PATRIZI, Francesco
PATRIZI, Francesco. – Nacque a Siena il 24 febbraio 1413 da Giovanni di Francino e da Lorenza, di cui non si conosce il casato.
La famiglia Patrizi apparteneva al potente Monte dei Nove ed era schierata su posizioni politiche affini a quelle di Andreoccio Petrucci. Il padre ricoprì numerosi incarichi presso la Repubblica e non fu estraneo agli interessi culturali del figlio.
Patrizi visse sicuramente a Siena fino al 1457; si sposò ed ebbe tre figli (Camillo, Alessandro e Gregorio). Si distinse in campo civile, ricoprendo per la prima volta una carica politica nella Repubblica nel maggio-giugno 1440 come membro del Magistero supremo del governo per il terzo di San Martino, carica elettiva che gli fu riconfermata nei periodi marzo-aprile 1446 e marzo-aprile 1453. In campo intellettuale si dedicò agli studia humanitatis, che proprio in quegli anni, grazie all’insegnamento di Francesco Filelfo, stavano acquisendo a Siena nuovo vigore.
Nel 1447, grazie alle sue spiccate doti oratorie (Enea Silvio Piccolomini in una raccolta di biografie di contemporanei, De viris aetate sua claris, lo giudicò «ad modum peritus» poiché conosceva entrambe le lingue classiche e insegnava l’arte oratoria: «et oratoriam docet») e alla sua grande cultura fu mandato dalla Repubblica senese ambasciatore presso papa Niccolò V, per informarlo della situazione di pericolo che minacciava molte città toscane. Alfonso d’Aragona nutriva infatti mire espansionistiche sulla Toscana e i senesi vedevano in ciò un particolare pericolo (cfr. Bassi, 1894, p. 392).
Sono di questi anni le prime composizioni letterarie di Patrizi, dominate dalla figura di Filelfo: le lettere scritte negli anni Quaranta ad Achille Petrucci (Epistolario, 1991, p. 7) sono veri trattati eruditi-filosofici in cui egli passa in rassegna tutte le scuole filosofiche dell’antichità, utilizzando a piene mani le Tusculanae disputationes.
Nel 1457 la situazione politica di Siena mutò radicalmente e insieme anche il destino di Patrizi. In quegli anni l’Ordine del Popolo governava da solo la città, contrario a qualsiasi tipo di interferenza da parte delle fazioni gentilizie. Nel 1455-56, quando, in accordo con Iacopo Piccinino, Alfonso d’Aragona meditò di impadronirsi di Siena, alcuni nobili appartenenti al Monte dei Nove, esclusi dal governo, si unirono in congiura in favore del re, con l’intento di conquistare il potere. La congiura fu scoperta nell’anno successivo. Filippo di Meo di Simone del Ballata, primo processato, fece il nome dei cittadini coinvolti, tra i quali quello di Patrizi, che fu arrestato e bandito, anche se resta in dubbio se egli avesse effettivamente partecipato alla congiura o quanta responsabilità vi avrebbe avuto. Probabilmente ebbe salva la vita grazie alla fama di buon oratore e poeta di cui godeva e grazie agli amici autorevoli che intervennero in sua difesa, tra cui Piccolomini, Nicodemo Tancredini da Pontermoli e Filelfo (cfr. Bassi, 1894, pp. 393-396).
Dalle numerose lettere scritte con assiduità agli amici, in particolare a Tancredini, si può ricostruire agevolmente la condizione di esule di Patrizi. Nel settembre 1477 era a Pistoia, da dove si rivolse a Tancredini, pregandolo di venirgli in aiuto. Quando, verso la fine di ottobre, gli giunse notizia che i lucchesi lo avrebbero volentieri chiamato a insegnare nella loro città, previa l’approvazione della Balìa senese, scrisse all’amico rinnovandogli la preghiera di procurargli un impiego, perché a Pistoia non c’era modo di guadagnar nulla (Epistolario, 1991, pp. 131-136). Non ci sono però notizie che confermino la sua presenza a Lucca.
