Ss. Benedetto e Scolastica, il Trionfo delle Virtù teologali. Nello stesso giro di anni Monti era in Bergamo, chiamato insieme a grandi artisti come Tiepolo, Pittoni e Gian Bettino Cignaroli per la realizzazione di sette tele nel coro della cattedrale che dovevano raffigurare i santi bergamaschi le cui reliquie erano conservate nell’altare della chiesa. A Monti spetta la Predica di s. Viatore (1739-42), secondo vescovo di Bergamo.
Il dipinto è impostato secondo uno schema ascendente spezzato, che va dal mendicante sdraiato in primo piano alla donna a sinistra, che rimprovera il suo bambino, passa per il soldato sulla destra e si conclude nel santo al centro, che apre le braccia nel gesto enfatico dell’orazione; lo schema, ancora accademico, è ravvivato da una cromia timbrica e vivace, di azzurri intensi, gialli dorati e rossi magenta, che ricordano i colori di Tiepolo, del quale Monti poteva aver già visto gli affreschi della cappella Colleoni.
Non troppo distanti da questo lavoro sono gli affreschi, eseguiti sempre con Zanardi, della cappella del Rosario in S. Bartolomeo a Bergamo (1742 ca.).
La decorazione comprende la Glorificazione della Vergine sulla cupola, le Virtù cardinali nei pennacchi, due medaglioni con S. Domenico alla crociata contro gli Albigesi e il Papa Innocenzo III che riceve le spoglie della battaglia sulle pareti, i Misteri del Rosario in medaglioni monocromi sui sottarchi, i Fatti della vita di s. Domenico in due clipei sui pilastri di ingresso, gli Angeli reggicortina nelle lunette delle finestre e figure di Santi domenicani sulle pareti interne.
Alla metà del quinto decennio possono collocarsi anche gli interventi nella parrocchiale di Sarnico, per la quale dipinse i quattro Evangelisti nella cupola centrale e le Virtù nella cupola del coro. Nel frattempo, già a partire dal 1743, Monti aveva iniziato un’altra attività in Cremona, dove vanno ricordati, in particolare, gli affreschi della chiesa di S. Gerolamo, eseguiti con Zanardi: nella cupola dipinse a fresco la Resurrezione di Cristo (firmata e datata 8 maggio 1743), sulla controfacciata il Cristo nel Getsemani e nella cappella di destra la pala con la Vergine e s. Gerolamo. La decorazione è strettamente legata a quella bergamasca di S. Bartolomeo e la contemporaneità dell’esecuzione lascia ipotizzare l’unicità del progetto di base, un progetto che vede un sempre più stringente coinvolgimento dell’architettura dipinta con le scene sacre, entrambi parti inscindibili di un unico spettacolo teatrale. Ancora a Cremona e sempre in quel giro di anni realizzò due tele per la chiesa di S. Francesco: Elia e l’angelo e Ruth e Noemi (entrambe a Cremona, Pinacoteca civica Ala Ponzone). Tornato a Brescia, eseguì, insieme a Zanardi, alcuni affreschi nella libreria dell’ex convento di S. Giuseppe, un’Assunzione della Vergine, medaglioni di Putti e di Santi francescani (1743 ca.). Nel 1744 ottenne l’incarico di decorare a fresco, con Zanardi, la parrocchiale di Coccaglio; qui egli lavorò per circa due anni, lasciando sul catino di mezzo l’Assunzione della Vergine (1745), negli altri due catini laterali l’Annunciazione e la Purificazione, e, nel coro, la Natività (1746). Tra il 1744 e il 1746 dipinse altre due opere per S. Maria della Pace a Brescia: S. Filippo Neri che implora la Vergine nel soffitto della sacrestia (1744) e la Vergine con il Bambino e s. Maurizio, nella prima cappella a sinistra (1746).
Altri lavori lasciati in quegli anni nella provincia bresciana si trovano nella parrocchiale di Peschiera Maraglio a Monte Isola, sul lago di Iseo, nella parrocchiale di Gardone Riviera, in S. Maria Maggiore a Chiari, nella chiesa parrocchiale di Sale Marasino (1748-52) e in quella di Villa Carcina in Val Trompia (1750). Tutte queste opere testimoniano l’efficacia e il successo dell’impresa Monti-Zanardi, che insieme tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Settecento realizzarono una quantità di opere impressionante nel territorio compreso tra Brescia, Bergamo, il lago di Garda e Cremona, le province orientali della Lombardia. Il successo si spiega con la piacevolezza e la freschezza della loro formula decorativa, probabilmente anche economica e comunque facilmente replicabile, espressione di un gusto medio, aggiornato sul dominante versante rococò, ma in sostanza superficiale e disimpegnato, a volte anche stucchevolmente ripetitivo.
