Francesco Petrarca: Prose - Introduzione
Sul finire del secolo XVIII il signor Jean-Baptiste Lefebvre de Villebrune, filologo avventato e caparbio, in un codice miscellaneo della biblioteca reale di Parigi (il Parigino lat. n. 8206) ritrovò un frammento poetico di 34 esametri, in cui credette di riconoscere un passo inedito delle Puniche di Silio Italico; e si affrettò a inserirlo nell'edizione che preparava di quel poema. Si trattava in realtà di un brano dell'Africa, il famoso «lamento di Magone » che il Petrarca fece conoscere a Francesco Barbato nel 1343, e ch'ebbe, isolato, larga diffusione e di conseguenza tradizione manoscritta a sé stante. Nelle due edizioni del Lefebvre, l'editio maior e la minor (l'una e l'altra del 1781), i versi del Petrarca appaiono inseriti nel libro XVI, subito dopo quelli che narrano la partenza di Magone dalla Spagna. Il filologo, pregiatore così esatto della verità storica da anteporre le Puniche di Silio Italico all'Eneide di Virgilio, non s'accorse che Magone in tal modo veniva a morire per una ferita di cui non s'era fatta prima parola e che la sua fine era anticipata di circa tre anni: a tal punto lo accecava l'ambizione di presentare un testo di Silio Italico da lui per la prima volta restituito alla sua integrità! Quanto al Petrarca, il Lefebvre se ne sbarazzava facilmente con un'aperta accusa di plagio: la lettura dell'Africa - ch'egli fece evidentemente in un secondo tempo, quando qualcuno cercò di metterlo sull'avviso - lo aveva confermato nella convinzione che il Petrarca tenesse nel suo cassetto una copia di Silio Italico e ne facesse man bassa.
La disinvoltura del Lefebvre ci fa ora sorridere, come ci fa sorridere d'altro lato l'indignazione del Corradini, che della cosa si occupa nella sua edizione dell'Africa, e quella ancor più vibrante del Fracassetti che ne parla commentando la Sen., II, I. Il Petrarca, se mai, avrebbe avuto ragione di rallegrarsi che un filologo classico potesse scambiarlo con un antico. E non è questa l'unica volta: gli studi recenti del Billanovich hanno messo in luce come alcune congetture petrarchesche siano state prese per lezioni genuine e accolte in edizioni moderne di Livio e di Cicerone; il De gestis Cesaris, attribuito erroneamente a quel Giulio Celso che il Petrarca riteneva autore dei Commentarii di Cesare, fu considerato a lungo opera di antico, e alcune pagine di esso pubblicate talvolta di seguito e a integrazione dei Commentarii, finché lo Schneider e il Rossetti non lo rivendicarono definitivamente al Petrarca. È una storia interessante questa, non ancor nota per intero. Ma per tornare al frammento di Magone e alle Puniche, l'errore del Lefebvre avrebbe potuto servir di risposta a quei contemporanei del Petrarca che, dando un giudizio assai diverso di quel passo dell'Africa, avevano rimproverato al poeta di non avervi mantenuto, nel personaggio di Magone, la convenienza poetica, di aver attribuito a un pagano, a un barbaro addirittura, sentimenti e pensieri che sarebbero convenuti piuttosto a un cristiano. Il Petrarca sentì certo questa accusa come grave, se con tanto impegno cercò di scagionarsene nella Sen., II, I (che si può leggere in questo volume a p. 1030 sgg.). In essa egli afferma risolutamente che il raccogliersi in se stessi, il ripensare alla vita trascorsa e il pentirsene è cosa nota anche ai pagani; che la considerazione dell'umana fralezza di fronte alla morte è propria dell'uomo per il solo fatto di esser mortale; che in quell'episodio non v'è dunque nulla di particolarmente cristiano bensì tutto vi è «umano» (cfr. p. 1050 sg.). Ricordo che su queste frasi amava fermarsi Vittorio Rossi parlando nelle sue lezioni dell'umanesimo petrarchesco; e non a torto. Vero è infatti che il Petrarca nello scrivere quei versi non s'era prospettato neppur di lontano il problema della «convenienza poetica»: liricamente, egli s'era sentito identico al suo personaggio Magone, come altrove nel poema sembra identificarsi volta per volta con Scipione, con Massinissa o magari con Sofonisba. Ma è anche vero che, costretto poi a meditare su quei suoi versi e a darne una giustificazione, in quel raccostamento fra cristianesimo e umanità egli chiariva l'essenza stessa del suo umanesimo e, si potrebbe forse dire, dell'umanesimo senz'altro.
Abbandonata ormai ogni interpretazione tendente a presentare il Petrarca come ribelle o almeno incapace d'inserirsi, per fervore di spiriti nuovi, nella tradizione cristiana, si fa strada sempre più l'opposta immagine di un Petrarca che quella tradizione accetta in pieno e continua. Il citato passo delle Senili può aiutarci forse, tra le due opposte tendenze, a intendere quanto vi sia di nuovo nel pensiero petrarchesco. Certo ch'egli, !ungi dal contrapporre il paganesimo al cristianesimo, ne cercò una conciliazione, rifacendosi all'esempio dei padri della Chiesa, e anticipando un problema sentito da buona parte almeno degli umanisti. Ma mentre l'incontro fra i due mondi opposti era avvenuto presso gli scrittori cristiani in grazia d'una concezione provvidenziale, per cui il divenire storico tendeva ad allinearsi sopra un'unica direttiva, ora esso avveniva invece in nome d 'una fondamentale uguaglianza dell'animo umano. Sicché il cristianesimo stesso appariva non solo come la vera e unica religione, ma anche come quella che più rispondeva a necessità e aspirazioni umane, ugualmente sentite in luoghi e tempi diversi.
