NEGRI, Francesco
(in religione Simeone). – Nacque a Bassano del Grappa nel 1500 da Cristoforo e da Dorotea, discendente dalla nobile famiglia vicentina dei Chiaromonte.
Ricevette un’educazione umanistica: suoi maestri furono Andrea Locatelli e Giovanni da Reggio. Il 1° marzo 1517 nel monastero di S. Benedetto Polirone (Mantova) fece il suo ingresso, con il nome di fra Simeone, nella congregazione cassinese (Bossi, 1983, p. 136), una scelta che dovette in qualche modo essere legata alla sua educazione e finire per rafforzarla. L’ordine benedettino, infatti, era fra le punte culturalmente più avanzate del clero regolare cinquecentesco e quest’apertura culturale lo rendeva una delle istituzioni più permeabili alle infiltrazioni delle novità religiose d’Oltralpe. Dal monastero di Polirone, il giovane Negri passò per gli altri due principali centri della congregazione benedettina: S. Giustina a Padova e poi S. Giorgio Maggiore a Venezia dove, nel 1524, fu raggiunto dal fratello Girolamo, mandato dal padre per sincerarsi delle voci che lo volevano simpatizzante delle dottrine luterane.
Girolamo tranquillizzò il genitore: «Francesco dice che la dotrina di Martin è fondata supra la Sacra Scrittura et che cercha se puol haverne qualche libro. Le quali cose, per mia fede, sono in tuti quelli che hanno letto qualchuna de le opere de esso Martin [...]. Seguita adonche per questo che essi vogliono andar a trovarlo? Certo che no» (cit. in Zonta, 1916, pp. 274-276).
L’anno dopo Negri abbandonò il monastero, per recarsi – primo di una celebre serie di chierici regolari italiani – in Germania. È lecito immaginare che la decisione del figlio provocasse una delusione cocente nel padre, che morì il 30 ottobre dello stesso anno. Quello che invece va respinto, tra le fantasticherie fiorite sul tronco di un immaginario cattolico-romantico, è la notizia, tarda, secondo cui all’origine dell’emigrazione in Germania di Negri vi sarebbe stato un delitto passionale (cfr. Verci, 1773, p. 65).
Negri si trasferì prima ad Augusta e, dopo il 1529, a Strasburgo, uno dei centri più vivaci della Riforma tedesca, vicino al sacramentarismo zwingliano. L’impegno nel rinnovamento religioso della città e la partecipazione alle lezioni dei riformatori Volfango Capitone e Martin Butzer non riuscirono però a garantirgli un tenore di vita adeguato, tanto che, nel frattempo sposatosi con la strasburghese Cunegonda Fessi, dovette impiegarsi come tessitore.
La tradizione di studi ha sempre collegato questa umile scelta professionale con i rivolgimenti religiosi e sociali dell’epoca: dal «rombo cupo della rivoluzione dei contadini» (Zonta, 1916, p. 282) che accompagnò il suo ingresso in Germania, fino alla rivalutazione delle professioni manuali tipica dell’anabattismo, cui Negri fu vicino per una parte della sua vita.
La modestia del mestiere non gli impedì di continuare a coltivare i suoi interessi umanistici. Risalgono, infatti, al suo soggiorno strasburghese alcune tra le sue prime prove sul terreno letterario. La prima fatica fu la traduzione in latino dei Commentarii delle imprese dei Turchi di Paolo Giovio (Turcicarum rerum commentarius… ex Italico Latinus factus, Francisco Nigro, Argentorati, per Wendelinus Rihelius, 1537), che inaugurò il ruolo degli esuli per motivi religiosi come diffusori su scala europea della cultura italiana. L’opera, accompagnata da una prefazione di Filippo Melantone, ebbe un successo immediato, anche in virtù della ‘ossessione turca’ dell’epoca (se ne conoscono quattro ristampe nel giro di due anni). Ancora più importante, anche se purtroppo impossibile da verificare, è la notizia, secondo cui a Strasburgo avrebbe iniziato a tradurre in latino i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Niccolò Machiavelli, opera presto interrotta, sia per lavorare alla sua opera principale, la Tragedia del libero arbitrio, sia «alias ob causas» (Gesner, 1545, c. 253v).
