Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Forse il primo a poter essere definito come un letterato nel senso moderno del termine, Francesco Petrarca unisce alla propria produzione un costante dialogo con i grandi autori classici latini, mostrando una passione libraria e un intento filologico già di stampo umanistico. I Rerum vulgarium fragmenta – il canzoniere che raccoglie le liriche in volgare, in gran parte dedicate all’amore per Laura – è un’opera organica e compiuta, che diventerà, a partire dal XVI secolo, il modello di riferimento per gran parte della tradizione lirica.
Il più celebre biografo del Petrarca, Ernst Hatch Wilkins, racconta un episodio curioso della fanciullezza del Petrarca. Destinato dal padre ser Petracco allo studio della giurisprudenza, Francesco si ostina a trascorrere il tempo nella lettura dei classici, provocando le ire del padre che per punizione gli getta nel fuoco un manoscritto di Virgilio e uno di Cicerone, che poi, già un po’ bruciacchiati, salva dalla rovina, mosso a compassione dalle lacrime del figlio. Questo precoce ed emblematico evento per un verso prefigura il futuro destino del primo vero letterato in senso stretto della nostra cultura e per un altro rivela già quell’intima passione per i libri che farà del Petrarca il primo vero filologo e bibliofilo “umanista”. Per tali ragioni il Petrarca poeta, consacrato come fondatore del genere lirico e prima voce dell’io della tradizione letteraria italiana, mai si può scindere dall’intellettuale lettore attento e onnivoro di autori classici.
Possediamo numerose notizie relative alla vita del Petrarca, desumibili dalle continue tracce che il poeta lascia nella sua produzione letteraria, a cui dobbiamo aggiungere i suggestivi “ritratti” di sé che il poeta vuole consegnare ai posteri, talvolta tessendo ad arte la trama della propria autobiografia. C’è inoltre nel Petrarca la volontà di delineare di sé un’immagine unitaria, tracciando un disegno ascensionale (dalla seduzione sensuale alla liberazione dai vincoli delle passioni terrene) che tuttavia spesso si lascia sfuggire segni incontrollabili di incertezze, di malcelate cadute. Così nel proprio ritratto delineato nella Posteritati, sostiene, non senza qualche perplessità dei filologi, di non aver più prestato ascolto alle tentazioni della carne dopo i quarant’anni; e alla medesima tensione verso un’autorappresentazione “ideale” mira, sempre nella medesima lettera, la narrazione della parabola delle proprie letture e attività intellettuali, dal terreno al divino, dalla giovanile seduzione dei pagani all’ortodossa attenzione agli autori cristiani: ma nella realtà il cammino non è così lineare.
Petrarca nasce ad Arezzo il 20 luglio del 1304 dal notaio fiorentino Petracco dell’Incisa, come Dante guelfo bianco esiliato nel 1302 in seguito alla vittoria dei Neri, e da Eletta Canigiani. Quando Francesco ha appena sette anni la famiglia si trasferisce a Pisa e l’anno dopo ad Avignone, allora sede del papato, dove il padre è assunto presso la sede pontificia; nella vicina Carpentras, dove la famiglia si sistema, Francesco compie i primi studi di grammatica, retorica e dialettica sotto la guida del maestro Convenevole da Prato.
Per volontà paterna è avviato agli studi giuridici, prima a Montpellier, nel 1316, e poi, tra il 1320 e il 1326, all’università di Bologna. In questa città, dove si reca insieme al fratello Gherardo e all’amico Giacomo Colonna, Petrarca si appassiona agli studi classici e alla poesia.
Dopo la morte del padre, tornato ad Avignone viene a contatto con l’eleganza ma anche con la corruzione della corte avignonese (spesso polemicamente denominata “Babilonia”, contro cui si scaglia nei sonetti “antibabilonesi” del Canzoniere, nella sesta ecloga del Bucolicum Carmen e in alcune lettere Sine nomine). Ma è proprio ad Avignone che, stando alla sua testimonianza poetica, registrata sulle carte del suo libro più amato, il codice delle opere di Virgilio, il 6 aprile 1327, nella chiesa di Santa Chiara Petrarca vede per la prima volta la donna che ama per tutta la vita e celebra nelle liriche del Canzoniere: Laura, della quale è certa l’esistenza storica, più volte ribadita dallo stesso poeta. Tra il 1327 e il 1330 stringe rapporti con la potente famiglia dei Colonna, con Giacomo e con il fratello Giovanni, uno dei più influenti rappresentanti del clero italiano nella curia pontificia.
