PIANTA, Francesco
PIANTA, Francesco. – Figlio di Alvise e di Iseppa Cassani, nacque a Venezia, in contrada San Samuele, nel 1634 (Lacchin, 1930).
Il padre apparteneva a una famiglia di intagliatori; lo era stato infatti suo padre Francesco e lo erano i suoi fratelli, Antonio e Alessandro, i cui figli si dedicarono a loro volta all’intaglio ed ebbero un ruolo importante nella vita di Pianta: in particolare un altro Francesco, figlio di Alessandro, al momento della morte, nel 1650, lasciò suoi averi e i materiali della bottega all’omonimo parente.
I termini dell’apprendistato di Pianta non sono noti, anche se è lecito aspettarsi che possa essersi formato nell’ambito familiare presso i due zii, visto che il padre era morto prematuramente nel 1641; di certo dovette ben presto manifestare una grande capacità operativa, se già nel 1655, poco più che ventenne, risulta iscritto autonomamente alla fraglia degli Intagliatori (Rossi, 1999, cui si fa riferimento per le notizie documentarie citate, se non diversamente indicato), e di lì a due anni gli venne affidata la sua opera più importante: la decorazione a rilievo dei dossali lignei della sala superiore della Scuola di S. Rocco, impresa che fu accolta entusiasticamente dai suoi contemporanei. Una testimonianza eloquente del grado di notorietà e della stima che i colleghi nutrirono per lui è data dal fatto che Pianta divenne a più riprese gastaldo dell’Arte degli intagliatori; i documenti, la cui sequenza è peraltro incompleta, lo attestano infatti investito di questo ruolo nel 1660, nel 1681, nel 1683 e ancora nel 1690.
La pubblicazione del testamento di Pianta da parte di Paola Rossi (1999), oltre che certificare il suo significativo patrimonio, in gran parte lasciato in beneficenza visto che non aveva avuto figli dalla moglie, Zanetta Gastaldi, ha consentito di valutarne il profilo intellettuale. Il fatto che fosse stato in possesso di oltre una cinquantina di volumi di varia natura, circostanza senza uguali nella Venezia di quegli anni tra gli appartenenti ad arti ancora ritenute ‘mechaniche’, lo pone tra le personalità di spicco di quel momento, al pari di pittori come Pietro Liberi e Carlo Loth, celebri per la loro erudizione.
La sua opera principale, i citati lavori per la Scuola Grande di S. Rocco, iniziati nel 1657, dopo una prima intensissima fase chiusasi alla fine dell’anno successivo, lo impegnarono per oltre un decennio: gli ultimi pagamenti risalgono al 1674-75 e videro coinvolti gli zii Antonio e Alessandro.
Il complesso segnò una svolta importante nel panorama della scultura lignea veneziana nella seconda metà del Seicento per la sua libertà di invenzione e per la novità delle soluzioni compositive; consta di una serie di dossali decorati e di una finta libreria intervallati da figure allegoriche a tutto tondo ispirate all’Iconologia (1593) di Cesare Ripa (Pianta ne possedeva una copia insieme ad altri volumi di storia e letteratura; cfr. Praz, 1959). Non si tratta però di semplici desunzioni come accade più volte in pittura come in scultura, ma di autentiche reinterpretazioni, piegate con grande libertà alle necessità narrative dell’autore. Proprio tali allegorie riscossero l’ammirazione dei contemporanei per la ‘singolarità’ della loro iconografia, presentata dallo stesso autore in una lunga iscrizione incisa su di un rotolo di finta pergamena retto dalla figura di Mercurio collocata all’entrata della sala. In un’altra iscrizione posta sulla base dell’originalissimo ritratto di Jacopo Tintoretto, raffigurato al suo tavolo di lavoro, al cui ciclo pittorico i dossali fanno da ideale cornice, Pianta dichiarò anche, con pratica del tutto inusuale, l’autografia di tutte le sculture della sala, ricordando anche di aver tenuto per sé una delle opere realizzate.