Il bisogno di tutto commisurare alla personale esperienza, che è proprio del poeta lirico, agisce sempre o quasi sempre anche nel Petrarca scrittore latino e umanista; e in ciò forse è l'origine prima di quella speditezza di modi che in lui spesso ci sorprende, per cui lo sentiamo tanto più prossimo a noi dei suoi contemporanei, anche là dove egli resta fedele a formulazioni teoriche tutte proprie dell'età sua. Con gli antichi egli visse in una sorta di comunione fraterna: sia che dal loro esempio volesse trarre ammaestramento di vita per sé o per gli altri, sia che nel paragonarsi a loro egli intendesse scusare e nobilitare le proprie debolezze. «Così se ti avessi rinfacciato la calvizie, scommetto che avresti tirato in ballo Giulio Cesare» si fa dire da Agostino nel Secretum, in uno dei rari punti in cui il discorso assume un tono di lieve ironia. E il Petrarca ammette: «È un grande conforto essere fiancheggiato da così chiari compagni ... Se pertanto mi avessi rimproverato d'essere pauroso al fragore della folgore ... avrei risposto che Cesare Augusto soffriva dello stesso male. Se mi avessi detto, e se io fossi, cieco, mi difenderei con l'esempio di Appio Cieco e di Omero, re dei poeti» e via dicendo (p. 178-81 di questo volume). Altre volte egli si rivolge direttamente a quegli illustri antichi: così nel gruppetto di lettere che chiudono la raccolta delle Familiari, colloqui a tu per tu con Cicerone, Seneca, Varrone, Quintiliano, Livio, Pollione, Orazio, Virgilio, Omero, in cui il Petrarca esprime la propria ammirazione per loro e il rimpianto di non paterne leggere le opere per intero, ma talvolta anche i rimproveri per il loro operato, come se non esistesse più quell'abisso di secoli in mezzo. Atteggiamenti ingenui spesso e che talvolta tradiscono un'impostazione retorica; ma pur sempre sinceri, come quelli che nascono dal desiderio di evadere da una realtà presente che non soddisfa, di riposare il pensiero in valori che sembrano eterni, sfuggendo per un momento a quell'angoscioso senso della !abilità, che il Bosco ha così precisamente illustrato come un momento fondamentale della psicologia petrarchesca. Convalidati da una tradizione illustre, da una auctoritas indiscutibile, gli esempi di quei grandi paiono fermi come scogli nel fluire eterno del tempo. Per il ravvicinamento continuo di sé agli antichi e degli antichi a sé avviene che gli scritti latini del Petrarca - anche là dove egli si propone di far opera storica - assumano volentieri quel carattere di confessioni che è stato rilevato più d'una volta. Come tali essi possono essere e sono oggetto di studio da parte di chi voglia meglio comprendere quelle più intime confessioni che sono le liriche volgari. Una ricerca di tal genere tende necessariamente a considerare l'opera del Petrarca fuori del tempo, giacché gli scritti latini devono considerarsi allora - scrive il Sapegno - «indipendentemente dai dati cronologici, come l'antecedente ideale delle Rime: la prima e provvisoria forma assunta dalla confessione del poeta». Ma è certo d'altra parte che anche un tale studio, sia esso volto alla ricerca di motivi spirituali o soltanto tecnici, può e deve giovarsi delle precisazioni di chi alle opere latine del Petrarca si è dedicato, considerandole come organismi a sé, aventi una propria vita. Negli ultimi decenni, per opera soprattutto degli studiosi che attendono all'edizione nazionale delle opere del Petrarca, un lavoro minutissimo si è compiuto in questo senso, che ha permesso di distinguere talvolta nella stessa opera redazioni diverse, databili spesso con estrema esattezza, e di seguire per riflesso lo svolgimento degli studi e delle letture del Petrarca, il formarsi della sua imponente preparazione filologica.
Purtroppo, per il modo di comporre che gli fu abituale, non è possibile rendere evidenti tali precisazioni cronologiche attraverso l'ordinamento esterno di una raccolta come quella che qui si presenta. Di ogni opera del Petrarca si conosce con qualche esattezza la data d'inizio: mai o quasi mai si può indicare una data in cui la composizione possa considerarsi finita. Il Petrarca non riuscì a distaccarsi da alcuna di esse in modo definitivo: le teneva tutte presso di sé, anche quelle che parevano giunte a qualche completezza, e le riprendeva in mano volta a volta per deporvi le impressioni di letture ed esperienze nuove; le avrebbe volute partecipi tutte di quel processo di arricchimento e affinamento che era continuo nel suo spirito e nella sua cultura. Il De viris illustribus e l'Africa, che in alcune loro parti sono tra le sue scritture più antiche, risalendo agli anni precedenti alla laurea, furono l'occupazione che tenne più in ansia il Petrarca fino agli ultimi anni della sua vita: e rimasero infatti incomplete. Ma anche un'opera che sembrerebbe composta di getto, come il De vita solitaria, ed è un invito rivolto a Filippo di Cabassole nel 1346 perché voglia dividere col Poeta la solitudine di Valchiusa, accoglie inaspettatamente accenni alla città di Milano dove il Petrarca fu dal 1353 al 1361, e più tardi ancora si arricchisce di un capitolo nuovo, dedicato a san Romualdo. Un'antologia ordinata cronologicamente sarebbe possibile a condizione di !imitarla a una scelta di brani, distaccati dalle singole opere, e in se stessi anche brevi. Ma la presente raccolta si ispira proprio a criteri opposti, mirando a dare quando è possibile opere complete o quanto meno parti di ampio sviluppo. E allora non restava che fare avvertito il lettore delle varie stratifìcazioni cronologiche per mezzo di note storiche, delle quali invero non s'è fatto risparmio.
Se qualche linea di sviluppo vorrà indicarsi nell'opera di storico e trattatista che il Petrarca portò innanzi come un compito complesso ma unitario per tutta la sua vita, occorrerà procedere per due vie le quali, anch'esse, si commisurano solo in parte a indicazioni strettamente cronologiche. Una, un po' esterna se vogliamo, è quella che ci conduce a distinguere nell'emulazione con gli antichi un momento per dir così " recettivo », più prossimo e più affine a quello della lettura. È questo rappresentato in effetti dalle opere che il Petrarca cominciò per prime, l'Africa e il De viris illustribus: con esse il Petrarca si trasferisce idealmente nel mondo degli antichi, lo indaga attraverso la lettura dei classici, lo ricostruisce a gara nella sua fantasia. Questa, che può dirsi la prima fase d'ogni impresa umanistica, è anche all'inizio dell'opera petrarchesca. Né contrasta la considerazione che il Petrarca ritornò più volte sull'Africa e sul De viris; ché anzi la difficoltà stessa ch'egli incontrava nel condurre a termine quelle opere può esser segno di un sostanziale superamento di esse. Tutte le volte ch'egli tornava a lavorarci esse venivano mutandosi tra le sue mani, specialmente il De viris, in cui gli ultimi lavori di qualche impegno sono quelli intorno alla terza redazione della vita di Scipione Africano e al De gestis Cesaris, le due più ampie biografie che per lo stato delle fonti permettevano un ravvicinamento più completo ai personaggi biografati, un'indagine psicologica più approfondita, qualche cosa di assai diverso insomma dall'impostazione iniziale.