Dopo un breve soggiorno in Italia nella primavera del 1530 – probabilmente intrapreso per sistemare i suoi affari, pendenti dopo l’uscita di religione – tornò a Strasburgo. Le difficili condizioni economiche in cui versava furono probabilmente all’origine del suo trasferimento a Chiavenna, nei Grigioni (1538). Anche lì, come confessò, le cose non dovettero andare molto meglio: «Tengo la Schola qui a Chiavenna, quodam modo sforzato […] a mio risigho et mia ventura» (cit. in Zonta, 1916, p. 291).
Del periodo d’insegnante privato a Chiavenna sono rimaste tre opere: una grammatica latina (Rudimenta grammaticae, Mediolani, apud Antonium Castellonium, 1541), un’epitome delle Metamorfosi di Ovidio (Ovidiane Metamorphoseos Epitome, Tiguri, C. Froschoverus, s.d. [ma 1542]) e il poema in esametri Rhetia sive de situ et moribus Rhetorum (Basileae, ex officina Joannis Oporini, 1547).
Gli anni svizzeri non furono solamente d’impegno professionale come insegnante di umanità. In quel periodo si datano, infatti, anche le sue più intense esperienze sul piano religioso. Ce lo testimonia la sua opera di maggior spessore, cui rimase legata la sua fama di protagonista dell’eterodossia italiana cinquecentesca: la Tragedia del libero arbitrio (Basilea, Johann Oporinus, 1546).
La Tragedia racconta come la personificazione del Libero Arbitrio, figlio della Volontà e della Ragione, avesse ricevuto dal Papa la corona del Regno delle buone opere, una rappresentazione ispirata alle arti della memoria (Ragazzini, 2000) e ampiamente debitrice della figurazione del regno papistico data nel Pasquino in estasi da Celio Secondo Curione. Sposatosi con la «signora Gratia de congruo», Libero Arbitrio genera «Gratia de condigno» e regna per lungo tempo sui cristiani. Di fronte alla ribellione dei sudditi, Dio manda dal cielo la Grazia giustificante che taglia la testa a Libero Arbitrio. A quel punto anche il Papa, dichiarato Anticristo, è condannato a una morte lenta, data dall’ascolto della parola di Dio.
La Tragedia venne ristampata a Venezia (probabilmente dai Brucioli) nel 1547, e poi ripubblicata nuovamente da Oporino nel 1551, mentre al 1558-59 datano la traduzione francese e latina e al 1573 quella inglese. Grazie all’uso del volgare e ai meccanismi della mnemotecnica, che permettevano al lettore di visualizzare il testo come «pintura» da mostrare «in publico, ove ella fosse veduta da ogn’uno» (Tragedia…, ed. 1551, A 2v), fu uno dei testi che maggiormente contribuirono a formare le opinioni religiose di una generazione di eterodossi italiani. Lo si evince dalle sue numerose emergenze nei processi inquisitoriali e dalla «ipertrofica attenzione» (Barbieri, 1997, p. 110) a essa dedicata dagli Indici cinquecenteschi.
Il successo dell’opera tra le comunità filoprotestanti italiane non deve portare a credere che Negri sia stato semplicemente un benemerito della causa evangelica. Un duro scontro, infatti, lo oppose anche alla comunità evangelica grigionese. Negli ultimi mesi del 1545, dopo diverse peregrinazioni tra la natia Sicilia, Bologna e la Valtellina, si trasferì a Chiavenna l’esule Camillo Renato, il quale, inizialmente ben integrato nella comunità religiosa, presto entrò in conflitto con il pastore Agostino Mainardi, a ragione delle sue convinzioni radicali sul valore simbolico dei sacramenti, sulla natura umana di Cristo e sull’immortalità dell’anima. Quando a Renato si unì il dotto ebraista mantovano Francesco Stancaro, la situazione precipitò: Mainardi stese una Confessione, in 20 articoli, di condanna degli errori di Renato obbligando tutti i fedeli a sottostarvi. Sia stato per il suo carattere «bonus» e «facilis», come riteneva Mainardi (Bullingers Korrespondenz, 1904, I, p. 102), per la sua insofferenza verso ogni forma di persecuzione religiosa, o per effettiva convergenza con le credenze radicali di Renato, fatto sta che Negri sostenne il siciliano nelle sue convinzioni, anche dopo che tutti gli altri membri della comunità ebbero dichiarato di riconoscersi in una nuova formulazione degli articoli di fede, frutto della mediazione del capo della Chiesa di Zurigo, Heinrich Bullinger. Il livello dello scontro raggiunse livelli sorprendenti e Negri pretese perfino che Mainardi gli battezzasse il figlio nella sua fede e non secondo il rito della comunità.