Attorno al 1330 prende gli ordini minori allo scopo di assicurarsi una rendita che gli avrebbe consentito di dedicarsi agli studi. Al servizio del cardinale Giovanni Colonna, Petrarca ha modo di effettuare numerosi viaggi in Europa, di visitare le biblioteche più ricche, di conoscere e frequentare i più illustri politici e intellettuali del tempo. Tra la primavera e l’estate del 1333 compie il suo primo lungo viaggio attraverso la Francia, le Fiandre, il Brabante e la Germania; è a Gand, Parigi, Liegi (dove porta alla luce due orazioni di Cicerone), Aquisgrana e Colonia. Fatto ritorno ad Avignone, conosce il monaco agostiniano Dionigi da Borgo San Sepolcro, che diviene suo amico e confidente, e che gli dona, perché vi trovi conforto, un codice delle Confessioni di sant’Agostino.
Nel 1335 ottiene da papa Benedetto XII il primo beneficio ecclesiastico; in questo periodo entra anche nei favori di Azzo da Correggio. Sono questi anni di frequenti soggiorni a Roma, ospite della famiglia Colonna; tornato in Francia, nell’estate del 1337, gli nasce un figlio naturale, di nome Giovanni, da una donna di cui è ignota l’identità, e, nell’autunno, si ritira nella pace solitaria di Valchiusa. Qui il poeta comincia a comporre il poema epico Africa, in esametri latini sul modello di Virgilio, incentrato sulla figura di Scipione Africano, e il De viris illustribus. Entrambe le opere sono destinate a rimanere incompiute, sebbene siano i progetti più ambiziosi di Petrarca, quelli in cui il poeta ripone tutte le sue speranze di gloria. È proprio l’Africa l’opera che gli procura l’onore dell’alloro poetico: nel 1340 l’Università di Parigi e Roma gli offrono contemporaneamente l’incoronazione poetica, ma il Petrarca opta per la seconda sede. L’anno successivo Petrarca si reca a Napoli, dove si sottopone al giudizio di re Roberto d’Angiò, che gli conferisce la laurea sul colle del Campidoglio. A questi anni risale anche il primo progetto documentato di ordinamento delle poesie volgari. Nel 1343 si rifugia nuovamente tra i silenzi di Valchiusa, dove gli nasce la figlia Francesca, la cui madre, anche in questo caso, è sconosciuta. Nello stesso anno viene inviato dal cardinale Giovanni Colonna a Napoli per una delicata missione diplomatica. Dopo essere stato a Parma, presso la corte dei Correggio, dove attende alla scrittura dei Rerum memorandarum libri (Libri di gesta memorabili), nel 1345 è a Verona, dove scopre nella Biblioteca Capitolare di Verona le Lettere ad Attico, le Lettere a Bruto e le Lettere al fratello Quinto di Cicerone, da cui prende avvio l’idea della raccolta delle lettere Familiari. L’anno dopo fa ritorno in Provenza, dedicandosi alla stesura del De Vita solitaria, in cui elogia la tranquillità e la pace spirituale, e avvia la composizione delle dodici ecloghe del Bucolicum Carmen. Nel novembre 1347 si reca in Italia, diretto forse a Roma dove fervevano i tumulti seguiti al fallimento della rivolta di Cola di Rienzo, che Petrarca aveva conosciuto e in un primo tempo sostenuto; in questi anni si dedica anche alla composizione del Secretum.