Pochi anni dopo il principio del De viris, nel1343, sappiamo dagli studi del Billanovich che il Petrarca ne lasciò in tronco la composizione per attendere all'altra opera storica, i Rerum memorandarum libri, in cui intendeva emulare i Facta et dieta memorabilia di Valerio Massimo. Ma mentre lo scrittore latino aveva distribuito i suoi exempla nelle due sezioni parallele dei Romani e dei non Romani (romana ed externa), il Petrarca aggiungeva una terza sezione: i moderni. L'opera risultò ben presto inferiore alle speranze ch'egli vi aveva riposte, sicché se ne allontanò (nel1345) quasi definitivamente; ed è cosa che può facilmente comprendersi, per quel tanto ch'era in essa di schematico e di scolastico, neppure aperto a quegli sviluppi che abbiamo visto possibili nel De viris, dalle prime secche biografie a quelle ampie e ricche di esperienza umana di Scipione e di Cesare. E tuttavia i Rerum memorandarum libri occupano un posto importante nello sviluppo dell'umanesimo petrarchesco. Si legga anche il pochissimo di quest'opera che è dato come saggio nel presente volume: sono tre esempi soli, tratti rispettivamente dalle tre sezioni del capitolo De studio et doctrinu. Le parti che riguardano gli antichi, Plinio e Pitagora, potrebbero a prima vista paragonarsi a passi corrispondenti di analoghe compilazioni, precedenti di poco o di molto l'opera del Petrarca: per esempio al De vita et moribus philosophorum di Walter Burley. Ma quale differenza! Come ci appare più sicuro il Petrarca nello scegliere e nel citare le fonti, quant'aria soprattutto circola nelle sue pagine, quale senso delle proporzioni e delle distanze! E a ben guardare si direbbe che sia proprio la sezione aggiuntavi dei moderni - che tratta in questo caso di un personaggio così caro e così vicino al Petrarca quale fu Roberto re di Sicilia - a dare quel senso sicuro di prospettiva, quasi una terza dimensione, a tutto il discorso. E invero il desiderio di avvicinare il moderno all'antico implica insieme la coscienza di una distanza da colmare; e la coscienza eli tale distanza è principio e fonte eli un intendimento storico.
Ancora un passo avanti nello sviluppo a cui si è accennato, e si giunge al De remediis utriusque fortune, dove il rapporto tra antico e moderno appare quasi capovolto rispetto al De viris e all'Africa. Qui la conoscenza dell'antichità viene subordinata al frutto che se ne deve trarre nel viver moderno, quasi frantumata in tanti "rimedi", adatti ai vari casi della vita nella prospera fortuna e nell'avversa. È un libro che appare piuttosto lontano dalla nostra sensibilità, non tanto nelle singole parti, animate come sono da sincera e calda eloquenza, quanto nell'impostazione generale; c che invece proprio per quella ebbe tanta fortuna nell'epoca dell'umanesimo, come fanno fede, tra l'altro, i numerosissimi codici di quell'età che ce lo conservano. Esso vuoi essere infatti un manuale di vita e s'ispira a una fiducia schiettamente umanistica: che l'esempio degli antichi, quale ci è stato tramandato dagli scrittori, possa c debba servire di norma al vivere di ogni giorno.
Delineato un processo di questo genere, che dalla contemplazione commossa del mondo antico - quasi un'evasione in esso da una realtà ostile o comunque spiacevole - porta invece a un prevalere d'interessi presenti, in funzione dei quali l'antichità viene ricercata e studiata, le lettere - Familiari e Senili, a prescindere da ogni considerazione cronologica - andrebbero poste al vertice come scritti che traggono spesso i loro motivi da casi concreti di vita. E sono esse infatti le cose più significative del Petrarca prosatore, per la felice fusione di umanità e letteratura: quelle di cui nel caso presente si vorrebbe raccomandare la lettura a chi non volesse affrontare questo volume per intero.
Un'altra linea di sviluppo si potrebbe indicare nella complessa opera del Petrarca, e tocca problemi più profondamente radicati nel suo animo, cioè i rapporti tra la cultura classica e la dottrina cristiana. Nell'entusiasmo degli studi a cui il Petrarca s'era avviato con novità assoluta di intenti, egli appare spinto in un primo tempo da una specie di acerba intransigenza, da un amore quasi esclusivo per il mondo romano e per gli scrittori classici. È il momento questo in cui il Petrarca concepisce il disegno dell'Africa e del primo De viris, quello che cominciava da Romolo per giungere a Tito (cfr. com'egli ne parla nel Secretum a p. 192 di questo volume), e doveva essere quasi una preparazione e un'illustrazione storica del poema. Perché proprio a Tito dovesse fermarsi è spiegato in alcuni versi dell'Africa (II, 274-8), dove i successori di quel principe, non romani ma africani e spagnoli, sono trattati per ciò stesso come «sordes hominum», vergognosi avanzi della spada romana. Livio, Lucano, Cicerone, Svetonio erano allora i numi incontrastati del suo Olimpo, dove piccolo posto era riservato agli scrittori cristiani: fatta eccezione per sant'Agostino, quello che nel Secretum appare a dirigere e districare le confessioni del Petrarca. Il tormento, che travagliava allora il Poeta e sul quale il Santo lo illumina, si riduceva a un contrasto tra la sincera fede religiosa e l'incapacità di adeguare perfettamente ad essa la propria vita per non saper rinunciare alle seduzioni terrene. Tale contrasto rimane fondamentale nella psicologia petrarchesca, dalle rime più antiche fino alla canzone alla Vergine, dal Secretum ai Salmi penitenziali, alla lettera a Gerardo che può leggersi in questo volume (p. 916 sgg.) e via via fino alle ultime Senili, ave esso appare placato soltanto - non superato, non vinto - nell'aspettazione filosoficamente consapevole della morte vicina. Di una crisi dunque non si può parlare né prima del Secretum né dopo; ma di un'evoluzione sì certo, soprattutto nel campo di cui è ora il discorso, ossia nel campo della cultura, nel quale il Petrarca giunge a superare le barriere d'una ammirazione esclusiva dell'antichità romana per accogliere insieme altre voci. Che al principio di quel moto evolutivo stia la monacazione del fratello Gerardo (avvenuta, sembra, nel 1342, in corrispondenza quindi con il Secretum), è possibile; ma l'evoluzione fu lenta e laboriosa e si estese da quell'anno fino al 1350. Cadono in questo periodo avvenimenti decisivi per la biografia petrarchesca: il tentativo di Cola di Rienzo che lo distacca dalla curia avignonese, la peste del 1348 con la morte di tanti amici e di Laura, l'incontro e l'amicizia con il Boccaccio, e infine la visita a Roma per il giubileo del 1350, l'anno che il Petrarca stesso designa come quello della rinuncia definitiva ai piaceri del senso.