A partire dalla metà degli anni Cinquanta l’attività di Monti si attenuò e cominciarono a diradarsi anche le committenze importanti. Si possono qui ricordare la pala d’altare della parrocchiale di S. Maria Nascente di Fiumicello, gli affreschi allegorici della chiesa di S. Nicola di Grumello del Monte (1754), la pala con S. Martino adorante la Vergine in trono della parrocchiale di Capo di Ponte (1756), dove affrescò anche la volta del coro con il Transito e la Gloria di s. Martino, e la Comunione degli Apostoli (1758-60) della parrocchiale di Quinzanello di Dello.
Ultima opera documentata di Monti sono gli affreschi a monocromo della cappella Ferraroli nella chiesa del Carmine di Brescia (1763) con l’Adorazione dei magi e l’Adorazione dei pastori sulle pareti e la Gloria degli angeli nella volta.
Già gravemente ammalato in occasione dei lavori al Carmine, morì a Brescia il 14 aprile 1768.
Dopo la sua morte, la figlia Eleonora redasse una preziosa «memoria», che, insieme all’autobiografia di Zanardi, è di estrema importanza per la ricostruzione della produzione artistica del padre.
Fonti e Bibl.: G. Zanotti, Storia dell’Accademia Clementina, Bologna 1739, I, pp. 67 s., 71 s., 88, 90 s., 98, 266; II, pp. 217-226; C.C. Malvasia, Felsina pittrice: vite de’ pittori bolognesi, III, Supplemento, Roma 1769, pp. 313-318; Origine e vita di Giovanni Zanardi commorante in Brescia [segue: Vita di F. M. Notizie istoriche della signora Eleonora Monti], a cura di C. Boselli, Brescia 1964, pp. 36 s, 45 s., 50, 55, 58, 60, 64 s., 67-70, 72 s.; F. Haskell, Mecenati e pittori, Firenze 1966, p. 440; U. Ruggeri, F. M., bolognese (1685-1768). Studio dell’opera pittorica e grafica, Bergamo 1968; R. Roli, Pittura bolognese, 1650-1800: dal Cignani ai Gandolfi, Bologna 1977, pp. 62-65, 121-123, 280 s.; Id., Una revisione dovuta: da F. M. a Giuseppe Varotti, in Musei ferraresi, XV (1985- 87), pp. 91-98; C. Perina Tellini, in Pittori bergamaschi: dal XIII al XIX secolo. Il Settecento, V, 2, Bergamo 1989, pp. 553-558, 620-625; R. Roli, in La pittura in Italia. Il Settecento, Milano 1990, pp. 262 s., 801 (con bibl.); A. Guarnaschelli, I «foresti», in Settecento lombardo (catal.), a cura di R. Bossaglia - V. Terraroli, Milano 1991, pp. 54- 57; F. Frisoni, Un «Monti» poco noto a Quinzanello di Dello, in Civiltà bresciana, III (1994), 2, pp. 47-50; D.C. Miller, in The dictionary of art (Grove), XXII, New York 1996, pp. 26 s.; A. Loda, Ripensando Francesco Savanni (con qualche nota per F. M. e Sante Cattaneo), in Civiltà bresciana, VI (1997), 3, pp. 25-32; D. De Sarno Prignano - L. Muti, Pittura a Zola Predosa. Dipinti dal Sei all’Ottocento, Castel Maggiore 1998, pp. 55-57, 184 s; A. Mazza, Pittori bolognesi e veneziani per una «gloriosa» iniziativa europea: le «Tombe allegoriche» di McSwiny, in La pittura emiliana nel Veneto, a cura di S. Marinelli, Modena 1999, pp. 177-192; I.L. Lenzi, Quadratura e decorazione tra Bologna e Brescia: le esperienze di Giovanni Zanardi in alcuni esempi dimenticati, in Realtà e illusione nell’architettura dipinta. Quadraturismo e grande decorazione nella pittura di età barocca, a cura di F. Farneti - D. Lenzi, Firenze 2006, pp. 254-258; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXV, 1931, p. 93.