L’infuriare della peste in Europa (1348-1349) segna profondamente Petrarca con gravissimi lutti: la morte di Laura (6 aprile1348) e di molti amici, è mestamente annotata nelle carte del codice di Virgilio. Nel 1350, mentre si reca a Roma per il giubileo, passa per Firenze dove conosce Boccaccio, a cui lo legherà una profonda amicizia intellettuale. L’anno dopo è a Parma e poi a Padova, dove è ospite di Francesco da Carrara e riceve una visita di Boccaccio, che gli offre, a nome del Comune, una cattedra nello Studio fiorentino, ma senza successo. Ritorna per l’ultima volta in Provenza, dove l’elezione del nuovo pontefice Innocenzo VI fa peggiorare i rapporti del poeta con la curia, contro i cui esponenti vengono lanciate le frecce polemiche delle lettere Sine nomine. Nel maggio 1353 lascia definitivamente la Provenza per l’Italia e si stabilisce a Milano, su invito dell’arcivescovo Giovanni Visconti, per conto del quale, nel 1356, si reca a Praga presso l’imperatore Carlo IV e nel 1361 a Parigi.
Nello stesso anno, dopo la morte del figlio Giovanni, abbandona Milano e si stabilisce a Venezia e poi a Padova, dove lo raggiungono la figlia Francesca con il marito e i figli. Nel 1370 durante un viaggio verso Roma, è colto da una sincope che ne mette a repentaglio la vita. Si ritira allora ad Arquà, sui Colli Euganei, dove continua ad attendere fino all’ultimo alle proprie opere. Muore nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374, alla vigilia dei settant’anni, dopo aver composto il Trionfo dell’Eternità e aver rivisto accuratamente la redazione definitiva del Canzoniere.
La consacrazione di Petrarca come il primo grande autore della lirica volgare italiana si deve soprattutto a Pietro Bembo nei primi decenni del Cinquecento. Ma la notorietà europea del Petrarca, prima di Bembo, si lega soprattutto alla produzione latina, del resto preponderante su quella volgare.
Non vi è dubbio infatti che per il Petrarca la lingua dell’anima, della confessione intima, rimane il latino: in latino sono le postille di carattere filologico, ma anche intimo e autobiografico, redatte ai margini dei suoi manoscritti, anche su quello della sua opera in volgare. Nelle sicure e consolidate forme del latino, tutelate dall’“autorità” degli antichi, egli si muove con più spontaneità, vi si affida per la composizione di opere di argomento filosofico ed erudito e, soprattutto, vi si abbandona senza esitazioni per esprimere le sue più segrete riflessioni, le sue più laceranti contraddizioni; il “giovane” volgare è un codice linguistico che non gode della tutela di “padri” autorevoli. Così nel ricorrervi il poeta è più cauto, lo sottopone costantemente al vaglio del suo rigore, preoccupato di porsi a sua volta come modello per i posteri.
Il Canzoniere di Petrarca si distingue da tutte le espressioni poetiche precedenti per la volontà di proporsi come “opera unitaria”, consapevolmente costruita per raccontare un’esperienza biografica e poetica esemplare e irripetibile. È difficile infatti trovare precedenti per la forma del “libro di poesia” con un’architettura così accorta e studiata, in cui la struttura è di per sé significato, è narrazione dell’io.
I Rerum vulgarium fragmenta (Frammenti di cose in volgare), più comunemente noti come Canzoniere, comprendono 366 componimenti, numero che contiene per due volte il 6 e per una volta il 3, il numero perfetto. La somma dei singoli numeri ha come risultato 15, in cui la somma (1+5) è nuovamente 6. Nel numero 366 i critici hanno visto anche un preciso richiamo al calendario: se si esclude, infatti, il primo sonetto che funge da proemio, rimangono 365 liriche, una per ogni giorno dell’anno, a narrare la parabola di una liturgia esistenziale tutta terrena. È lo stesso Petrarca del resto a rivelare l’importanza che ha per lui il numero 6, collocando rispettivamente al 6 aprile 1327 e al 6 aprile 1348 le date fatidiche dell’innamoramento e della morte di Laura. Un elemento di grande innovazione è costituito dal principio della “varietà”, che regola la struttura compositiva del libro e che riguarda sia l’aspetto tematico (ferma restando la centralità del motivo amoroso) sia quello metrico. Accanto ai 317 sonetti troviamo 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali, la cui distribuzione nell’arco del libro non è casuale, ma mostra una volontà di conferire un preciso significato alla scelta di questa o quella forma metrica in un determinato punto del libro. L’opera è suddivisa in due sezioni: quella delle liriche “in vita” e quella delle liriche “in morte” di Laura.