Nel Secretum il desiderio di conciliare la cultura classica con la cristiana è già evidente, ma l'amore per l'antico prevale. Basta considerare il gusto quasi polemico con cui il Petrarca fa che Agostino riconosca quanto deve agli scrittori antichi e soprattutto a Cicerone. E il Petrarca stesso, mentre dichiara di aver letto il De vera religione, dice di avervi trovato un diletto nuovo come quegli che, peregrinando " fuor dalla sua patria ", s'incontra in nuove città che l'attraggono e l'interessano (v. p. 67 di questo volume). Ancora nella prima Egloga, diretta al fratello Gerardo, il Petrarca contrappone e confronta la poesia di Virgilio e di Omero con quella di Davide, non risparmiando a quest'ultimo lodi e riconoscimenti; ma lascia intendere alla fine ch'egli vuol seguire le orme degli altri due. Nel De vita solitaria l'antinomia tra letteratura cristiana e pagana appare superata completamente: numerosissimi sono gli autori cristiani ch'egli cita con perfetta conoscenza, di alcune opere discutendo filologicamente per accettarne o respingerne l'attribuzione tradizionale; in nessun modo potrebbe più dire di essere qui come un forestiero curioso fuori della sua patria. E, quel che più conta per noi, il Petrarca stesso è cosciente di aver tentato qualche cosa di nuovo in questo senso. Così dice infatti, alla fine del De vita solitaria: ''Mi è stato dolce, a differenza degli antichi che di solito seguo in molte cose, inserire spesso in questa mia opericciola il nome sacro e glorioso di Cristo." La solitudine quale egli la concepiva e la praticava, più che all'ascesi cristiana era vicina all'otium literatum degli antichi, un aristocratico appartarsi dal mondo per meditare e studiare; tuttavia in essa aveva trovato o creduto di trovare un punto d'incontro fra la saggezza pagana e la spiritualità cristiana; e a ugual fiducia s'ispira ii De otio religioso. Analogamente, poco tempo dopo la composizione del De vita solitaria, il disegno primitivo del De viris si allarga a comprendere non i soli Romani, ma tutti gli uomini illustri a cominciare da Adamo, attingendo materia ugualmente alla storia sacra e alle storie profane.
Il problema se e quanto lo studio e l'ammirazione per gli antichi potesse conciliarsi con la fede era stato sentito profondamente dagli scrittori cristiani e risolto in complesso, non senza ondeggiamenti e timori («ciceronianus es non christianus» suonava il rimprovero a san Girolamo che il Petrarca sembra talvolta rivolgere a sé), nel senso di un'accettazione e assimilazione della cultura pagana. E tale soluzione sembra compendiarsi alla fine del mondo antico nell'opera di Cassiodoro, distinguente con perfetto parallelismo, nelle sue Institutiones, le «lettere divine» e le «secolari»; e per suo mezzo trasmettersi al Medioevo come l'eredità di un bene stabilmente acquisito. Ma all'umanesimo il problema si poneva di nuovo come attuale, nel momento ch'esso pretendeva rivolgersi alla cultura classica attingendo alle fonti prime direttamente, quasi riscoprendole al di là delle compilazioni e raccolte del Medioevo. Uguale era il problema e uguale si prospettava, almeno in apparenza, la soluzione: accoglimento di quanto nel paganesimo coincide o non contrasta con la fede cristiana; sicché il Petrarca aveva buon gioco a mostrare che Girolamo, Agostino, Lattanzio s'eran nutriti degli stessi autori ch'egli con tanto amore ricercava e leggeva. Ma allora donde traeva giustificazione la lunga e vivace polemica, in cui furono impegnati i primi umanisti dal Mussato al Salutati e oltre, in difesa di un proprio diritto di studiare e imitare la poesia pagana? Come poteva il contraddittore di Coluccia Salutati, Giovanni Dominici, condannare nella Lucula noctis l'acquisto di una dottrina alla quale in fondo non era estraneo egli stesso? Come suole accadere, son proprio le voci discordi a darci l'avviso che si preparava qualche cosa di importante e di nuovo. E il nuovo consisteva appunto in quello a cui s'è accennato a principio, cioè nell'abbandono d'una concezione provvidenziale della storia per vedere nella sostanziale identità delle anime umane la possibilità di ritorni e d'incontri. Uomo era il cartaginese Magane che in punto di morte contemplava per naturale impulso la labilità della vita e la vanità delle trascorse vicende; uomo Cicerone il cui dire sembra talvolta non quello d'un filosofo pagano ma d'un apostolo (cfr. De ignorantia, p. 729); uomo il gimnosofista Calano che, fiero della sua solitaria sapienza, tratta a tu per tu con il grande Alessandro (De vita solitaria, p. 512 sgg. ).
