Perez, Francesco
Letterato, patriota e uomo politico palermitano (1812-1892), è il più autorevole dantista siciliano dell'Ottocento. Animatore di quella scuola che fu detta ‛ italiana ' perché tendeva a riportare la Sicilia sul piano degl'interessi spirituali e politici della nazione, propugnò il culto di D. soprattutto nell'interpretazione del Foscolo, da cui muoveva già, con l'accettazione della tesi ‛ ghibellina '. Nel saggio giovanile Sulla prima allegoria e sullo scopo della D.C. (Palermo 1836), il P., opponendosi alle opinioni avanzate dal Borghi nel Discorso sulla D.C. (in " Effemeridi Scientifiche e letterarie " XIV [1836] 24-160) dava alla selva " il suo significato spontaneo d'errori della vita morale ", al monte " quello d'un vivere civile secondo i dettami di Dio ", alla lonza " quello dell'Italia divisa per fazioni ", al leone il significato di Filippo di Francia, alla lupa quello di Roma. La tesi del P. ebbe sostenitori nonché vivaci oppositori; ma quel che conta rilevare in essa è, soprattutto, l'esigenza metodologica che sollecitava lo studioso a rintracciare nell'ermeneutica del primo canto dell'Inferno la chiave idonea a spiegare la simbologia di tutto il poema e a individuarne, perciò, il centro vitale, l'umanità, cioè, e la poesia. Qui è in nuce la sostanza dell'opera maggiore, La Beatrice svelata. Preparazione alla intelligenza di tutte le opere di D.A. (Palermo 1865; ibid. 1898²; Molfetta 1936³), momento fondamentale della sua critica anche se molteplici furono gli approfondimenti e gli arricchimenti che, attraverso le XXI ‛ letture ' delle Lezioni dantesche lette nella Università di Palermo l'anno 1864, approdarono alla Beatrice svelata, che è opera capitale nella storia degli studi danteschi ottocenteschi. Nelle Lezioni sono già chiaramente affermati il valore simbolico di Beatrice come " eterna sapienza ", il legame profondo tra la Commedia e le opere minori, il rapporto tra D. e la civiltà medievale. Il P. fu severo giudice delle idee del Rossetti, cui rimproverò di aver voluto propugnare, nel Ragionamento sulla Beatrice di D., il preconcetto che l'Alighieri pensasse come un libero muratore o come Voltaire, e di aver falsato l'essenziale carattere della Commedia e delle opere minori scorgendovi il gergo e i misteri di riti frammassonici.
Esaminando il pensiero filosofico e teologico medievale, Aristotele e i suoi grandi commentatori arabi, s. Tommaso e la scolastica, la patristica e la mistica, e tessendo la storia dell'allegoria, dall'antichità biblica e classica fino ai tempi di D., il P. mette in rilievo l'universalità del sistema simbolico " sia nello intendere, sia nel creare le opere d'arte ". Simbolismo inerente all'indole stessa dell'ontologia cristiana: ‛ trascrizione ' simbolica che era necessità indeclinabile per una civiltà che era tutta condizionata da una visione ontologica alla cui luce l'universo e i suoi fenomeni non erano che immagine ed espressione di tipi ed enti soprannaturali; e non pure " nelle arti espressive, ma in tutti gli altri elementi ed istituzioni sociali ". Tutto il cosmo era per il Medioevo " un cifrario dello spirito ".
Accertato il principio che il pensare e il poetare in allegoria non era da attribuire a una scelta personale e libera di D. ma a un'esigenza universale del suo tempo, il P. indaga le ragioni e i modi di tale simbolismo e, in relazione con esso, la nozione che si aveva allora delle facoltà e funzioni psichiche e intellettive della ‛ mente umana ': fra queste viene ricercata quell'attività superiore che potesse ritenersi raffigurata - in tutto il suo significato teorico e nel suo valore spirituale - da Beatrice. L'opera di D. è, perciò, necessariamente allegorica: la Vita Nuova, il Convivio e la Commedia sono coordinate in indissolubile unità da un'idea-madre, l'allegoria " beatrice... intendimento verace " della bella menzogna: allegoria della " donna beatrice " che è la " intelligenza attiva " dei filosofi scolastici, la " sapienza " dei libri sacri.
Solo se s'intende la " Beatrice " quale intelligenza attiva, secondo la concezione di Aristotele e degli aristotelici, è spiegabile - rileva il P. - come D. possa affermare che l'amore per la " filosofia " era da considerarsi, rispetto a quello per la " beatrice ", " vile e malvagio desiderio... contrario alla ragione ". Il motivo essenziale, che spinse D. a dar forma simbolica di una storia d'amore all'aspirazione dell'intelletto possibile verso la " Intelligenza che illumina la mente, e le mostra in che consiste l'ordine dell'Universo materiale, e morale ", è da individuare nel " realismo " scolastico; un'indagine che sollecitava il P. a studiare e approfondire i rapporti di D. con i mistici medievali.
Questa problematica, cui un posto preminente è venuta attribuendo la critica di questi ultimi anni, si pone, oltre che sul piano del simbolismo filosofico, su quello dell'ideale politico della monarchia universale, da cui non va disgiunto il carattere sacro e profetico assegnato da D. stesso alla sua missione in virtù della Commedia (in Il trattato De Monarchia di D.A. Nuova versione italiana con note, Palermo 1898 [Avvertimento. Idee principali della Monarchia. Libri I, II, III. Inesattezze della versione del Ficino]). La Beatrice svelata, a parte le conclusioni oggi più o meno discutibili e accettabili, ha tuttora una sua suggestiva modernità almeno per l'aspetto metodologico, rivolto alla ricerca di un principio unitario alla cui luce spiegare i legami delle opere minori con la Commedia e, il tutto, in rapporto alla cultura e alla forma mentis del tempo in cui D. operò.
Il poderoso tentativo del P., che certo fa spicco tra il profluvio degli studi danteschi di quegli anni, aspirava a un'interpretazione non davvero astratta e inerte, secondo i rigidi schemi del vecchio allegorismo; si proiettava, bensì, in ben diversa direzione, anticipando le linee fondamentali della critica allegorica del Pascoli.
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