Francesco Patrizi
Sul piano storiografico, la figura di Francesco Patrizi appare ormai del tutto emancipata dal giudizio impietoso e liquidatorio inaugurato da Giordano Bruno (uno «sterco di pedanti», un microfilologo incapace di respiro filosofico), e restituita alla sua complessa identità tardorinascimentale. Filosofo platonico, cortigiano, ‘irregolare’, e tuttavia irriducibile a ciascuno di questi canoni, Patrizi si muove fra rilettura dell’eredità umanistica e dissenso. Il tratto erudito e libresco, la filologia militante supportano così una riflessione non sempre originalissima, ma certo demistificante e sottilmente eversiva del sapere istituzionale, nella prospettiva di una riforma del sapere non priva di dichiarati risvolti etico-civili.
Patrizi nasce nell’isola di Cherso (oggi Cres), in Dalmazia, nel 1529, da una famiglia della piccola nobiltà. Dopo un’adolescenza avventurosa, trascorsa in parte su una galea capitanata dallo zio Giovanni e impegnata nella campagna marittima antiturca, studia a Venezia (1542) e a Ingolstadt (1544-45). Nel 1547 è all’Università di Padova, dove segue, a suo dire con scarsa soddisfazione, le lezioni di celebri maestri di logica e filosofia quali Bernardino Tomitano e Marcantonio Passeri detto il Genua.
Ma all’esperienza universitaria si affiancano presto anche altri interessi: fondamentali, per la genesi e la declinazione platonica della sua vocazione filosofica, saranno la conoscenza della tradizione spirituale ed ermetizzante tipica della Venezia cinquecentesca (ben compendiata nelle figure di Francesco Giorgio Veneto e Giulio Camillo Delminio) e l’incontro con un francescano che, a Padova, «sostentava conclusioni platoniche», invitandolo alla lettura della Theologia platonica di Marsilio Ficino, «a che si diede con grande avidità. E tale fu il principio di quello che poi sempre ha seguitato» (A Baccio Valori. Firenze, 12 gennaio 1587, cit. in Lettere ed opuscoli inediti, 1975, p. 47). Nel 1553 pubblica a Venezia un volume con la Città felice, il Dialogo dell’honore, il Discorso sulla diversità de’ furori poetici e la Lettura sopra il sonetto del Petrarca ‘La gola, e ’l sonno, e l’ociose piume’. Lasciata definitivamente Padova nel 1554, si pone sotto il patronato del nobile veneziano Giorgio II Contarini, cercando di trovare una collocazione, come poeta e curatore di testi, nel vivace mondo culturale ed editoriale della Serenissima; pubblica i Dialoghi della historia (1560) e i Dialoghi della retorica (1562). Si trasferisce quindi a Cipro (1561-68), su incarico di Contarini, come governatore delle sue proprietà. Nell’isola assolve compiti di carattere economico-amministrativo (nell’ultimo anno per conto dell’arcivescovo Filippo Mocenigo), ma ha anche modo di dedicarsi alla ricerca e al commercio di manoscritti greci di carattere filosofico, teologico e scientifico, poi rivenduti in massima parte a Filippo II nel 1575.
Al ritorno in Italia, servendosi ampiamente del ricco materiale dossografico e teorico raccolto a Cipro, lavora alla composizione delle Discussiones peripateticae, una critica puntigliosa, serrata e demolitrice della figura e dei principi teorici di Aristotele pubblicata in due tempi: il primo tomo esce a Venezia nel 1571, mentre l’edizione completa, in quattro tomi, a Basilea, nel 1581. Fallito il progetto di impiantare un’attività editorial-commerciale in Spagna, nel 1577 viene chiamato da Alfonso II d’Este per insegnare filosofia platonica nello Studio di Ferrara.
Negli anni ferraresi – fra i più sereni e produttivi della sua vita, anche per il ruolo di ascoltato consigliere di corte – i suoi interessi spaziano in campi diversi: alle opere di filosofia e letteratura (fra le quali spiccano le prime due Deche della Poetica, pubblicate nel 1586) si affiancano così scritti di tecnica idraulica, arte militare e, soprattutto, di geometria e matematica, discipline di assoluto rilievo per Patrizi, anche sotto il profilo del ‘metodo’ della scienza. Nel 1591 pubblica a Ferrara la sua opera di maggior impegno teorico, la Nova de universis philosophia, cui affida la pars construens della propria dottrina, contrapponendo al paradigma aristotelico una concezione alternativa dell’universo e dei rapporti fra religione e filosofia. Nel gennaio 1592 si trasferisce a Roma, per insegnare filosofia platonica presso lo Studium Urbis, appoggiato e accolto con singolare favore dal papa Clemente VIII, suo antico compagno di studi negli anni padovani. Ma la protezione papale non sarà sufficiente a risparmiargli la censura e poi l’inclusione nell’Indice della Nova philosophia. Nonostante le difficoltà e le amarezze, Patrizi continua a rielaborare i materiali della Nova; a pubblicare (la sua ultima opera a stampa, i Paralleli militari, vicinissima a Machiavelli per impianto, giudizi e lessico, esce fra il 1594 e il 1595); e a insegnare alla Sapienza fino alla morte, nel 1597.
