PONA, Francesco
PONA, Francesco. – Nacque a Verona l’11 Ottobre 1595, primogenito di Giovanni e Camilla di Nicola Gipsi.
Famiglia di origine trentina che aveva goduto nella prima metà del Cinquecento di privilegi imperiali, a Verona i Pona dovettero esercitare la professione ‘meccanica’ di semplicisti. Pur avendo acquisito un notevole prestigio (il padre era conosciuto a livello internazionale, e corrispondeva con Peiresc) ciò comportava non poter rientrare nei ranghi della nobiltà. L’esperienza esistenziale di Francesco sarà dunque segnata dalla tensione a riaccedere – anche con l’ausilio della gloria letteraria – allo status sociale originario. Il suo retaggio familiare consistette però anche in una spiccata attitudine all’osservazione naturalistica, di cui avrebbe fatto tesoro nella sua prassi di scrittore. Egli ebbe modo di sviluppare tale imprinting durante la formazione universitaria a Padova, uno dei centri di ricerca più fecondi del secolo, dove potè seguire le lezioni di Girolamo Fabrizi d’Aquapendente, sommo anatomista, e di Cesare Cremonini, esponente di un ‘aristotelismo inquieto’ in odore di miscredenza.
Dopo la laurea in medicina e filosofia nel 1615, Pona si trasferì a Bologna per specializzarsi in anatomia; l’esperienza del teatro anatomico fu in effetti una delle ‘emozioni culturali’ più rilevanti per il suo orizzonte mentale. A Bologna si affiliò all’Accademia dei Gelati, «fucina di ricerche poetiche avanzate» (Fulco, 1973, p. IX). Il ritorno a Verona nel 1617 fu segnato – oltre che dal primo matrimonio – dall’inizio della sua carriera professionale e dall’esordio poetico, entrambi non immediatamente trionfali. La sua istanza di ingresso nel primo ordine del Collegio dei Medici, quello dei «dottori», fu infatti respinta; gli venne concesso comunque lo «ius medendi in civitate», che Pona eserciterà poi sempre a un buon livello.
Nel 1617 uscì la prima edizione delle sue Rime, frutto dell’elaborazione delle esperienze padovane e bolognesi.
Non ancora del tutto maturo ma interessante appare l’esperimento della Trasformatione del Primo Libro delle Metamorfosi d’Ovidio, uscita l’anno successivo. Chiara l’affiliazione dell’opera alla prassi parafrastica di alcune versioni ovidiane del Cinquecento, soprattutto quella, amplificante e digressiva, dell’Anguillara. Originale, però, è la scelta (maturata forse anche da suggestioni speroniane, cfr. Fulco, 1973, p. XVII) della prosa quale medium letterario di pari dignità rispetto alla poesia, in termini di possibilità musicali e immaginifiche. Non è escluso che, nella sua opzione ovidiana, quindi mitologico-sensualistica, Pona tenesse d’occhio il già famoso Marino. La Trasformatione era dedicata a Ferdinando Gonzaga, duca di Mantova, nella cui orbita Pona (forse a causa dell’ambiente provinciale di Verona) tentò in questi anni senza successo di entrare.
Di ambientazione veronese era il dialogo Il Sileno (Verona 1620), in cui si illustrano le bellezze del giardino dei conti Giusti e della loro pinacoteca. L’opera, da leggere in dittico con Il Paradiso de’ Fiori, overo l’Archetipo de’ Giardini (1622) contiene importanti affermazioni circa la superiorità dei moderni in pittura (da Giotto ad Alessandro Turchi) e in musica (disciplina di cui si afferma, teste Monteverdi, l’inesauribile fertilità generativa). Comune a entrambe le opere è la riflessione sul rapporto tra Natura e Arte, e l’ambizione di epitomare il mondo in piccolo spazio.
Nei primi anni Venti Pona diede alle stampe Il Primo di Agosto, Celebrato da alcune Giovani ad una fonte, «opera giovanile di natura ibrida» (Buccini, 2013, p. 47), incerta tra idillismo ovidiano e ‘romanzesco barocco’; nel frontespizio vi usò per la prima volta lo pseudonimo grecizzante di Eureta Misoscolo (inventore che odia l’ozio). Nel frattempo egli ebbe modo di mettere a fuoco teoricamente le ragioni e i fini del suo scrivere nei Discorsi sopra la poetica d’Aristotele.