Pianta allineò nell’ordine le immagini di Malinconia, Onore, Avarizia, Ignoranza, Scienza, Distinzione del bene dal male, Furore, Spia, Scandalo, Scrupolo, Piacere onesto, Abbondanza, Stratagemma, Biasimo vizioso; tutto l’insieme delle figure allegoriche è giocato su un rapporto dialettico strutturato su coppie oppositive di vizi e virtù con un chiaro intento moraleggiante che ben si adattava al contesto del luogo, dominato nel soffitto dall’imponente ciclo pittorico del Tintoretto: il tutto vegliato da Mercurio, che introduceva il visitatore alla lettura del ciclo, e accompagnato dalle figure cardine di Cicerone oratore in difesa della Scultura e dall’allegoria del Tintoretto, visto come massimo rappresentante della Pittura oltre che genius loci, stringendo così arte e morale in un intreccio indissolubile. Colpisce, oltre alla complessità tutta barocca della narrazione, anche la minuzia naturalistica con cui Pianta affrontò le caratterizzazioni fisionomiche e la resa degli oggetti quotidiani inseriti nelle allegorie, mescolando continuamente il piano ‘alto’ dell’erudizione con quello ‘basso’ del realismo virtuosistico della sua pratica artigiana, quale si può cogliere anche nei dettagli delle parti più propriamente decorative.
La realizzazione di Pianta fu ben presto oggetto di commenti da parte di scrittori contemporanei, primi tra tutti quelli di Cristoforo Ivanovich (1681) e Domenico Martinelli (1684), che puntò l’indice sullo straordinario virtuosismo tecnico della finta libreria, definita «di così bell’intaglio, che molti vogliono assicurarsi col tatto che siano Libri veri, ò finti» (p. 359). I due interventi sarebbero stati seguiti pochi anni dopo da uno dei rarissimi componimenti poetici, se non l’unico, dedicati nel secondo Seicento a un’opera di scultura lignea, il sonetto di Michele Lubrano, comparso nel 1690 all’interno della raccolta Scintille poetiche o’ Poesie sacre e morali (Napoli 1690, p. 101).
Altra fondamentale opera di Pianta, ispirata agli stessi principi anche se di dimensioni decisamente inferiori, fu la decorazione della cassa del prezioso orologio da parete (con meccanismo di Stefano Panata) conservata nella sacrestia della basilica veneziana dei Frari e recante la firma dell’artista sul cartiglio retto in basso da due angioletti: «junioris veneti opus planta francisci».
Anche in questo caso si tratta di un lavoro di grande raffinatezza tecnica e di complessa decifrazione dal punto di vista della lettura iconografica; consapevole di ciò, l’autore, con artificio tutto barocco, incollò, all’interno delle portelle che chiudono la cassa, delle pergamene che spiegavano il significato della sua creazione: una sorta di ampolloso memento mori.
È documentata soltanto da un’immagine fotografica (Lacchin, 1930) la più convenzionale statua in legno policromo di S. Giovanni da Capestrano, già nella chiesa di S. Francesco della Vigna a Venezia e da tempo irreperibile, firmata sulla base, che completa il ristrettissimo nucleo di lavori da assegnare con certezza allo scultore. A questi si può aggiungere la citazione da parte di Giannantonio Moschini (1815) della presenza di una statua di S. Chiara in S. Francesco della Vigna e altre più recenti attribuzioni che attendono ancora un compiuto vaglio da parte della critica. Una carenza di opere che può in parte essere spiegata con la facile deperibilità del legno in un contesto ambientale come quello lagunare, o ancora con la tradizione veneziana dell’intaglio, che vedeva le botteghe impegnate indifferentemente in imprese importanti come quelle citate, ma anche in più convenzionali realizzazioni di mobilio, se non di restauro, come parrebbe dimostrare la presenza nella bottega di Pianta, al momento della morte, di «otto pezzi incominciate per far conffessionarij» e di «sei figure in legno carolatte, et antiche» (Rossi, 1999, p. 131).
Di certo i numeri veramente esigui del catalogo di Pianta hanno fatto nascere una serie di congetture sui possibili allargamenti del suo ristrettissimo catalogo: tra le molte proposte, che non trovano concordi gli studiosi, merita un’attenzione maggiore l’ipotesi di Fabio Benzi (2012), che gli ha assegnato il lussureggiante decoro ligneo del lunettone sovrastante il Monumento al doge Giovanni Pesaro ai Frari, una delle opere centrali del barocco veneziano. A un contatto con la famiglia Pesaro si legherebbe secondo Benzi anche la realizzazione del soffitto della sala posta all’angolo sudorientale del piano nobile di Ca’ Pesaro, realizzata all’inizio degli anni Ottanta e lasciata incompiuta, un’ipotesi che deve essere approfondita, mentre rientrano senz’altro nella sfera dell’influenza dell’artista i dossali lignei della cappella Clary in S. Trovaso e quelli del coro della chiesa di S. Alvise, entrambe a Venezia.