Nel marzo 1458 fu ospite di Tancredini a Montughi, nei pressi di Firenze, da dove scrisse lettere di notevole interesse, nelle quali si accenna alla proposta, fattagli forse per iniziativa di Enea Silvio Piccolomini, di intraprendere la carriera ecclesiastica (cfr. Bassi, 1894, pp. 399 s.; Epistolario, 1991, pp. 137-140). Il 6 luglio 1459 partì per Verona accompagnato dal primogenito Camillo e da Francesco Tancredini, figlio di Nicodemo. Nella città scaligera rimase sino a dicembre: il soggiorno, sebbene non prolungato, gli diede l’opportunità di tornare in contatto con l’ambiente degli umanisti (Battista Guarino, figlio di Guarino, compose per il suo arrivo una Consolatio exilii) e di vivere finalmente grazie all’insegnamento (cfr. Bassi, 1894, p. 402).
Gli anni dell’esilio coincisero con una rinnovata ispirazione letteraria. Una epitome dell’Institutio oratoria di Quintiliano fu composta tra il 1458-59 e il 1465-66, probabilmente per agevolare gli studi degli allievi, in particolare il giovane Tancredini, come si deduce dalla lettera di dedica all’allievo (Bassi, 1894, p. 446). Nello stesso periodo Patrizi scrisse due raccolte di rime: la prima, divisa in quattro libri è dedicata a Piccolomini, divenuto nel 1558 papa Pio II, ed è costruita sul modello strutturale delle Silvae di Stazio; la seconda, dal titolo Epigrammata, è in distici elegiaci.
Nel 1459 Patrizi, ancora a Verona, a causa delle difficoltà economiche e speranzoso nell’aiuto del neoeletto Pio II, decise di vestire l’abito ecclesiastico. Nel 1460 era a Roma presso il pontefice: il vecchio amico gli affidò come primo incarico ecclesiastico la pieve di Campoli, che lo avvicinava a Siena (cfr. Bassi, 1894, p. 403). Il 23 marzo 1461 fu creato vescovo di Gaeta: l’elevazione alla dignità episcopale consentì la revoca del bando da Siena per sé e per i familiari. Il 27 maggio 1461 gli fu conferito il governo della città di Foligno. Vi dimorò stabilmente prendendo con molta serietà l’incarico, adoperandosi per sanare le discordie cittadine. Nonostante l’impegno profuso non mancarono lagnanze e denunce assai diffuse, finché una pubblica sommossa non provocò una strage di funzionari e di famigli, inducendo Patrizi a una fuga precipitosa, dopo la quale nella città fu aperta un’inchiesta sulla sua gestione. In realtà, negli anni di governo egli ebbe modo di mettere in luce le sue doti politiche, facendo da intermediario in occasione della lunga lotta tra Pio II e Sigismondo Malatesta. In alcune lettere si presentò come personaggio di rilievo in quegli avvenimenti, nella speranza di acquistare maggior credito in Curia e di mostrare la sua affidabilità e fedeltà al pontefice (Epistolario, 1991, pp. 233-240).
Nel 1464 il successore di Pio II, Paolo II, sottopose a revisione la gestione del predecessore, criticato da molti per il favore concesso ai concittadini senesi. Patrizi, grazie anche agli aiuti del cardinale Giacomo Ammannati Piccolomini e della Repubblica senese, riuscì a superare la prova con dignità. Negli anni che seguirono si stabilì a Gaeta, dedicandosi all’amministrazione della diocesi e agli studi. Solo in due occasioni interruppe il suo soggiorno gaetano: nel 1465 si recò a Milano in occasione delle nozze di Alfonso duca di Calabria con Ippolita Maria Sforza; nel 1484 a Roma per l’elezione del nuovo papa Innocenzo VIII. In entrambe le occasioni pronunziò una Orazione (Bassi, 1894, pp. 404-407).