Mentre Renato metteva per iscritto la sua opposizione a Mainardi e andava incontro alla scomunica del sinodo retico, l’opposizione di Negri al capo della comunità di Chiavenna rientrò. A questo arretramento non fu estraneo, con ogni probabilità, l’ex vescovo di Capodistria, Pietro Paolo Vergerio, che conosceva Negri come autore della Tragedia già dai suoi anni italiani e che, una volta emigrato per sfuggire a un processo inquisitoriale, si legò a lui di intensa amicizia. Egli invitò le due parti della chiesa di Chiavenna a non ingigantire le opposizioni di tipo dottrinale, ma a «vitae reformationi insistere» (De Porta, 1771, II, p. 130). La manifestazione più chiara del pentimento di Negri si può leggere nella confessione in calce alla terza edizione della Tragedia.
Il colophon porta la data 1550, ma si tratta certamente di una retrodatazione (probabilmente dovuta al divieto delle autorità basileesi di stampare opere in italiano, francese, inglese e spagnolo dopo l’aprile 1550), in quanto il testo fa riferimento all’incarceramento del vescovo di Bergamo, Vittore Soranzo, avvenuto nel marzo 1551. Dopo aver protestato davanti a Dio la propria innocenza, contro coloro che «si sforzano di volermi accusare et diffamare come quello che non habbia la pura et sinciera fede dal Tuo Figliuolo et da’ suoi apostoli insegnata» (Tragedia…, ed. 1551, Y 5r), Negri riconosceva tutti i dogmi delle Chiese evangeliche (la natura divina di Cristo e l’efficacia dei due sacramenti del battesimo e dell’eucaristia), spingendosi fino a dichiarare la verginità di Maria. Poi confessava «di creder col cuore e confessar con la bocca tutto ciò che qui di sopra è scritto, ed ogni altra cosa che crede e confessa la santa, cattolica ed apostolica Chiesa; [...] sempre sono stato contrario – concludeva – a tutte l’eresie di qualunque sorta si siano, e particolarmente a quella degli anabattisti, et holle condannate a mio potere» (ibid., Y 8r).
La confessione certamente servì da palinodia contro gli sbandamenti dottrinali in cui Negri era rimasto coinvolto nella disputa tra Renato e Mainardi. Tuttavia forse egli aveva anche altre cose da farsi perdonare. Secondo le dichiarazioni rese dal prete marchigiano Pietro Manelfi di fronte all’Inquisizione, la fascinazione di Negri per le dottrine radicali, infatti, non era rimasta limitata al suolo svizzero, ma si era spinta fino a portarlo di nuovo in Italia, al celebre sinodo anabattista veneziano dell’ottobre 1550, nel quale molti esponenti dell’anabattismo italiano e alcuni esuli sarebbero approdati a posizioni radicalmente antitrinitarie. Tra i rappresentanti di Chiavenna Manelfi aveva menzionato anche «il Nero» e «Francesco bassanese» (Ginzburg, 1970, p. 65). Come in quasi tutti gli altri casi, anche nella denuncia ai danni di Negri Manelfi sovrapponeva luoghi e personaggi. Eppure, la sua accusa dice che il conflitto interiore tra l’evangelico ortodosso combattente per la causa del Vangelo e il critico radicale dei principali dogmi di ogni Chiesa potrebbe aver avuto uno strascico anche in quella Venezia, che gli aveva visto muovere i primi passi da monaco benedettino.
Non furono però solo la discolpa dalle accuse di anabattismo e gli ampi inserti in lode di Vergerio – che a lungo hanno fatto dubitare gli eruditi sulla paternità vergeriana della versione longior della Tragedia (Barbieri, 2000, pp. 247-252) – a risentire della sua influenza. Anche il resto dell’attività letteraria di Negri deve molto alla presenza in quegli anni a Chiavenna dell’ex vescovo di Capodistria. Tradusse in latino alcune opere di Vergerio, tra cui il De Gregorio papa e l’Apologia, in cui Vergerio si giustificava per essere fuggito dall’Italia dopo il tragico caso di Francesco Spiera, il giureconsulto di Cittadella, morto disperato per la convinzione che aver abiurato alla sua fede evangelica gli fosse costato la dannazione eterna. Probabilmente ispirata dalla vena polemica di Vergerio è anche la De Fanini Faventini ac Dominici Bassanensis morte […] brevis historia, (Poschiavo [?], Landolfi [?], 1550), duro atto d’accusa contro papa Giulio III per la condanna a morte dei predicatori evangelici Fanino Fanini da Faenza e del bassanese Domenico Cabianca. Sempre di quegli anni è la Brevissima somma della dottrina christiana recitata da un fanciullo, in domanda e resposta (forse Basilea 1550), un catechismo, dove «il termine fanciullo non era considerato tanto espressione di un dato puramente anagrafico, ma era bensì visto in rapporto con la saldezza della fede» (Ragazzini, 2006, p. 128).