Il distacco dalle discussioni padovane, l’insofferenza per il monopolio culturale aristotelico, ma anche per gli schemi interpretativi e le soluzioni individuate dalla tradizione classico-umanistica, traspaiono con chiarezza già nei primi scritti di Patrizi. In modo particolare, nei dialoghi Della historia e Della retorica, testi che risultano per più aspetti collegati da un rapporto organico: sia perché entrambi appartengono al disegno più vasto – destinato a culminare nella Poetica – di una grande «impresa di tutta l’eloquenza», di un’«arte scienziale» destinata a definire le regole corrette di ogni ambito di applicazione della parola, restituendo al linguaggio il suo rigore, la sua dimensione universale e la sua fondazione ‘scientifica’; sia perché proiettano la loro analisi – ed è ciò che qui ci interessa – sullo sfondo della ‘vecchiaia del mondo’, della decadenza e «gran ruina» del linguaggio umano che, in una vicenda storica tesa fra paura, sopruso, adulazione, ha ormai perso l’antica identità con il divino e, fattosi «debole e oscuro», si presta, come tutte le costruzioni dell’uomo, «vane […] e di nebbia, qual è egli», a essere contraffatto e piegato alle necessità – sempre contingenti e spesso arbitrarie – dell’ordine politico.
In una forma estremamente problematica, che l’uso della forma dialogica e il ricorso sistematico al racconto mitico caricano di ulteriori ambiguità, Patrizi mira a riaprire la discussione proprio su quei temi e quelle definizioni – la storia come «memoria» e narrazione «vera» e razionalmente ordinata di «cose humane» e di exempla; la retorica come arte e dottrina codificata del discorso – che erano stati centrali nel dibattito umanistico e che, soprattutto, Sperone Speroni e altri maestri aristotelici avevano di recente posto al centro di un disegno di riorganizzazione e volgarizzazione dell’enciclopedia aristotelica fortemente saldato al primato delle arti sermocinali (Vasoli 1989, pp. 25-47, 91-108).
Affermando e negando, esaltando e ridicolizzando l’«apparente divinità» dell’uomo (al punto da riproporre la tragica immagine platonica della storia come ludus deorum), Patrizi mostra come le opere degli storici – in linea di principio universali perché in grado di descrivere ogni livello del reale e di abbracciare le tre dimensioni del tempo – siano, nell’esperienza reale, condannate o all’ignoranza (per la varietà insondabile e «fragilità delle cose humane», soggette a «continuo mutamento») o a «fingersi ad arbitrio le cose», in una rilettura tendenziosa, orientata e perfino falsificata del passato in base a logiche e disegni politici precisi. Se «colui che historia scrive, è necessario che sia huom di governo, o huom di volgo», nel secondo caso la sua conoscenza delle fonti sarà di necessità confinata alle «cose di piazza, et harremo di bellissime novelle». Più complesso il caso dello storiografo «di governo», costretto a muoversi comunque entro i confini di una narrazione eterodiretta e ispirata dalle «Dee, che Giove […] pon su le spalle a gli huomini di governo»: l’adulazione e la paura.
Lo stato da Prencipi fortemente amato, camina con la possanza, et con la prudenza, vestito di lunga riputatione, sventollata dalla verità, sorbita dalle bocche degli adulatori (Della historia, 1560, f. 28r).
I «Prencipi», poiché si considerano, «per la potenza loro, quasi Dei infra gli altri huomini», «tengono in gran pregio l’utile, più che il vero», «son capitai nemici della verità», e sono disposti ad accettare una narrazione storica non adulterata dalla «maraviglia» in una circostanza
sola sola […]; quando il Prencipe vuole, che ella si scriva vera. […] Et risolvetevi a questo, che tale è sempre la historia profana quale è il voler del Prencipe, che scrivere la fa (f. 29r).
Né a modificare il rapporto problematico della conoscenza e scrittura storica con la verità possono giovare i tentativi avviati dagli aristotelici – e qui Patrizi pensa ancora una volta alle proposte padovane di Speroni e Francesco Robortello – per ricondurre la storia entro gli orizzonti e i fini persuasivi della retorica: una proposta che gli appare ancora più discutibile e fuorviante. Nel dialogo omonimo – colpendo a fondo il motivo umanistico della funzione civile della parola – egli priva infatti la retorica di tutte le prerogative a essa riconosciute dalla tradizione aristotelico-ciceroniana e ne ricostruisce una vicenda, passata e presente, dai toni profondamente degradati. Riconduce la sua nascita alla fine di un’età aurorale e felice della storia, quando, puniti dagli dèi per la loro arroganza intellettuale con un «horrendo scotimento» cosmico, gli uomini hanno perso il contatto con la verità delle cose («et di vere, che i primi padri le conosceano, le conoscono essi adombrate di color di vero»), la comunione linguistica e metafisica con gli altri enti dell’universo, e sono stati costretti a confrontarsi con i sentimenti del bisogno e del timore. Così, i pochi che pure riuscivano ad attingere ancora qualche frammento di verità, non hanno osato trasmetterlo apertamente, in un contesto sociale (e politico) violento e ormai segnato dalla facile equazione fra «scoperta del vero» e «maggiore infelicità». E
i Principi, et gli altri, c’hanno voluto poter molto al mondo, hanno seguito le credenze de gli huomini volgari, sappiendo elle essere lontanissime dal vero, et dal periglio (Della retorica, 1562, f. 7r).
Da qui le inimicizie, le «fraudi et l’ingiurie», l’invenzione di nuove arti, inganni e «machinationi», al fine di dominare e prevaricare i propri simili. I dispositivi retorici, le «lunghe catene di parole», le stesse leggi e il loro esito politico-giudiziario sono così diventati parte integrante di un’organizzazione sociale dominata dai «paurosi» e che, avendo perso ogni contatto con la sapienza, si è necessariamente strutturata sulla base di artifici, in parte ingannevoli e mistificatori. Storicamente, l’oratore si è dunque ritagliato uno spazio di intervento e di incisività inversamente proporzionale al rigore e alla tenuta di istituzioni, apparati, leggi dello Stato. Uno spazio che diventa massimo nel caso in cui l’orizzonte politico sia dominato dalle passioni, fra «apparenze della ragione» e «commovimento de gli affetti». La sua forma politica d’elezione non potrà che essere allora quella affidata alla «moltitudine del volgo sola»: le repubbliche rette da quel «pessimo popolo» cui Patrizi riserva pagine fitte di battute sprezzanti: «perché gli animi plebei, et ignoranti sono, et appassionati»; la moltitudine è non «intendente delle leggi», «intorbidata da arrabbiate passioni d’animo», «ha una fiera in cuore, […] che abbaiando sempre, tutto l’animo gl’introna, sì che […] non vede lume, né discerne il vero» (Della retorica, cit., ff. 41r-42r).