Del lungo periodo trascorso a Gaeta alcuni documenti testimoniano la cura con cui governò la diocesi. Nel 1473 unì alcuni fondi e li affidò al canonicato della chiesa di S. Maria in Itri; nel 1481 unì al Capitolo della cattedrale di Gaeta tutte le chiese soppresse: Ss. Cosma e Damiano a Gaeta; S. Pantaleone, S. Ambrogia del Monte, S. Maria di Casaregola, S. Ambrogio a Formia; S. Giovanni Cualga a Mondragone; S. Giovanni Battista a Formia. Il suo nome, inoltre, è fortemente legato al santuario della Madonna della Civita a Itri. Il 15 maggio, lunedì dopo la Pentecoste del 1491 consacrò la chiesa, di antica venerazione, riedificata sul monte Fusco, dedicandola all’Immacolata Concezione (cfr. Capobianco, 2000, p. 366). Nel 1493, in atto di S. Visita in Maranola, approvò la costruzione dell’ospedale per i pellegrini e consacrò tre altari (cfr. Ferraro, 1903, p. 215).
A Gaeta compose o perfezionò le sue opere più rappresentative: il De Institutione reipublicae, iniziato durante gli anni dell’esilio e terminato tra il 1465 e il 1471, con dedica a Sisto IV; il De regno et regis institutionis, composto presumibilmente tra il 1481 e il 1484, dedicato ad Alfonso di Aragona, duca di Calabria. Si riavvicinò anche alla poesia e fu incaricato, sempre dal duca di Calabria, di scrivere un commento al Canzoniere petrarchesco.
Patrizi morì a Gaeta nel 1494.
In edizioni moderne sono la Orazione per le nozze di Alfonso duca di Calabria e Ippolita Maria Sforza, a cura di R. e F. Tateo, Bari 1990, e l’Epistolario, a cura di P. De Capua, tesi di dottorato di ricerca, Università di Messina, 1991.
Fonti e Bibl.: G. Ferrari, Corso sugli scrittori politici italiani, Milano 1862, pp. 167-170; F. Cavalli, La scienza politica in Italia, Venezia 1865, pp. 76-84; D. Bassi, L’epitome di Quintiliano di F. P. senese, in Rivista di filologia e d’istruzione classica, XXII (1894), pp. 385-470; S. Ferraro, Memorie religiose e civili della città di Gaeta, Napoli 1903, p. 215; G. Chiarelli, Il «De Regno» di F. P., in Rivista internazionale di filosofia del diritto, XII (1932), pp. 716-738; F. Battaglia, P., F., in Enciclopedia italiana, XXVI, Roma 1935, pp. 521 s.; Id., Enea Silvio Piccolomini e F. P.: due politici senesi del ’400, Firenze 1936, pp. 73-157; F. Sarri, Il pensiero pedagogico ed economico del senese F. P., in Rinascita, I (1938), pp. 98-128; R. de Mattei, P., F., in Enciclopedia cattolica, IX, Città del Vaticano 1952, p. 966; L.F. Smith, The poem of Franciscus Patricius from Vatican Manuscripts Chigi J VI 233, in Manuscripta, X (1966), pp. 94-102, 145-159, XI (1967), pp. 131-143, XII (1968), pp. 10-21; Id., A notice of the Epigrammata of F. P., Bishop of Gaeta, in Studies in the Renaissance, XV (1968), pp. 92-143; C. Dionisotti, Fortuna del Petrarca nel Quattrocento, in Italia medievale e umanistica, XVII (1974), pp. 92-94; F.C. Nardone, F. P. umanista senese, Empoli 1996; L. Paolini, Per l’edizione del commento di F. P. da Siena al canzoniere di Petrarca, in Nuova rivista di letteratura italiana, I (1999), pp. 153-311; P. Capobianco, I vescovi della chiesa Gaetana, Napoli 2000, pp. 362-376; G. Pedullà, F. P. e le molte vite dell’umanista, in Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto - G. Pedullà, Torino 2010, pp. 457-464.