I testi del Canzoniere sono quelli fissati da Gianfranco Contini nel 1964 nella sua edizione critica. Il filologo tenne conto dell’ultima forma del testo consegnata, per volontà dell’autore, alle carte del manoscritto Vaticano Latino 3195, scritto in parte dallo stesso poeta (autografo), in parte dal copista Giovanni Malpaghini sotto la stretta sorveglianza dell’autore (idiografo). Tuttavia il Canzoniere, prima di approdare alla stesura finale ebbe una lunghissima elaborazione e fu oggetto di continue revisioni da parte del poeta. Un testimone di straordinaria importanza di questo percorso creativo è costituito da un altro importante manoscritto interamente autografo, il cosiddetto “Codice degli abbozzi” (il manoscritto Vaticano Latino 3196), che contiene testi del Canzoniere in una redazione precedente alla stesura finale. Tale manoscritto ci consente di entrare nell’officina poetica del Petrarca, confrontare le diverse redazioni del testo e verificarne le differenti “lezioni”. Esso presenta inoltre un ricchissimo corredo di postille, annotazioni e interventi grafici di mano del Petrarca che ci illuminano sul suo modo di lavorare, facendo trapelare una fortissima tensione “diaristica” della propria attività intellettuale.
Il Canzoniere è prima di tutto il diario dell’amore per Laura, che è donna dai vari volti, ha ora potere salvifico, ora la durezza “petrosa” di una bellezza crudele e indifferente, immagine seducente che il poeta colloca nello scenario ameno di Valchiusa, in una continua altalena di speranze e disillusioni, voli del desiderio e dure cadute nella realtà, aspirazione a liberarsi dalle catene della passione e difficile approdo alla pura spiritualità. La morte di Laura, durante la peste del 1348, costituisce dunque un evento emblematico per rileggere a ritroso la propria esperienza di uomo e di poeta. Il tempo della peste infatti è il tempo della morte che sottrae gli affetti e che esorta a riflettere sul passato e sugli errori che si sono commessi (l’amore sensuale per Laura è stato un “giovenile errore” che lo ha allontanato dalla dedizione a Dio e che gli ha procurato solo vergogna e pentimento), ma anche a raccogliere i frammenti della propria anima lacerata come quelli sparsi della propria poesia. Da questa volontà di dare un senso alla propria parabola terrena e lasciare un segno significativo della propria attività intellettuale nasce la revisione non solo del Canzoniere, ma anche di importanti opere latine, come le raccolte epistolari. D’altra parte il “sentimento del tempo” e della fragilità esistenziale è il nucleo da cui prende avvio la poesia petrarchesca. E proprio perché appartiene al frammento temporale finito e irripetibile dell’esperienza terrena, ’’“errore” amoroso del poeta si configura come esemplare e si confronta di continuo con l’eterno a cui Petrarca non dimentica mai di dover tendere.
L’ansia compositiva ed emendatoria sottesa alla stesura del Canzoniere non risparmia l’altra opera in volgare di Petrarca, i Triumphi (Trionfi), in terzine dantesche.
Il titolo allude ai trionfi che si celebravano nell’antica Roma in onore dei condottieri vittoriosi, che sfilavano per le vie della città seguiti dal bottino e dai prigionieri. Il primo trionfo nell’assetto finale, ma non il più antico, è il Triumphus Cupidinis (Trionfo della Passione, composto a partire dal 1352); l’autore dice di narrare ciò che ha visto in sogno, collocandosi in tal modo nel genere letterario della visione. Nel Trionfo della Passione, diviso in quattro capitoli, il condottiero vittorioso è Cupido, che reca dietro di sé l’interminabile fila dei “vinti da amore”, alla quale si unisce il poeta stesso. A questo segue il Triumphus Pudicitie (Trionfo della Pudicizia, composto fra il 1343 e il 1347): Laura, aiutata dalle sue Virtù, sconfigge Cupido, lo incatena e lo rinchiude nel tempio della Pudicizia a Roma. Il terzo trionfo, il Triumphus Mortis (Trionfo della Morte), di cui restano due capitoli, è ispirato alla morte di Laura. Se la morte trionfa sulla vita, sulla morte può riportare vittoria la Fama, protagonista del quarto trionfo (Triumphus Fame, composto dopo il 1351), a cui Petrarca lavora con intensità, ma senza portarlo a termine. Agli anni della vecchiaia è legata l’idea degli ultimi due trionfi, il Triumphus Temporis (Trionfo del Tempo) e il Triumphus Eternitatis (Trionfo dell’Eternità, 1374). Come la Fama poetica, a cui Petrarca affida l’eterna memoria di sé, trionfa sulla morte, così il Tempo e la sua fuga distruttrice cancella anche la Fama, bene terreno e fragile; ma a sua volta il Tempo fisico e terreno dell’uomo soccombe alla dimensione dell’Eternità, in cui il poeta spera di poter rivedere Laura.