Interessanti sono a tal riguardo alcune pagine del De vita solitaria. Dopo aver narrato di Pier l'Eremita e della prima crociata, il Petrarca fa alcune amare considerazioni sullo stato presente del mondo cristiano: il cristianesimo ha perduto molto terreno in Africa e in Asia, perfino in Europa, in confronto all'espansione di cui si ha notizia da Agostino e Girolamo: il sepolcro di Cristo è in mano agl'infedeli e i principi cristiani di tutt'altro sono occupati che di lavare quell'onta. «Se oggi Giulio Cesare ritornasse dall'al di là» si domanda il Petrarca «e vivendo in Roma sua patria conoscesse il nome di Cristo», non tornerebbe forse a combattere, non restituirebbe a Cristo ciò che gli appartiene, «egli che quelle terre donò a una concubina quale prezzo del suo adulterio?» (p. 495). Il discorso può sembrare anche strano; ma non mostra alcun segno della fatale missione imposta a Cesare «presso al tempo che tutto il ciel volle Redur lo mondo a suo modo sereno»: l'operato del dittatore non poteva essere più bruscamente ridotto entro i termini di un agire umano. E aggiunge il Petrarca: «Non mi domando con quanto diritto abbia egli agito così: ammiro quella forza d'animo e quella energia, che sarebbe necessaria ai nostri tempi».
Animi vis et acrimonia:
Dell'ampia biografia dedicata a Cesare, che al Petrarca maturo apparve come l'esempio più cospicuo di quelle virtù, è presentato in questo volume un capitolo dei centrali che è forse tra i più significativi di tutta l'opera storica, perché in esso il Petrarca affronta un problema che lo appassiona vivamente: la difesa di Cesare dall'accusa di aver provocato, per ambizione, le guerre civili. Nella sua giovinezza, soprattutto per influsso di Lucano, il suo giudizio in proposito era stato molto severo -ne resta l'eco in alcuni passi dell'Africa -, poi attraverso la lettura dei Commentarti e delle Epistole ad Attico, le quali ultime suggerivano qualche riserva sull'operato di Cicerone (cfr. p. 1022 sgg. di questo volume), s'era modificato completamente. Sarebbe stato facile condurre la difesa - sulle orme dantesche - nel nome d'una missione imposta a Cesare dal volere divino; ma il Petrarca è ben lontano dal farlo. Dopo averne enunciate e quasi ammesse le colpe - ma si tratta di un artificio che sa, a dire il vero, di avvocatesco - si adopera asminuirle a una a una e addirittura ad annullarle attraverso un'indagine psicologica delle singole azioni, una disamina acuta degli opposti giudizi, soprattutto quelli del nemico più dichiarato di lui, cioè Cicerone. Il desiderio di scagionare Cesare nasce da un movimento cordiale di simpatia, e tutto il discorso si adegua alla misura dell'agire umano.
D'ispirazione più chiaramente agostiniana è la polemica filosofica che il Petrarca dirige spesso contro gli averroisti e che trova la sua espressione più completa nel De ignorantia. Degli averroisti dispiaceva al Petrarca cristiano la teoria della «doppia verità» (« che altro è questo», si domanda, « se non cercare il vero dopo aver messo da parte la verità?»: cfr. p. 733); all'umanista spiacevano invece l'interesse per le questioni naturali e le sottigliezze di logica formale. Dall'opposizione all'averroismo, attraverso la lettura di traduzioni latine di Platone, ma più per influsso di sant'Agostino, il Petrarca giunse a una contrapposizione tra Aristotile e Platone, tutta a favore di quest'ultimo: contrapposizione un po' rigida se vogliamo, che ci fa conoscere anche i limiti del suo senso storico. È interessante a questo proposito un passo della Fam., x, 5, 15, che si ripresenta quasi identico nel De ignorantia (v. p. 746 di questo volume) e in cui il Petrarca ci dice che Aristotile era solito irridere Socrate perché si occupava solo di questioni morali: « circa moralia negotiantem ». In una nota alle Familiari il Rossi, indicando in un passo della Metafisica la fonte di quel giudizio, si domanda con qualche meraviglia come potesse scorgervi il Petrarca un tono di derisione. La risposta veramente ci è data dal Petrarca stesso subito dopo, quando ci fa sapere che Socrate e Aristotile si disprezzavano a vicenda, e cita al proposito un passo di Cicerone, dove per un errore del suo codice leggeva «Socrate» invece di «Isocrate». Ammesso un reciproco disprezzo tra i due filosofi antichi, il Petrarca s'era dato a ricercarne un'eco negli scritti aristotelici e aveva creduto di trovarla in quella frase dove il participio negotiantem, a lui pregiatore dell'otium, appariva come una parola di scherno. Ci stupisce non tanto l'errore cronologico, in fondo non grave, quanto l'incapacità di comprendere la successione Socrate- Platone- Aristotile, la quale avrebbe escluso senz'altro quell'accento irrisorio; ma il Petrarca trasferiva all'età antica una opposizione polemica che era tutta sua: Aristotile da un lato, Socrate e Platone dall'altro. Comunque, pur con qualche incertezza e ingenuità, il Petrarca precede anche qui e annuncia posizioni teoriche che furono assai feconde nell'età successiva; e a ciò è spinto ancora una volta dalla tendenza a far convergere nell'animo umano tutto il fascio delle sue curiosità e dei suoi interessi. « Vanno gli uomini ad ammirare gli alti monti e i grandi flutti del mare ... e trascurano se stessi» (p. 841): sono le parole che il Petrarca, secondo il suo racconto, legge aprendo a caso le Confessioni di sant'Agostino durante l'ascensione al monte Ventoso, e per esse risuona ancora una volta, sulla bocca del Petrarca, l'avvertimento di Socrate.