Ma al di là dei mutamenti storici di sede e di ruolo – dalle piazze e dai tribunali alla «civile persuasione», alla dimensione cortigiana o salottiera –, Patrizi riconosce nella tradizione retorica una continuità al negativo: il suo oscurare la «scienza delle cose» con tanti «ornamenti de parlari»; il rapido eclissarsi della sua operatività civile e politica; la sua riduzione, ormai «morta e mutola», a strumento di dominio; la sua sottomissione al potere del denaro («cotali occhi, quando non hanno lume d’oro, quasi di stella, non veggono il camino per le tenebre del mondo», f. 17v).
La via per restituire all’uomo sapienza e operatività – in un rinnovato rapporto conoscitivo con il tutto, basato sulla corrispondenza fra parola e cosa – e recuperare una verità che – ancorata a fondamenti divini – sopravvive perpetua e incorrotta alle deformazioni e ai «rivolgimenti» ciclici della storia passa perciò in primo luogo attraverso la consapevolezza dell’origine e funzione meramente politico-giudiziaria della retorica e la denuncia dei suoi limiti e pericoli contemporanei. Occorre poi adoperarsi per sostituire a essa un modello del linguaggio che ne recuperi il fondamento metafisico e divino, riflettendo l’ordine e la struttura delle cose secondo un modello matematico: la sola forma di scienza certa che sia rimasta all’uomo, il quale, nella rielaborazione patriziana del mito di Prometeo, ha perso la capacità di conoscere «l’intrinseco delle cose», e «solamente […] certo restò del numero, et delle misure, et del peso, et delle proportioni» (f. 52r).
Nei dialoghi la problematica etica e quella linguistica si presentano dunque come nodi teorici cruciali e saldamente intrecciati. E la concezione del tempo come «grandissimo animale […] rotondo», la visione ciclica della storia – le «corrotioni generali», «universalissime ruine» e «universali rinascimenti» qui evocati con lessico memore sia di suggestioni ermetico-astrologiche che del naturalismo machiavelliano – si costituiscono come l’orizzonte entro il quale appare possibile spiegare il processo generale di crisi cui le forme del sapere e del linguaggio sono sottoposte nel tempo – dalla degenerazione della retorica a quella della filosofia, nella lunga e fortunatissima mistificazione aristotelica, che di questo «sapere infermo» e delle sue derive contemporanee è, al tempo stesso, effetto e causa.
Le Discussiones peripateticae costituiscono, a un tempo, uno dei testi più rilevanti della storiografia rinascimentale e un attacco definitivo – per maturità storiografica, esaustività e severità – alla figura di Aristotele e alla consistenza della sua dottrina. Registrando in una sintesi efficace le componenti diverse e la densità di riferimenti del testo, Eugenio Garin ne ha parlato come di «un gran libro di filologia e di storia della filosofia, e una importante rivendicazione del naturalismo presocratico» (Motivi della cultura filosofica ferrarese nel Rinascimento, «Belfagor», 1956, 11, p. 632).
Ovviamente memore dei dubbi esegetici sollevati dal ritorno umanistico al testo greco di Aristotele, così come degli spunti polemici avviati da critici acuti come Lorenzo Valla e Pietro Ramo, Patrizi introduce però novità significative, sia nel metodo che nel merito. Sul piano del metodo, esso non consiste più nella discussione ‘teoretica’ del dogma integrum, di passaggi problematici del pensiero aristotelico nella formulazione cristallizzata dalla tradizione, ma nell’impianto filologico-storico e nella volontà di ‘interpretare Aristotele con Aristotele’: «perché altri non possa dire che gli insegnamenti suoi a voglia nostra noi fingiamo e tortamente gli interpretiamo, in sua propria lingua le recheremo», come si legge nella Poetica, dove un metodo analogo è puntualmente applicato alla discussione di una diversa sezione dell’enciclopedia aristotelica (Della poetica, a cura di D. Aguzzi Barbagli, 2° vol., 1970, p. 38). Le Discussiones si presentano così come una raccolta, sotto una serie di rubriche, di passi tratti dalle varie opere dello Stagirita, disposti, con incastro sapiente, in modo tale da far emergere dalle stesse parole del filosofo le tesi che Patrizi punta a dimostrare. Il corpus aristotelico viene così sezionato, ridotto in ‘particole’, ciascuna delle quali viene poi sottoposta a un confronto minuzioso – e certo arbitrario – con altri frammenti, con gli esiti di altre disarticolazioni. È proprio questo andamento caratteristico, questo ‘cucire’ e ‘scucire’ Aristotele che Bruno nel De la causa giudica come manifestazione di «pazzia» e «presuntuosa vanità», esempio intollerabile di una pedanteria che pretende di far «guerra» ad Aristotele senza comprenderne minimamente le dottrine e che, concentrandosi sull’‘analisi di parole’ piuttosto che sulle ‘cose’, evita il nodo di un confronto diretto con i principi della sua filosofia naturale, ormai banalizzati e resi incomprensibili da una scomposizione gratuita, insensata.