Il Secretum è un’opera “segreta”: il testo rimane infatti realmente segreto; qualche notizia ne hanno forse gli amici più stretti, ma è conosciuto e divulgato solo dopo la morte di Petrarca. Si tratta di una sorta di “diario intimo” in cui il poeta, che in altre opere traccia un proprio autoritratto idealizzato, mette invece a nudo le proprie lacerazioni interiori, i propri conflitti mai sopiti, le inquietudini di un animo tormentato dalle contraddizioni. Petrarca ha voluto collocare nel 1342-1243 l’azione di questo dialogo, in realtà composto, come ha dimostrato il filosofo spagnolo Francisco Rico, nel 1347, rivisto nel 1349 e profondamente rielaborato nel 1353.
Ne sono protagonisti Petrarca e quel sant’Agostino dalla cui lettura mai il poeta si separa, trovando nelle Confessioni la stessa conflittualità interiore dell’uomo diviso tra la passione e la verità della fede. Agostino (alter ego del poeta) è pronto a smascherare Francesco, al cospetto di una figura femminile silente e misteriosa, la Verità, di fronte ai mille alibi che l’uomo sa crearsi pur di seguire i beni terreni e di arrendersi di fronte alla via più difficile e impervia della rinuncia al mondo e della fede; il santo coglie in fallo il poeta e ne mette a nudo le debolezze terrene (l’amore per Laura, la passione per la gloria terrena, l’accidia). La struttura organica e non frammentaria dell’opera, suddivisa in tre libri, insieme a un latino stilisticamente accurato rivelano un atteggiamento ambiguo del poeta verso questo intimo libello: da un lato egli lo vuole personale e segreto; dall’altro appare chiara la sua intenzione di affidare a quest’opera il compito di una rivelazione unica e straordinaria allvindomani della sua morte.
Petrarca ha appena passato i quarant’anni, quando, nel 1345, scopre nella biblioteca della cattedrale di Verona le Lettere ad Attico di Cicerone. Nel poeta, già predisposto a lasciare memoria della propria autobiografia umana e intellettuale attraverso opere organicamente raccolte, prende forma allora l’idea di radunare e ordinare le proprie lettere scritte in latino: ne nasce il corpus monumentale delle 350 epistole divise nei 24 libri delle Familiares. Accanto a Cicerone, altri modelli sottesi all’opera petrarchesca sono Seneca e Plinio il Giovane.
Tutti i corpora delle epistole petrarchesche tanto in prosa (Familiares, Seniles, Sine nomine) quanto in versi (Epystole) sono contraddistinti da un lungo lavoro di elaborazione micro o macrostrutturale, di riscrittura, di fusione, di revisione linguistica e stilistica, talvolta di “spostamento” di un’epistola da un punto all’altro della stessa raccolta (o anche da una raccolta all’altra). Coloro che, come Vittorio Rossi, Giuseppe Billanovich, Ernest Hatch Wilkins ed altri, hanno atteso alla ricostruzione della stratigrafia compositiva delle lettere in prosa hanno rivelato il carattere di artificio letterario, la verità talvolta fittizia costruita nell’elaborata tramatura delle epistole, riscontrabile anche nelle datazioni spesso false attribuite alle lettere “a posteriori”, perché trovassero adeguatata collocazione nell’architettura esemplare dell’opera. In tal modo si mescolano verità e finzione, ideale e reale, eventi storicamente accaduti e altri solo immaginati, destinatari veri e grandi personaggi del passato.