Si sono indicati gli anni dal 1342 al1350 come decisivi nell'evoluzione spirituale del Petrarca; in essi cade un avvenimento che ha ripercussioni profonde nella sua vita e nei suoi orientamenti politici: il tentativo di Cola di Rienzo. È noto che il Petrarca espresse immediatamente la sua solidarietà con il tribuna, la cui azione era determinata da esigenze umanistiche e spirituali molto simili a quelle ch'egli allora sentiva, e nonostante le delusioni che ebbe presto a soffrirne (cfr. Fam., VII, 7, p. 890 sgg.), non rinnegò mai quel primitivo entusiasmo. Si legga la Fam., XIII, 6 (p. 954 sgg.): le impressioni ricevute per la vicinanza di Cola, prigioniero ormai ad Avignone e in stato d'accusa, vi sono curiosamente dissimulate dietro un problema letterario che, almeno nell'intitolatura della lettera, vorrebbe esser presentato come prevalente: se convenisse a Cola il titolo di poeta che alcuni intendevano dargli. Ma la lettera appare vibrante di commozione per la fine prossima del tribuna e di sdegno contro la Corte avignonese, che gli fa colpa non dell'insuccesso dell'impresa ma di averla tentata, aspirando al vanto «di far salva e libera la repubblica e stabilire in Roma il governo dell'impero e delle cose romane». Più tardi, nell'Invectiva contra eum qui maledixit Italie, uno degli ultimi scritti del Petrarca, egli si compiace ancora di ricordare lo smarrimento e il timore che aveva gettato nella Curia avignonese l'annuncio di quel tentativo (p. 776).
L'esperimento di Cola diede al Petrarca la forza di estraniarsi anche materialmente dalla Curia avignonese, dalla quale si sentiva ormai già lontano nell'animo, col crescere di quelle istanze spirituali che lo facevano compagno di santa Caterina e santa Brigida nel condannare Avignone (l'«avara Babilonia») e la cattività avignonese. Nel 1347, proprio con l'intenzione di raggiungere Cola di Rienzo, il Petrarca abbandona la Francia e si accommiata dal cardinale Giovanni Colonna. A giudicare dall'Egloga VIII che a quel distacco si riferisce, sembra che esso non sia avvenuto senza vivace contrasto da una parte e dall'altra, e ciò troverebbe conferma nel tono impacciato e un po' ipocrita della Fam., VII, 13 (p. 896 sgg.), con la quale, dopo il fallimento dell'impresa di Cola, il Petrarca tentò di ravvicinarsi all'antico patrono. Il cardinale del resto morì poco dopo di peste e il Petrarca, tornato ad Avignone per la quarta volta (1351), non poté trattenervisi: il distacco era stato ed era troppo profondo; ne ripartì nel I 353 e da allora si trattenne sempre in Italia. L'allontanamento dall'ambiente in cui aveva vissuto fin dall'infanzia non fu senza effetti sulla sua personalità. Egli era allora nel pieno dell'attività intellettuale e della rinomanza e anche se non fece «parte per se stesso», anzi ricercò sempre la protezione dei potenti, tuttavia queste nuove sudditanze apparivano almeno accettate da lui per libera scelta; e di quella scelta egli doveva render conto agli oppositori e agli amici. Comincia ora il periodo delle vivaci polemiche a difesa della propria fama di uomo e di letterato; mentre più autorevole diventa la sua voce nel campo degli studi e anche in quello politico, giacché i nuovi padroni gli affidano volentieri missioni diplomatiche anche importanti . Più frequenti si fanno, nel suo epistolario, le lettere di contenuto politico, alcune a dire il vero suggerite evidentemente dagli interessi dei potenti presso i quali ha ricetta, opera di un cortigiano d'eccezione (cfr. la lettera al Bussolari, a p. 980 sgg.), ma pur tutte ispirate a un ideale profondamente sentito, l'ideale di una patria che torni, pacificata, sulla via della grandezza antica; si legga per esempio quella nobilissima ad Andrea Dandolo (p. 940 sgg.) per la pace tra Venezia e Genova, i due «occhi» d'Italia.
Dalla guelfa Avignone il Petrarca si trasferì proprio nel campo avverso, nella roccaforte del ghibellinismo, presso i Visconti. Come è noto il fatto suscitò critiche acerbe da parte degli amici soprattutto fiorentini, e anche naturalmente della Curia pontificia. Il Petrarca se ne difese - più vivacemente, in una delle invettive, polemizzando coi prelati avignonesi (p. 698, n. 6 sgg.), con più cautela discutendo con gli amici (cfr. p. 974 sgg.);- e gli argomenti sono fondamentalmente gli stessi: che la tirannide di un solo non è peggiore di quella dei più (è in questo periodo probabilmente che si perfeziona l'ammirazione del Petrarca per Cesare, di contro all'eroe prediletto negli anni giovanili, Scipione); che accettando la protezione dei Visconti egli non ha rinunciato minimamente alla sua «libertà».
Vero è che la libertà di cui parla il Petrarca somiglia troppo a quell'aristocratico appartarsi in solitudine - o magari in seno a una eletta sodalitas - che è in fondo l'ideale da lui espresso nel De vita solitaria, anche se per illustrarlo ricorre all'esempio di santi e di asceti la cui solitudine aveva ben altro significato. Ma poiché dalla torre d'avorio degli studi liberali il letterato esce volta a volta per diffonderne i frutti salutari tra le persone impegnate ad agire, ecco perfezionarsi ora e colorirsi il più generoso forse dei miti che il Petrarca abbia creato intorno alla sua persona: la missione del letterato che dalle esperienze di studio trae forza e autorità a dispensare ai potenti moniti e consigli, lode e vituperio, interprete tra i moderni della saggezza antica. La coscienza di questa missione e l'attesa della morte, che lo trarrà fuori dall'ondeggiamento delle speranze e dei timori in un porto di quiete assoluta (si preparano in questi anni temi che troveranno la loro espressione poetica nel Trionfo dell'eternità), sono le due note fondamentali a cui s'intona tutto il gruppo delle Senili, anche per intervento consapevole del Petrarca, che nel distribuire alcune lettere tra le due raccolte maggiori non seguì sempre criteri strettamente cronologici. È chiaro inoltre che tale missione era considerata dal Petrarca non il privilegio di un singolo, ma un bene che potesse idealmente trasmettersi attraverso l'esempio; come infatti si trasmise, e fu l'umanesimo. La raccolta delle Senili non ebbe né avrebbe potuto avere dal Petrarca un assestamento definitivo come avvenne per le Familiari; ma non è senza significato ch'essa termini con un gruppo di lettere tutte indirizzate al più grande tra gli amici e discepoli, a Giovanni Boccaccio. Una è posta a chiusa del presente volume, ed è quasi un testamento spirituale del grande scrittore, espressione della fede ch'egli riponeva nella sua missione di letterato.