E tuttavia questa filologia apparentemente sterile nella sua ossessiva ripetitività compilatoria non fallisce il suo obiettivo, e finisce per corrodere davvero dall’interno l’edificio aristotelico. La strategia di Patrizi mira ad alcuni obiettivi convergenti, peraltro condivisi da ampi settori della cultura tardocinquecentesca, compreso lo stesso Bruno. In una prospettiva etico-civile, due punti, fra loro connessi, sembrano meritevoli di alcune osservazioni più approfondite: il proposito di screditare l’autorità di Aristotele anche a partire dal prestigio personale, mettendone in dubbio integrità morale, capacità critica, onestà intellettuale; e quello di abbandonare una filosofia ormai intrappolata nel labirinto delle interpretazioni delle parole di un solo uomo, rivendicando la necessità di tornare alla «verità delle cose» («le parole, infatti, non sono le cose stesse, ma simboli e simulacri delle cose») e a una ricerca filosofica finalmente libera da assetti immutabili ed esclusivi di ogni scarto o variazione.
Nella sua lucida analisi della genesi del mito di Aristotele, Patrizi sembra in effetti ambire a delineare i tratti più generali di una sorta di fenomenologia della decadenza dei saperi. Nel primo tomo dell’opera, modulando il tema, già evocato nei dialoghi Della historia, dell’utilità ‘civile’ della scrittura biografica, egli sottolinea che il compito dello storico non è quello di tracciare profili agiografici, presentando vite comunque esemplari, ma di registrare e dare voce a testimonianze e documenti, cercando di restituire «quasi in immagine, et in ritratto», i «costumi», la «natura», gli «affetti», i «pensieri» e «ogni altro movimento, o maniera d’animo» altrui (Della historia, cit., f. 48r-v). Così, attraverso il consueto metodo della ‘selezione orientata’, Patrizi attinge a fonti dossografiche trascurate o di tradizione non aristotelica per delineare (in netto contrasto con altre importanti vitae Aristotelis, come quelle di Leonardo Bruni o di Filippo Melantone) la figura di un uomo estremamente discutibile sul piano etico, prima ancora che su quello filosofico, e certamente indegno della fama e della considerazione di cui ha goduto per secoli: dissipatore dei beni familiari, ingrato nei confronti del maestro Platone, frivolo, capzioso, rancoroso, smodato nei piaceri e nei lussi, dominato dall’invidia e dal desiderio di gloria. E alla pochezza morale si accompagna inevitabilmente l’inconsistenza filosofica.
Sul piano della storia della filosofia, lungi dal rappresentare l’emergere dagli errori dei predecessori di una concezione compatta e definitiva del mondo, Aristotele rappresenta al contrario una forte cesura con un’altra verità e un’altra tradizione assai più antica, profonda e ‘divina’. Quella incarnata dalla catena sapienziale che – secondo l’insegnamento ficiniano –, a partire da una rivelazione originaria, si è poi snodata nelle figure mitiche di Zoroastro, Ermete, Orfeo, nel sapere di Pitagora e dei presocratici, per culminare in Platone e trovare poi la sua espressione più completa nel cristianesimo. Una tradizione concorde nell’attingere non la verità dei libri, ma la conoscenza degli enti, e da cui lo Stagirita prende con forza le distanze, presentando, all’inizio della Metafisica, la filosofia precedente sotto il segno della dissensio philosophorum e della vanità dei contenuti; ma che, a ben vedere, costituisce un punto di riferimento essenziale (e tacito) per la sua speculazione – dalla dialettica alla logica, alla scientia entis, al sistema delle scienze, alla politica. E se, su temi precisi, la sua eventuale ‘concordia’ con i presocratici e con Platone va rubricata (a differenza di quanto pensava Giovanni Pico della Mirandola) nella categoria assai meno nobile del furto, del plagio, il suo dissenso dai prisci philosophi rimanda invece a una fondamentale condizione di insufficienza e minorità speculativa. Patrizi la presenta come l’esito di due tratti convergenti della fisionomia intellettuale dello Stagirita: la sua incapacità di innalzarsi al livello di una speculazione teologico-metafisica, e dunque di comprendere passaggi fondamentali come la dottrina platonica delle idee o l’Uno parmenideo; e il suo rimanere ancorato a un punto di vista empirico, chiuso entro la sola testimonianza dei sensi.
Un passaggio così decisivo nella storia della tradizione occidentale riposa allora su una fatale soluzione di continuità: non essendo partecipe dell’illuminazione sapienziale dei prisci, Aristotele ne ha travisato completamente il significato, riducendo un’antica verità metafisica e teologica a una dottrina di carattere fisico. E se gli antichi sapienti hanno affidato il loro sapere a un linguaggio sacrale e iniziatico, per proteggerlo dalla divulgazione e dal fraintendimento, egli non è stato in grado di intenderlo e di penetrarne gli enigmi, e anzi, «rimossi tutti i veli, lo ha esposto e trasmesso pubblicamente»; oppure ha provato a mascherare la verità a suo modo, ammantando le sue dottrine – e i suoi prelievi – in un intrico di stilemi e argomentazioni oscure e confuse.
L’impronta lasciata dallo Stagirita nella storia della filosofia antica è dunque di segno ben diverso da quanto i suoi seguaci si ostinano a far credere: non la summa del sapere, ma la rottura colpevole di una continuità, il tentativo di sostituire a una verità antichissima e umbratile la pretesa stolta di un sapere definitivo. E i suoi discepoli non hanno fatto altro che seguire acriticamente la prospettiva storica imposta dal loro maestro, accogliendo la sua opera come la massima espressione della natura e della ragione. Se le prime generazioni di allievi riuscirono a mantenere ampi margini di autonomia e spirito critico, gli interpreti più tardi – e soprattutto Averroè – hanno progressivamente abdicato alla libertas philosophandi per consegnarsi a quell’atteggiamento di rinuncia (alla discussione, al riconoscimento della pluralità, al libero esame dei testi) che va sotto il nome di principio di autorità. Dimentichi che la «verità delle cose» vale sempre assai più dell’«ammirazione per un uomo», al compito di perseguire il vero, proprio della filosofia, hanno sostituito il simulacro della filodossia, preoccupati soltanto di difendere i precetti aristotelici. Va detto che nelle pagine delle Discussiones non risulta attestato l’uso della locuzione libertas philosophandi; ma è tuttavia significativo che qui il campo semantico della libertà venga declinato in una trama di varianti – libera philosophia, mentis libertas, ingenii libertas –, tutte concordemente riferite a posizioni di autonomia nei confronti dell’autorità di Aristotele (Muccillo 1981, p. 106).