Gli anni Sessanta del Trecento coincidono per Petrarca con una fase di grande sofferenza esistenziale. In questo stato d’animo egli si accinge alla stesura delle Seniles (Senili), destinate a parlare della vecchiaia, della sofferenza per la scomparsa dei cari, del bisogno di pace e della riflessione sulla morte. Nelle Senili (128 lettere divise in 18 libri) spicca come interlocutore privilegiato il Boccaccio, particolarmente presente nell’ultimo libro della raccolta, che contiene, tra le altre cose, la riscrittura petrarchesca in latino della Griselda decameroniana.
Altre lettere in prosa non incluse nelle suddette raccolte vanno sotto il nome di Varie. Le Epystole, in esametri latini composte sul modello oraziano e dedicate all’amico Marco Barbato da Sulmona (66 lettere suddivise in tre libri), presentano una grande varietà tematica. Nelle diciannove epistole Sine nomine (Senza nome, perché manca l’indicazione dei destinatari, per motivi di censura e di cautela), scritte per la maggior parte nel 1351, Petrarca si scaglia contro la corruzione della corte avignonese con impeto polemico.
Agli occhi dei moderni l’Africa è semplicemente l’opera erudita a cui il Petrarca deve la sua incoronazione poetica (6729 esametri, divisi in nove libri, che hanno per argomento gli eventi e i personaggi della seconda guerra punica e risentono di molteplici spunti e suggestioni letterarie, soprattutto Virgilio, Livio, Cicerone, Macrobio, Silio Italico). Ma per il poeta in realtà racchiude le inquietudini di un lavoro senza fine. Petrarca affida infatti a quest’opera – destinata a essere il “ritratto del suo animo”, come dice nella Familiare I, 1 – non solo il monumentale compito di restaurare la lingua e la civiltà latine, indicando in esse la tradizione e l’identità culturale dell’Europa intera, ma i contorni della sua interiorità, i tratti del suo animo, che per l’uomo medievale si identifica con la sua sapienza. Da qui l’ansia della composizione e la difficile elaborazione che accompagna la stesura del testo a partire dal 1338, continuamente segnata da successivi interventi e limature, che non riescono però a eliminare la frammentarietà e le asimmetrie del testo.
Il genere bucolico era rinato grazie a Dante, che aveva dato vita a uno scambio di ecloghe latine con Giovanni del Virgilio. Ma mentre Dante si cimenta in questo genere per difendere la scelta del volgare nella Commedia, con il Bucolicum carmen (Carme bucolico, 1346-1357) Petrarca al contrario recupera il genere bucolico perché ritenuto di difficile accessibilità e compreso dai pochi in grado di decodificare il messaggio poetico nascosto sotto i veli della favola bucolica. In queste dodici ecloghe latine compaiono nomi e situazioni sullo sfondo della scena pastorale, dietro cui si celano i contorni di persone e fatti reali.
Con Petrarca la letteratura e la poesia si affermano come discipline di grande dignità, in nulla inferiori a scienze come la giurisprudenza o la medicina.
In questa ottica sono da leggersi le posizioni polemiche nei confronti della filosofia aristotelica e dei rappresentanti della scienza medica, attraverso le quali Petrarca difende non solo il proprio ruolo di letterato, ma la sapienza stessa della letteratura, ribadendo con forza la centralità e la funzione dell’attività intellettuale, mettendo in discussione le tradizionali gerarchie del sapere e affidando tale conquista alle generazioni del nascente umanesimo. Nel 1351 Petrarca compone un’opera acutamente polemica nei confronti dei medici, le Invective contra medicum quendam a cui fanno eco altre attestazioni analoghe. Toni non meno polemici si leggono nei confronti dei giuristi, né più tenero è l’attacco sferrato nel 1367 contro gli avverroisti, sostenitori accaniti dell’aristotelismo scolastico, bersaglio polemico del De sui ipsius et multorum ignorantia (L’ignoranza propria e di tanti altri), in cui il poeta ribadisce la superiorità della filosofia morale (che mira al raggiungimento delle virtù attraverso l’esercizio delle discipline letterarie) sulla filosofia naturale. Altre opere minori di carattere polemico rivelano la capacità del poeta di elevarsi dagli spunti occasionali e contingenti delle dispute, per condurre riflessioni più profonde e universali sulla cultura e la civiltà dell’uomo.