Per le notizie intorno alla vita del Petrarca (20 luglio 1304 - 18 luglio 1374) si rimanda alle due ampie lettere autobiografiche contenute nel presente volume: la Posteritati (pp. 2-19) e la Sen., X, 2, a Guido Sette (pp. 1090 - 1125); in più si potrà consultare la voce « Petrarca, Francesco » nell'indice di questo volume e del precedente (F. PETRARCA, Rime, trionfi e poesie latine, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951). Sui tempi di composizione delle varie opere e sulle molteplici peregrinazioni, tipiche dell'irrequieta sensibilità petrarchesca, orientano agevolmente i nitidi prospetti di ERNEST H. WILKINS, in The Making of the "Canzoniere» and other Petrarchan Studies, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1951 (p. 347 sgg., A Chronological Conspectus of the Writings of Petrarch; p. 1 sgg., Peregrintts ubique).
La bibliografia petrarchesca è imponente e articolata spesso nello studio di questioni particolari: ci limitiamo a indicare le cose essenziali. Sulla vita, a prescindere dalle testimonianze più antiche (raccolte in A. SOLERTI, Le vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo XVI, Milano, Vallardi, 1904), resta ancora utile per la copia d'informazioni l'opera di I.-F.-P. ALDANCE abate DE SADE, Mémoires pour la vie de F. Pétrarque, tirés de ses reuvres et des auteurs contemporains, voli. 3, Amsterdam, Arskée et Mercus, 1764-67. Importanti precisazioni intorno a singoli fatti sono contenute nelle ricerche di A. FORESTI, raccolte nel volume Aneddoti della vita di F. Petrarca, Brescia, Vannini, 1928. Tra gli studi d'insieme meritano speciale attenzione l'ampio e informatissimo capitolo dedicato al Petrarca in N. SAPEGNO, Il Trecento, Milano, Vallardi, 1955, pp. 165-276 (con ricca bibliografia), e il vol. di U. Bosco, Petrarca, Torino, UTET, 1946, che mette in particolare evidenza il sostrato culturale della poesia petrarchesca e, in genere, i rapporti tra letteratura, arte, vita. Sono anche utili per un rapido orientamento gli articoli di E. CARRARA, in Enciclopedia Italiana, XXVII, 1935. pp. 8-23 (stampato a parte, in forma più ampia, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1937), e di P. G. RICCI, in Enciclopedia Cattolica, IX, 1952, coll. 1288-99; la vasta trattazione di C. CALCATERRA, Il Petrarca e il Petrarchismo, nei Problemi ed orientamenti diretti da A. MOMIGLIANO, III, Milano, Marzorati, 1949. p. 167 sgg., e, per la varia fortuna del Petrarca, il solido saggio di E. BONORA, Lineamenti di storia della critica petrarchesca, nel vol. Idei Classici italiani nella storia della critica, opera diretta da W. BINNI, Firenze, La Nuova Italia, 1954. pp. 95-166. Naturalmente, da non trascurare l'agile volume di H. HAUVETTE, Les poésies lyriques de Pétrarque, Parigi, Éditions littéraires et techniques, 1931 (su cui cfr. A. MOMIGLIANO, Intorno al " Canzoniere" , in Elzeviri, Firenze, Le Monnier, 1945, pp. 65-7I).
Per l'intendimento della poesia petrarchesca si veda: F. DE SANCTIS, Saggio critico sul Petrarca, nuova ed. a cura di N. GALLO, con prefazione di N. SAPEGNO, Torino, Einaudi, I952, o l'ed. a cura e con prefazione di E. BONORA, Bari, Laterza, 1955; B. CROCE, La poesia del Petrarca, in Poesia popolare e poesia d'arte, Bari, Laterza, 1933, pp. 65-80; N. SAPEGNO, nel citato capitolo del Trecento; i citati lavori del Bosco e del Calcaterra; L. Russo, nei vari saggi petrarcheschi del vol. Ritratti e disegni storici, serie III, Bari, Laterza, 1951, e nel saggio Il Petrarca e il Petrarchismo, in "Belfagor”, IX, 1954. pp. 497-509; G. BELLONCI, Il nostro Petrarca, in "Annali della Cattedra petrarchesca", IX, 1939 (estratto). Sull'ordinamento interno del Canzoniere, v. ERNEST H. WILKINS nel volume già citato The Making of the "Canzoniere" ccc. (specialmente pp. 75-194). Sulla composizione dei Trionfi, C. CALCATERRA, Nella selva del Petrarca, Bologna, Cappelli, 1942 (specialmente pp. 145-208).
Quanto al Petrarchismo, oltre al cit. HAUVETTE, Les poésies lyriques ecc., pp. 115-225, e al cit. Russo, Il Petrarca e il Petrarchismo, pp. 502-09, v. B. CROCE, La lirica cinquecentesca, nel vol. cit. Poesia popolare ecc., pp. 339-46 ; C. CALCATERRA, Il Petrarca e il Petrarchismo, già ricordato, pp. 198-213; E. BIGI, Petrarchismo ariostesco, in Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 47-76; e cfr. A. MOMIGLIANO, Petrarchismo europeo, nei citati Elzeviri, pp. 72-7 (a proposito del libro di A. MEOZZI, Il Petrarchismo europeo, prima parte, Pisa, Vallerini, 1934).