Morì a Venezia, dopo una lunga malattia, il 27 novembre 1692, lasciando agli eredi la ricca biblioteca e l’attrezzatura da lavoro, compreso un discreto numero di modelli in legno e gesso e diversi libri di disegni e repertori decorativi probabilmente solo in parte di sua mano.
La potenza inventiva dell’arte di Pianta, ben nota ai contemporanei e la cui portata è ancora in gran parte da valutare, conobbe nei secoli successivi un lungo oblio; il pionieristico contributo di Enrico Lacchin (1930) ebbe il merito di riportare all’attenzione della storiografia le ‘bizzarrie’ della Scuola Grande di S. Rocco. Pochi anni dopo Giuseppe Marchiori (1937) definì addirittura «surrealista» l’opera dell’artista, tanta era la dirompente fantasia del linguaggio messo in opera. Fu invece Mario Praz (1959) a fornire la prima, puntuale e attentissima lettura iconologica della sua opera principale. Recentemente, dopo gli accurati interventi di Rossi (1999) e di Ettore Merkel (2000) che hanno rintracciato fonti documentarie di grande importanza, il dibattito si è concentrato su possibili ulteriori acquisizioni a un catalogo alquanto scarno, e sulla natura del ruolo svolto dall’artista nel processo di rinnovamento della scultura veneziana (Benzi, 2012). Pianta è stato così restituito alla dignità di artista di ‘svolta’ che sicuramente gli compete, testimone eloquente dell’originalità delle formulazioni del barocco veneziano.
Fonti e Bibl.: C. Ivanovich, Minerva al tavolino, I, Venezia 1681, pp. 286 s.; D. Martinelli, Il ritratto di Venezia, Venezia 1684, pp. 358 s.
G. Moschini, Guida per la città di Venezia all’amico delle belle arti, I, Venezia 1815, p. 46; B. Soravia, Le chiese di Venezia, II, Venezia 1823, pp. 57 s.; E. Lacchin, Di F. P. junior, bizzarro e capriccioso scultore in legno del barocco veneziano e dei suoi ‘geroglifici’ nella Scuola di S. Rocco, Venezia 1930; W. Arslan, Provincia di Padova: Comune di Padova, a cura di W. Arslan, in Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, VII, Roma 1936, p. 175; G. Marchiori, Un intagliatore surrealista del Seicento, F. P. junior, in Emporium, LXXXVI (1937), pp. 551-556; M. Praz, Le bizzarre sculture di F. P., Venezia (s.d. ma 1959); C. Semenzato, La scultura veneta del Seicento e del Settecento, Venezia 1966, pp. 45-47, 115; F. Magani, L’allestimento della Biblioteca del Seminario di Padova: le librerie lignee, in Bollettino del Museo civico di Padova, LXXVII (1988), pp. 135-147; F. Benzi, Allegorie sapienziali e rappresentazioni demoniache nella Biblioteca arcivescovile di Udine, in Arte Documento, 1989, n. 3, pp. 232 s.; A. Di Mauro, Gli armadi della Biblioteca e i mobili del Seminario, in Il Seminario di Gregorio Barbarigo. Trecento anni di arte, cultura e fede, a cura di P. Gios - A.M. Spiazzi, Padova 1997, pp. 103-116; E. Merkel, La scultura lignea barocca a Venezia, in Scultura lignea barocca nel Veneto, a cura di A.M. Spiazzi, Cinisello Balsamo 1997, pp. 144-159; P. Rossi, Geroglifici e figure ‘di pittoresco aspetto’: F. P. alla Scuola Grande di S. Rocco, Venezia 1999; E. Merkel, F. P. il Giovane, stravagante intagliatore veneziano, in Archivio veneto, CLIV-CLV (2000), 189, pp. 39-76; S. Zanuso, F. P., in La scultura a Venezia da Sansovino a Canova, a cura di A. Bacchi, Milano 2000, pp. 774 s.; P. Rossi, Intaglio e scultura lignea a Venezia nel Seicento, in Con il legno e con l’oro: la Venezia artigiana degli intagliatori, battiloro e doratori (catal., Venezia), a cura di G. Caniato, Sommacampagna 2009, pp. 79-83; Ead., La scultura a Venezia al tempo del Brustolon, in Andrea Brustolon 1662-1732 (catal., Belluno), a cura di A.M. Spiazzi - M. De Grassi - G. Galasso, Milano 2009, pp. 75 s.; F. Benzi, Alcuni inediti di F. P, e qualche considerazione sul mutamento di stile della scultura barocca a Venezia a metà Seicento, in Storia dell’arte, n.s., 2012, n. 132, pp. 125-138.