Secondo Patrizi, il mito dello Stagirita, la leggenda della sua autorevolezza, affonda dunque le sue radici in una lunga vicenda di mistificazione, decadenza e corruzione – dell’ethos del filosofo, dell’antica sapienza, delle stesse forme linguistiche della filosofia – che ha portato con sé l’oblio del passato. Tornare a quel passato, a quella tradizione del sapere antica e nuova, sapienziale e teologica, significa per Patrizi invertire il circuito della decadenza per recuperare, a un tempo, il contatto con la dimensione della verità e il valore prezioso e benefico della libertas philosophandi, senza la quale non possono darsi scienza della natura, coordinamento razionale delle discipline, conoscenza di Dio.
Dissolto l’aristotelismo nel suo impianto teorico e nella sua vicenda storica, negli anni ferraresi Patrizi si dedica alla composizione di opere più costruttive e propositive. La Poetica, nella quale la proiezione del modello della ‘sapienza riposta’ anche all’interno della teoria e prassi della creazione letteraria garantisce una pluralità di livelli di significato e la possibilità di generare un «universo di poemi possibili», il cui campo di azione può dilatarsi fino a comprendere tutto «ciò che nel mondo sia, o nel pensiero umano». Ma soprattutto la Nova de universis philosophia: pubblicata in fretta nel 1591, dopo l’elezione al soglio pontificio di Gregorio XIV, l’opera si struttura in quattro parti – la Panaugia, o della luce universale; la Panarchia, o dei principi primi delle cose, la Pampsychia, o dell’animazione universale; la Pancosmia, o della composizione elementare dell’universo –, corredate da un’appendice di materiali dell’antica tradizione sapienziale. Se la connessione fra le varie sezioni e perfino l’architettura complessiva dell’opera appaiono per alcuni aspetti non perfettamente a fuoco – quasi frammenti non ancora ben coordinati di un progetto più ampio volto ad abbracciare e rifondare l’intero campo della filosofia naturale –, chiarissima è tuttavia l’intenzione di Patrizi di presentare una spiegazione dell’universo originale, del tutto alternativa al modulo aristotelico.
Sul piano delle fonti e dei contenuti, l’opera appare pesantemente tributaria – quasi un esito ultimo, e perfino attardato – della tradizione ermetico-neoplatonica rinnovata da Ficino e del suo principale problema metafisico. Patrizi presenta come portato dell’antica sapienza il riconoscimento della natura incorporea del lumen universale, elemento costitutivo e principio di unificazione di tutte le cose, e per questa via riconosce l’Uno-Dio (unomnia) come l’origine logico-ontologica del molteplice e la fonte eminente di ogni forma di luminosità. Deduce quindi dall’interna articolazione trinitaria di questo primo principio l’intera produzione/emanazione della totalità delle cose, facendo dell’anima lo snodo fondamentale di una struttura ontologica tesa fra la semplicità immobile dell’Uno e la molteplicità dei corpi e, insieme, intessuta da una trama di relazioni fra essenze, vite, menti, nature, qualità. Sull’onda di un antiaristotelismo sempre più permeato di istanze di rinnovamento cosmologico, la filosofia naturale patriziana – che individua, accanto al lumen, nello spazio, nel calore e nel fluor i veri principi elementari dell’universo e degli enti – porta con sé una concezione del mondo celeste in cui, pur all’interno di un’opzione ancora geocentrica, i confini del cosmo peripatetico vengono dissolti, in base all’ipotesi della diffusione inesauribile di tali principi: il filosofo nega così l’esistenza fisica delle sfere celesti, e insiste sull’essenza unitaria e il carattere continuo, fluido e infinito dello spazio sopralunare. E con le sfere cadono tutti i presupposti della meccanica celeste di impianto aristotelico-tolemaico, a partire dai circuiti degli astri. I cieli si popolano così di corpi dotati di vita, anima, intelligenza: non più «nodi infissi a una tavola», ma «animali divini» che, armonicamente correlati con la mens che regge l’intero universo e spinti da un principio di autoconservazione, si muovono liberamente, ma ordinatamente in uno spazio fluido e privo di ostacoli, volano nel «cielo liquido» come «branchi di gru».
Si tratta di posizioni certo interessanti, soprattutto per il motivo della coincidenza di natura e vita e per le argomentazioni infinitiste, spesso attraversate da spunti di sapore cusaniano. Ma quel che soprattutto colpisce nella Nova è il messaggio politico-religioso affidato al testo, che appare significativamente corredato da impegnative dediche: al papa (per la parte generale) e ad autorevoli cardinali (per singole sezioni dell’opera), fra i quali Ippolito Aldobrandini, il futuro Clemente VIII, al quale viene dedicata la seconda parte della Pancosmia. Patrizi presenta la sua opera come una rielaborazione filosofica moderna della ‘sapienza riposta’, un nuovo/antico modello del sapere, solido, coeso, assiomatico, in grado di sostituirsi al dominio secolare della Scolastica non solo sul piano filosofico, ma anche su quello religioso. Sia pure in forma metaforica e allusiva, su punti capitali come l’onnipotenza e provvidenza divina, la generazione del mondo dal nulla, l’immortalità dell’anima, la filosofia platonica converge infatti con la dottrina cristiana, al punto da poter essere tradotta nella sua dogmatica:
Tutta la scuola più antica credette fermamente, ed insegnò chiaramente, che del vero Iddio huomo parlare non potesse senza che Dio ne lo illuminasse, e se lo illuminò lo illuminò del vero […]. Percioché questo fu tutto un continuo filo della medesima teologia in poche cose dalla Cattolica nostra fede differente (Della poetica, cit., 3° vol., 1971, p. 372).