Gli studi sull'umanesimo petrarchesco si può dire comincino con l'opera fondamentale di P. DE NOLHAC, Pétrarque et l'humanisme, voll. 2, 2a ed., Parigi, Champion, 1907; a cui deve aggiungersi R. SABBADINI, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e XV, vol. I, Firenze, Sansoni, 1 905. Ma un impulso notevole ebbe questo genere di indagini dai lavori intorno all'edizione nazionale delle opere petrarchesche (specialmente delle Familiari a cura di V. Rossi e di U. Bosco), per impegno ivi assunto dagli editori di rintracciare le citazioni esplicite e implicite di cui abbonda la prosa petrarchesca. Alcuni tra i risultati di tale lavoro sono raccolti da U. Bosco, nell'articolo Il Petrarca e l'umanesimo filologico (postille al Nolhac e al Sabbadini), in "Giornale storico della letteratura italiana ", cxx, 1943, pp. 65-119. Dai lavori per l'edizione critica ha preso l e mosse anche l'opera di G. BILLANOVICH, che s'è sviluppata con motivi propri, mirando a ricostruire, sulle vicende dei codici petrarcheschi, capitoli di storia della cultura; principalmente: Petrarca letterato, I, Lo scrittoio del Petrarca, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1947; Petrarca e Cicerone, in Miscellanea Giov anni Mercati, IV, Città del Vaticano, Bibl. Apost. Vat., 1946; Petrarch and the Textual Tradition of Livy, in "Journal of the Warburg and Courtauld lnstitutes”, XIV, I 951, pp. 137-208. Per l'interpretazione dell'umanesimo petrarchesco, v. C. CALCATERRA, Nella selva del Petrarca, già citato, e P. P. GEROSA, L'umanesimo agostiniano del Petrarca, Torino, S.E.I., 1927, tutti e due d'ispirazione cattolica, miranti a mettere in luce soprattutto l'influsso di sant'Agostino; con altro orientamento il limpidissimo saggio di N. SAPEGNO, Il Petrarca e l'umanesimo, in «Annali della Cattedra petrarchesca» , VIII, 1938 (estratto). Cfr. anche A. VISCARDI, F. Petrarca, Napoli, Perrella, s. a.; G. MARTELLOTTI, Linee di sviluppo dell'umanesimo petrarchesco, in "Studi petrarcheschi", 11, 1949, pp. 51 -80; J. H. WHITFIELD, Petrarca e il Rinascimento, trad. di V. CAPOCCI, Bari, Laterza, 1949. Va da sé che in una bibliografia sul Petrarca umanista sono da sottintendere, e non solo per le pagine a lui dedicate specificatamente, opere generali e indagini particolari sull'umanesimo. Siano citati almeno: G. GENTILE (Storia della filosofia, Milano, Vallardi, s. a., e Studi sul Rinascimento, 2a ed., Firenze, Sansoni, 1936); V. ROSSI (Studi sul Petrarca e sul Rinascimento, in Scritti di critica letteraria, II vol. Firenze, Sansoni, 1930); G. TOFFANIN (L'Umanesimo italiano dal XIV al XVI secolo, v ed., Bologna, Zanichelli, 1952); E. GARIN (L'Umanesimo italiano, Bari, Laterza, I952). E cfr. i citati saggi del Russo nel vol. Ritratti e disegni storici.
Sul « linguaggio » poetico del Petrarca si veda: G. CONTINI, Saggio d'un commento alle correzioni del Petrarca volgare, Biblioteca del Leonardo, Firenze, Sansoni, 1943; G. DE ROBERTIS, Valore del Petrarca, in Studi, Firenze, Le Monnier, 1944, pp. 32-47; M. FUBINI, Il Petrarca artefice, in Studi sulla letteratura del Rinascimento, Firenze, Sansoni, 1947, pp. 112; G. CONTINI, Preliminari sulla lingua del Petrarca, in "Paragone» , 16 (Letteratura), 1951, pp. 3-26; A. NOFERI, Alle soglie del Secretum, riflessi dell'esperienza poetica delle Rime nelle opere latine del Petrarca, Firenze, Il Cenacolo, 1954 (della NOFERI, cfr. pure, tra altri vari scritti, L'esperienza poetica del Petrarca, in «Paragone», 6 (Letteratura) 1950, pp. 16-25); E. BIGI, Alcuni aspetti dello stile del Canzoniere petrarchesco e Nota sulla sintassi petrarchesca, nel cit. vol. Dal Petrarca al Leopardi, pp. 1 -22. Non esiste uno studio complessivo sul "latino" del Petrarca. Per il cursus, cfr. G. MARTELLOTTI, Clausole e ritmi nella prosa narrativa del Petrarca, in " Studi petrarcheschi”, IV, 1951, pp. 35-46.
Gli studi relativi al Petrarca si accentrano, in Italia, intorno alla Commissione per l'edizione nazionale (già diretta da G. Gentile, ora da C. Marchesi), e intorno all'Accademia petrarchesca di lettere, arti e scienze di Arezzo. Sotto gli auspici di questa Accademia furono pubblicati gli Annali della Cattedra petrarchesca, I-IX, 1930-40; a cui fecero seguito, con intenti più scientifici, gli Studi petrarcheschi diretti da C. CALCATERRA, voll. I-V, Bologna, Libreria della Minerva, 1948-52 (morto il Calcaterra la direzione ne è passata a U. Bosco: il vol. VI è in corso di stampa). È uscito ora anche il vol. xxxv della N. S., per gli anni 1949-51, degli Atti e memorie dell'Accademia Petrarca di lettere, arti e scienze, Arezzo 1954.
La bibliografia particolare relativa alle singole opere del Petrarca non ha bisogno d'essere qui illustrata, giacché lo è già sufficientemente nelle Note critiche in fondo a questo volume e al precedente. Non compaiono nelle due raccolte la Vita Terrentii, breve chiarimento filologico intorno a Terenzio, che è tra le scritture più antiche del Petrarca; l'ltinerarium Syriacum (propriamente: Itinerarium breve de lanua usque ad lerusalem el Terram Sanctam), composto nel 1358 per Giovanni di Mandello che si recava in Terra Santa (in attesa della edizione di G. BILLANOVICH, si può leggere in G. LUMBROSO, Memorie italiane del buon tempo antico, Trieste, Loescher, 1889, pp. 16-49); le diciannove lettere Sine nomine, espressione di quell'atteggiamento polemico contro la Curia avignonese che è altrimenti documentato nel presente volume: per esse si veda l'eccellente edizione di P. PIUR, Petrarcas "Buch ohne N amen” und die papstliche Kurie, Halle, Niemeyer, 1925. Altri scritti minori si trovano in A. HORTIS, Scritti inediti di F. Petrarca, Trieste, Tipografia del Lloyd, 1874; tra questi il discorso tenuto dal Petrarca per l'incoronazione in Campidoglio, di cui ha dato recentemente una traduzione inglese ERNEST H. WILKINS, Petrarch's Coronation Oration, in PMLA ( = Publications of the Modern Language Association of America, LXVIII, 1953. pp. 1241-50).