Gli ultimi anni svizzeri trascorsero tra la pubblicazione di opere di grammatica – Canones grammaticales (Pesclavii, apud D. Landolphum, 1555) – e di contenuto spirituale – In dominicam precationem meditatiuncula (Tiguri, excudebat Froschoverus, [post 1556]). A differenza di un personaggio così simile a lui come Curione, Negri non scelse però la via di un riflusso nella tranquillità degli studi umanistici e nelle maglie della nuova ortodossia evangelica svizzera. Nel 1562, infatti, assieme al figlio Giorgio, lasciò Chiavenna e si trasferì a Pinczow, in Polonia, la terra che per molti degli esuli italiani religionis causa stava diventando, dopo l’irrigidimento confessionale delle chiese elvetiche, la nuova meta dove professare liberamente il proprio credo religioso. In Polonia si dedicò all’insegnamento delle Sacre Scritture e alla cura della seconda edizione latina (Cracovia, eredi di Marek Szarfenberg, 1559) del suo lavoro più famoso. In calce, vi aggiunse un’operetta, che era insieme un segno di speranza: Ad evangelicam Ecclesiam in Polonia renascentem in Psalmum CIII brevissima paraphrasis.
Nel 1563, mentre progettava di ritornare a Chiavenna per ricongiungersi con la moglie e gli altri due figli, morì di peste.
Fonti e Bibl.: Un elenco delle fonti e della bibliografia riguardanti Negri si trova nel più recente ed esaustivo lavoro sul personaggio, quello di L. Ragazzini, F. N., in Bibliotheca dissidentium: répertoire des non-conformistes religieux des seizième et dix-septième siècle, a cura di C. Séguenny, XXV, Baden-Baden 2006, pp. 71-144 (le fonti alle pp. 83-95). Le fonti principali sono: Bassano del Grappa, Biblioteca civica, Epistolario Remondini, 10, 71.2; Arch. di Stato di Firenze, Misc. Medicea, 292/6; ibid., Carteggio Cervini, cc. 42-61; K. Gesner, Bibliotheca universalis, Tiguri, apud Christophorum Froschoverum, 1545, cc. 253v, 538v; H. Bullinger, Bullingers Korrespondenz mit den Graubündnern, a cura di T. Schiess, I-III, Basel 1904-06, adind.; P. D. Rosio de Porta, Historia reformationis Ecclesiarum Raeticarum, II, Coira 1771, pp. 119-122, 130-135; G.P. Verci, Degli scrittori bassanesi, Venezia 1773, p. 65; C. Cantù, Gli eretici d’Italia. Discorsi storici, III, Torino 1886, pp. 153-156; K. Benrath, Geschichte der Reformation in Venedig, Halle 1886, p. 40; E. Comba, I nostri protestanti, II, Firenze 1897, pp. 297-322; G. Zonta, F. N. l’eretico e la sua tragedia «Il libero arbitrio», in Giorn. stor. della letteratura italiana, LXVII (1916), 1, pp. 265-324; 2, pp. 108-160; C. Ginzburg, I costituti di Don Pietro Manelfi, Firenze-Chicago 1970, p. 65; A. Bossi, Matricula monachorum congregationis Casinensis Ordinis S. Benedicti, I, 1409-1699, Cesena 1983, p. 136; E. Barbieri, Note sulla fortuna europea della «Tragedia del libero arbitrio» di F. N. da Bassano, in Boll. della Società di studivaldesi, CXIV (1997), pp. 107-140; Id., Pier Paolo Vergerio e F. N.: fra storia, storiografia e intertestualità, in Pier Paolo Vergerio il giovane. Un polemista attraverso l’Europa del Cinquecento, a cura di U. Rozzo, Udine 2000, pp. 239-277; L. Ragazzini, La cultura della memoria nelle polemiche confessionali del Cinquecento italiano: la «Tragedia del libero arbitrio» di F. N., in Dimensioni e problemi della ricerca storica, XII (2000), 1, pp. 101-132.