Così Patrizi invita il papa a sostenere la sua rivoluzione culturale, promuovendo l’insegnamento del platonismo e del suo contenuto unitario di verità, anziché un aristotelismo incerto e incoerente, inadeguato a sostenere la dottrina cristiana, e anzi, nelle sue radici ultime,
nemicissimo della Christianità, con gravissima perdita dell’anime, che de’ suoi dogmi beono e s’avvelenano d’empietà contra Dio e contra Christo. E […] Platone e i platonici, che […] sono i più nobili filosofi e di poco meno che cristiani, si sono posti in bando, mercè de’ frati che ne’ conventi adorano Aristotile (Lettere ed opuscoli inediti, cit., p. 178).
E proprio in quanto omogenea, nei suoi fondamenti ultimi, alle verità rivelate e alla cultura dei primi Padri, questa forma venerabile di teologia filosofica può essere impiegata anche come formidabile strumento apologetico per recuperare alla Chiesa quanti non hanno conosciuto il messaggio cristiano o ne respingono fonti, autorità e tradizione, offrendo così a Roma uno strumento molto più persuasivo della censura o della coercizione delle coscienze, e più efficace nel garantire una pace ordinata, in quanto fondato non solo su un sapere originario e sui dati del senso, ma anche sulla pura evidenza della ragione.
Ma, com’è stato notato, la proposta patriziana, se pure abilmente presentata sotto il segno di una irreprensibile ortodossia, celava al suo interno implicazioni radicali (Vasoli 1989, pp. 225-28). E questo proprio a partire dal suo presupposto fondamentale: vale a dire, l’esistenza di una verità originaria, premosaica, destinata ad assumere nel tempo aspetti e formulazioni diverse, ma inalterabile nel suo nucleo essenziale, e riposta non nelle auctoritates delle scuole o nei dogmi delle Chiese storiche, ma nella dottrina dei veri sapienti. Un tema di sicuro rilievo e di lunga durata in Patrizi, se è vero che già nella giovanile Città felice egli proponeva il disegno di uno Stato razionale in cui il sapiente-sacerdote – «anima» della città, e in quanto tale dotato di una superiorità metafisica sancita anche da benefici influssi celesti – si pone come guida e ‘medico’ degli uomini, al di sopra di un volgo subalterno e confinato alla durezza del lavoro manuale, che non conosce e non può attingere la suprema verità della ragione, e al quale resta precluso il raggiungimento della beatitudine, coincidente con quella elevazione e trasformazione nel divino al quale «pochissimi huomini arrivarono giamai, o arriveranno».
Ed in somma dirò la nostra città havere due parti, l’una servile e misera, l’altra signora e beata; e questa propriamente chiamarsi cittadina, come quella che negli honori e nelle preminenze della republica ha mano e ne è patrona (La città felice, 1553, f. 14v).
Una prospettiva in cui, da un lato, un ordinamento così chiuso e duramente gerarchico appare tanto più immodificabile quanto più presentato in chiave di necessità naturale e razionale; dall’altro, l’intero corpo sociale si configura come uno strumento volto a predisporre, «spianare», «acconciare» agli intellettuali depositari di un destino speculativo privilegiato il cammino della sapientia e del ritorno, per via contemplativa, al «gorgo» della bontà divina. E da questo aristocratico punto di vista una sostanziale continuità con la Città felice caratterizza la Poetica («questi due [i prudenti e i filosofi] sopravanzano in intendere il communale popolo, e non sono perciò da noverar fra il volgo») e perfino alcuni passaggi dei dialoghi Della historia, pur in un contesto assai più amaro e disincantato, dove sembrano incrinarsi sia la convinzione che «il mestiere de filosofi» sia «nobilissimo sopra tutti gli altri», sia il nesso tra felicità filosofica e felicità civile.
È quindi non più e non solo nel suggerire un rapporto paritario fra cultura laica e autorità ecclesiastica, ma nel rivendicare ai sapienti il contatto con la dimensione della verità pura, il possesso di una religio philosophica sopraconfessionale e sopraistituzionale, che riposa il significato di fatto eversivo racchiuso nella proposta della Nova. Se è il sacerdote-filosofo il depositario della sapienza e delle eventuali modalità di intervento positivo sul mondo, alle autorità magistrali non resterà che l’amministrazione di una ‘verità’ di livello inferiore, quella «credibile al rozzo popolo», in una prospettiva morale e politica, così come impone il declino storico della condizione umana. Mostrare la distanza insanabile dell’aristotelismo dalla catena della sapientia, i suoi limiti di conoscenza e di operatività sociale, la sua fondamentale empietà, significava, da un lato, riconoscere al filosofo platonico un considerevole margine di autonomia; dall’altro, e soprattutto, incrinare un assetto dottrinale monolitico e ben collaudato, assunto e applicato dalla Chiesa da tre secoli. Sotto questo profilo, sia l’impostazione di fondo della Nova che la serie di spunti ambigui e opinabili annidati nel testo intorno a temi teologicamente sensibili finiscono per mostrarsi come una minaccia al primato e al potere normativo della massima istituzione ecclesiastica. Implicazioni colte perfettamente dagli avversari di Patrizi, dentro e fuori la Congregazione dell’Indice; infatti, si muoveranno subito per bloccare la sua proposta, confutandola sul piano filosofico e censurandola su quello dottrinale.