In seguito all’incoronazione poetica del 1341, Petrarca si dedica alla stesura di una raccolta di exempla, ovvero di grandi esempi morali, forniti dalla storia e dalla letteratura latina. Nascono così, nel 1343, sul modello dell’opera dello storico latino Valerio Massimo, i quattro libri (più un frammento del quinto) dei Rerum memorandarum libri (Libri di gesta memorabili), che il poeta lasciò incompiuti nel 1345. L’attenzione dedicata alle grandi imprese della classicità nasce dalla consapevolezza che alla straordinaria statura degli antichi corrisponde la sconfortante mediocrità dei contemporanei; egli si augura, con questi esempi, che la sua epoca “curiosissima” dell’effimero, e “incuriosa” invece delle oneste discipline, possa destarsi dal torpore in cui sonnecchia. Lo stesso spirito è sotteso a un altro monumento dell’erudizione petrarchesca, il De viris illustribus (Gli uomini famosi). L’opera, intrapresa dal 1338, comprendeva in un primo tempo 23 biografie di personaggi della romanità, a cui in seguito sono aggiunte 12 vite di figure bibliche e mitologiche.
Sebbene sia costretto dal susseguirsi di incarichi diplomatici a continui spostamenti e ad assidue relazioni con le corti dei potenti, l’ideale di vita di Petrarca – più volte ribadito nelle sue opere – è quello di una raccolta solitudine nella pace agreste, dedicata agli studi letterari e alla riflessione religiosa.
Nel 1346, all’ombra dei boschi di Valchiusa, il poeta comincia la stesura dei due libri del De vita solitaria (La vita solitaria) – destinati a essere rivisti ed emendati fino al 1371 –, in cui si elogia il raccoglimento negli studi e nella preghiera, nel contatto libero e vivificante con la natura, al fine del perseguimento della pace interiore e del superamento delle passioni mondane. Nel 1347, di ritorno dalla prima visita al fratello Gherardo presso il monastero di Montrieux, Petrarca inizia la composizione del De otio religioso (La vita serena dei religiosi), che rielaborerà fino al 1356: un colloquio epistolare in cui si dibatte il tema agostiniano della vita monastica e contemplativa, con il supporto di exempla di uomini illustri tratti da fonti classiche e scritturali.
L’opera a sfondo filosofico-morale destinata ad avere più largo consenso europeo nei secoli successivi è tuttavia il De remediis utriusque fortune (I rimedi della buona e della cattiva sorte), un trattato in due libri, composti in forma dialogica tra il 1354 e il 1366, in cui riecheggiano gli insegnamenti morali di molte voci della classicità, che esortano alla forza propria del sapiente di fronte alla buona e alla cattiva sorte.
La tensione religiosa che anima la preghiera alla Vergine in chiusura del Canzoniere come anche il De vita solitaria o il De otio religioso trova un riscontro nei sette Psalmi penitentiales (Salmi penitenziali), composti tra il 1342 e 1343, sul modello dei Salmi davidici, ma percorsi da inquietudini profonde, di tipo agostiniano.
Di natura geografico-religiosa è invece l’Itinerarium ad sepulcrum Domini nostri Ihesu Christi (Itinerario al sepolcro di nostro Signore Gesù Cristo), in cui con l’ausilio delle fonti classiche si illustra l’importanza culturale dei luoghi del pellegrinaggio; Petrarca compose quest’opera nel 1358 perché accompagnasse nel viaggio in Terra Santa l’amico Giovanni Mandelli, che il poeta non aveva voluto seguire per la propria consueta cautela nei confronti degli spostamenti.
Abbiamo la fortuna di possedere una buona parte dei codici appartenuti al poeta e da lui annotati, che rivelano quella straordinaria “fame” di libri. Nei suoi epistolari vi sono continui e appassionati riferimenti a queste scoperte, alle letture, all’instancabile lavoro filologico, agli autori noti, moltissimi, e a quelli particolarmente amati, come Livio, Virgilio, Plinio il Vecchio, Cicerone, Quintiliano, Seneca, Agostino.