In una lettera scritta il 19 luglio 1562 ad Andrea Zaccaria, Patrizi replica alle sollecitazioni filoprotestanti del suo interlocutore contrapponendo alle scelte di campo e ai contrasti di carattere teologico il valore e gli esiti assai più efficaci della libertas philosophandi. Afferma infatti che, dovendo scegliere fra due profili di errore, preferirebbe «sempre d’errar in filosofico humore et nell’enchiridio di Epitteto, che mi possono far buono e contemplativo», piuttosto che «con lo Spirito Santo di Lutero, il quale non fa buono altrui, et conduce a disperation de la salute» (Vasoli 1989, p. 131). Ma, trent’anni più tardi, sarà proprio un errore «in filosofico humore» a costringerlo a misurarsi con le chiusure, l’intransigenza e infine la repressione della censura ecclesiastica. Il procedimento contro la Nova philosophia, avviato nell’autunno 1592 per iniziativa del socio del Maestro del Sacro Palazzo, si conclude con la proibizione assoluta dell’opera, decretata nel 1594 e sancita, con la clausola attenuante donec corrigatur, dall’Indice del 1596. Fra aperture e irrigidimenti, contropareri di revisori e memorie difensive, appelli al papa, ipotesi di conciliazione e sofferte riscritture d’autore, Patrizi affronta la difficile prova coniugando fierezza e flessibilità, nel tentativo di salvaguardare il senso complessivo del suo progetto filosofico e, insieme, scongiurare la «perpetua infamia di metterlo in su l’Indice» (Lettere ed opuscoli inediti, cit., p. 90).
Qui importa sottolineare che la condanna matura in uno scenario romano estremamente complesso e attraversato da forti tensioni – per quanto riguarda sia gli equilibri interni della curia e i rapporti, talora conflittuali, fra i suoi diversi organismi; sia gli indirizzi di politica internazionale; sia, infine, il rapporto tra Inquisizione e produzione filosofica, in anni segnati dalla riorganizzazione della censura ecclesiastica e dal tormentato lavoro di revisione dell’Indice dei libri proibiti. Cerchiamo di metterne rapidamente a fuoco alcuni tratti essenziali. A cominciare dallo sfondo: la stagione di forti speranze suscitata dall’ascesa al soglio pontificio di Clemente VIII – un papa «galanth’uomo», secondo la definizione di Bruno, anch’egli sedotto dalla prospettiva di fortune romane e pronto a inserirsi nel gioco pericoloso aperto dalla pubblicazione della Nova philosophia.
«Quando il Patritio andò a Roma – leggiamo negli atti del suo processo – disse che sperava che il papa lo ricevesse in sua gratia», perché «questo Papa […] favorisce i filosofi e posso ancora io sperare d’essere favorito, e so che il Patritio è filosofo e che non crede niente» (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, a cura di D. Quaglioni, 1993, p. 248). Bruno interpretava la chiamata alla Sapienza del ‘miscredente’ Patrizi come la scelta coraggiosa di un papa in grado – per liberalità e autorevolezza – di proteggere i filosofi in quanto «virtuosi» o messaggeri di riforme epocali, indipendentemente dalla loro qualifica di ‘buoni cristiani’. Non era così, naturalmente. E se nella varietà di interessi e orientamenti che contraddistingue i circoli romani, laici ed ecclesiastici, di quegli anni Patrizi poteva trovare interlocutori non pregiudizialmente ostili al suo perentorio platonismo, ben diverso era condividerne – o addirittura garantirne – la prospettiva radicalmente riformatrice.
Ma proprio in considerazione di questo errore di valutazione, e in quanto episodio eloquente di una fase precisa e più generale della vita culturale e religiosa italiana, la vicenda di Patrizi rappresenta senz’altro – è questo il secondo punto da sottolineare – uno degli snodi centrali per comprendere l’atteggiamento verso la filosofia che caratterizza l’intero pontificato di Clemente VIII. Negli anni del suo papato si assiste infatti a un severo intento di normalizzazione e, sull’onda di rigidissime chiusure filoaristoteliche e filotomiste, che non mancheranno di riflettersi anche nella fisionomia del nuovo Indice, si apre una fase di minuziosa verifica dell’ortodossia di filosofi, naturalisti e scienziati, con una concentrazione inedita di controlli e processi (Ricci 2008).
È l’esito ultimo – e cruciale per le conseguenze sul piano della libertà di ricerca, della dimensione civile e della stessa esperienza religiosa – di un processo di disciplinamento che data a partire dagli anni Settanta e che comporta una progressiva dilatazione del perimetro di azione degli organismi inquisitoriali. Dalle questioni meramente religiose e dogmatiche il campo di indagine si estende ora alla dimensione culturale, per cercare di attenuare, ‘ripulire’ o ridurre a formulazioni consone alla norma teologica, da un lato, il pensiero dei novatores e le formulazioni della nuova fisica; dall’altro, una letteratura religiosa e filosofica di grande complessità, espressione di una stagione storica che, già dal secolo precedente, aveva saputo esprimere esigenze, prospettive, speranze di tono molto diverso, e ormai drammaticamente inattuali.
Vittima illustre di questa strategia e dell’analisi serrata e sempre più consapevole di teologi e controversisti è soprattutto il platonismo – tradizione multiforme e dalle inquietanti implicazioni teologiche, soprattutto nella direzione di un radicalismo spiritualistico spesso combinato con dottrine proprie dell’ermetismo, della mistica ebraica o della tradizione magico-astrologica. E il pregiudizio antiplatonico, la diffidenza scolastica verso una tradizione sapienziale che pretende di affiancarsi alla teologia cristiana, illuminandola, in nome di uno sconcertante sincretismo, si avverte anche nelle deviazioni dottrinali imputate alla Nova – dall’ossequio eccessivo verso gli autori ermetico-platonici alle suggestioni attinte alla teologia negativa, così irriducibile a quella tomista; all’interpretazione in chiave emanatistica della produzione dello Spirito Santo e del dogma trinitario, con inclinazioni pericolose verso l’eresia ariana; al tema della preesistenza e trasmigrazione delle anime; all’ambiguità del concetto di creazione, nella caratterizzazione non volontaristica della productio rerum; a una cosmologia che immagina astri vitali e intelligenti e la presenza di un infinito spazio extramondano.
Gli echi dell’insegnamento in Sapienza e poi della clamorosa smentita della proposta di Patrizi fondano, fra curia e accademie, un dibattito vivace sulle implicazioni e i pericoli annidati in una frequentazione incontrollata del pensiero classico e, in generale, sull’opportunità di ridefinirne il ruolo nel quadro della teologia tridentina. Così due personaggi legati alle gerarchie ecclesiastiche, all’insegnamento accademico e allo stesso Patrizi – Paolo Beni e Giovan Battista Crispo – pubblicano nello stesso anno (1594) due opere volte a dissociare nettamente il nucleo teologico del cristianesimo dalle vicende della philosophia perennis. E non è certo senza significato che l’opera di Crispo, De Platone caute legendo, esibisca il consenso di teologi prestigiosi, fra i quali alcuni dei più aspri censori di Patrizi. Il quale, dal canto suo, accusa il colpo, ma non rinuncia del tutto al suo progetto e lavora, in momenti diversi, alla riscrittura di intere sezioni della Nova, in vista di un’edizione ‘emendata’. E se le correzioni riconducibili alle fasi finali del processo rivelano chiari nessi con gli argomenti toccati dalle obiezioni dei censori – i concetti di anima e di spiritus, la dottrina della luce e della sua diffusione nello spazio infinito, il carattere necessario dell’azione divina – nei materiali più tardi l’eco di tali discussioni e preoccupazioni sembra indebolirsi, per lasciare piuttosto spazio a un affinamento dottrinale autonomo e a una diversa organizzazione di contenuti mai smentiti nella loro sostanza filosofica. Tuttavia, un’edizione ‘riformata’ della Nova non vedrà mai la luce. Né questo stupisce, alla luce di un colloquio che sembra siglare perfettamente l’intera vicenda. Alla morte di Patrizi, Roberto Bellarmino, a quella data consultore del Sant’Uffizio, discorrendo con il pontefice circa i futuri assetti della cattedra di filosofia platonica in Sapienza,
alla qual lezione, se bene vidde il Papa molto inclinato, non lasciò egli […] di dirgli liberamente il suo pensiero, […] che assai più pericoloso era su le scuole Platone di quello che fosse Aristotele, per essere quello più vicino a’ nostri dogmi, in quella guisa che tutto dì s’esperimenta maggior danno dalla lezione de’ libri eretici che di quelli de’ Gentili (I. Fuligatti, Vita del cardinale Roberto Bellarmino della Compagnia di Gesù, 1624, pp. 116-17).
La città felice. Dialogo dell’honore, Il Barignano. Discorso della diversità de’ furori poetici. Lettura sopra il sonetto del Petrarca ‘La gola, e ’l sonno, e l’ociose piume’, Venetia 1553.
Della historia diece dialoghi, ne’ quali si ragiona di tutte le cose appartenenti all’historia, et allo scriverla, et all’osservarla, Venetia 1560.
Della retorica dieci dialoghi, nelli quali si favella dell’arte oratoria con ragioni repugnanti all’openione, che intorno a quella hebbero gli antichi scrittori, Venetia 1562.
Discussionum peripateticarum tomi quattuor, Basileae 1581.
Nova de universis philosophia, Ferrariae 1591, Venetiis 1593.
Della poetica, ed. critica a cura di D. Aguzzi Barbagli, 3 voll., Firenze 1969-1971.
Lettere ed opuscoli inediti, ed. critica a cura di D. Aguzzi Barbagli, Firenze 1975.
Nova de universis philosophia. Materiali per un’edizione emendata, a cura di A.L. Puliafito Bleuel, Firenze 1993.
L. Firpo, Filosofia italiana e Controriforma. II. La condanna di F. Patrizi, «Rivista di filosofia», 1950, 41, pp. 159-73.
T. Gregory, L’“Apologia” e le “Declarationes” di Francesco Patrizi, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, 1° vol., Firenze 1955, pp. 385-424.
M. Muccillo, La storia della filosofia presocratica nelle “Discussiones peripateticae” di Francesco Patrizi da Cherso, «La cultura», 1975, 13, pp. 48-105.
P. Rossi, La negazione delle sfere e l’astrobiologia di Francesco Patrizi, in Id., Immagini della scienza, Roma 1977, pp. 109-47 (ora in Id., Il tempo dei maghi. Rinascimento e modernità, Milano 2006, pp. 185-225).
L. Bolzoni, L’universo dei poemi possibili. Studi su Francesco Patrizi da Cherso, Roma 1980.
M. Muccillo, La vita e le opere di Aristotele nelle “Discussiones peripateticae” di Francesco Patrizi da Cherso, «Rinascimento», 1981, 21, pp. 53-119.
A. Rotondò, Cultura umanistica e difficoltà di censori. Censura ecclesiastica e discussioni cinquecentesche sul platonismo, in Le pouvoir et la plume. Incitation, contrôle et répression dans l’Italie du XVIe siècle, Actes du Colloque international, Aix en Provence-Marseille 1981, Paris 1982, pp. 15-50, in partic. pp. 33-50.
C. Vasoli, Francesco Patrizi da Cherso, Roma 1989.
M. Muccillo, La dissoluzione del paradigma aristotelico, in C. Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P.C. Pissavino, Milano 2002, pp. 506-33, in partic. pp. 513-22.
S. Ricci, Inquisitori, censori, filosofi sullo scenario della Controriforma, Roma 2008, in partic. pp. 291-352.