I Discorsi, pronunciati nel 1622 presso i Filarmonici di Verona, prospettano una consapevolezza teorica assai matura, orientata in senso modernista. Pona vi opera una sottile distorsione della categoria aristotelica di epopea, non più legata al verso. La promozione della prosa alla stessa dignità della poesia, già implicita nell’esperimento delle Metamorfosi, viene unita qui all’idea di un genere fondato su una varietà di toni, stili e livelli, il cui modello era la Secchia di Tassoni. Anche se i romanzi di cui parla Pona sono ancora i poemi epico-cavallereschi, proprio la citazione congiunta di Apuleio, Petronio e Luciano quali esempi antichi di epopea, fa sospettare che egli abbia in mente anche l’opera del contemporaneo John Barclay.
Nel 1624 Pona, in seguito alla morte della prima moglie, sposò in seconde nozze Elisabetta Mendadori (cfr. Rossi, 1897, p. 81) da cui ebbe molti figli (tra i quali Carlo, anch’egli medico e traduttore de L’anello fisico, manuale di medicina scritto in latino dal padre). Dopo un ritardo di qualche anno, dovuto forse alla ricerca di appoggi, nel 1625 pubblicò finalmente per l’editore veronese Tamo La Lucerna. L’anno dopo il libro era all’Indice: i censori gli contestavano l’impianto ideologico (basato sulla teoria pitagorica della metempsicosi), alcuni passaggi erotici, altri latamente eretici o pericolosi (per la ricostruzione dei rapporti tra Pona e la Congregazione dell’Indice cfr. Buccini 2013). L’autore era però ormai forte di protezioni anche veneziane: ad esempio quella del nobile Giovan Francesco Loredan, politico, letterato e animatore dell’Accademia degli Incogniti. Pona non tenne comunque molto in conto i suggerimenti espurgatori quando, nel 1627, ripubblicò il suo testo con alcune varianti.
L’argomento dell’opera, singolare combinazione di raccolta novellistica a cornice e romanzo picaresco «a schidionata» (Fulco, 1973, p. XXXV), ispirata a Luciano e Niccolò Franco, è il seguente. La veglia notturna di Eureta, studente a Padova, è interrotta da una voce inopinata: la sua lucerna ha preso a parlare, rivelandoglisi abitata da uno spirito dalle molte reincarnazioni. Ha inizio un susseguirsi incalzante di racconti (divisi in quattro «sere», corrispondenti ad altrettante partizioni del libro), in cui la voce narrante sembra avere attraversato tutti gli stati della materia e della vita: al momento è un oggetto, ma ha animato varie piante e animali, compresi alcuni insetti, molti uomini e soprattutto molte donne. È trasmigrato nel corpo di una pulce e in quello della grande regina Cleopatra; in una morta ammazzata a Brescia e nel monaco pazzo Ravaillac, assassino di Enrico IV. Nelle narrazioni della lucerna possiamo trovare tenere e sensuali descrizioni di amori e terribili resoconti di supplizi, svolti con quasi insopportabile, sadica precisione anatomica; lo squarcio di cronaca o la satira di costume (si ricordi il bellissimo ritratto di una cortigiana all’inizio della Sera seconda) vi si affiancano all’esotismo e al fantastico, o al gotico orroroso. Dal punto di vista del genere, vi sono presenti sia l’episodio breve, sia la novella nelle sue varie declinazioni, sia il romanzo epitomato (l’Argenis di Barclay, nella Sera prima), a comporre una sorta di «repertorio di soggetti narrabili» (Fulco, 1973, p. XXXVII). Il tutto arrangiato in una scrittura rapida, esatta e nervosa, in raro equilibrio tra amplificazione retorica e prosciugamento tacitista, al cui proposito Ragone parla delle «valenze nuove della scrittura meccanizzata ed esteriorizzata come apparato di spettacolo e di osservazione dei segni» (Ragone, 1996, p. 137). La cornice, vivacemente dialogante, cerca di ricondurre le storie sotto le insegne di un’etica ortodossa, o tutt’al più ai dettami di una prudenza squisitamente barocca, pur senza rinunciare, talvolta, a spremerne succhi satirici. Ma nei fatti il meccanismo della metempsicosi applicato alla vicenda delle vite prospetta un universo dominato sostanzialmente dal caso e dal caos, che lo scrittore osserva con la freddezza di un anatomista e l’ironia di un filosofo cinico (non del tutto assente, ma rara, la compassione).
Benché il 4 febbraio 1627 la Lucerna venisse proibita, l’anno fu per Pona editorialmente fruttuoso. Ad esempio Marco Ginammi (editore tra i più avanzati della scena lagunare) pubblicò proprio allora il suo «giuoco-serio» La Maschera Iatropolitica.
Una strana guerra è in corso nel Microcosmo tra il Serenissimo Cuore e il principe Don Cervello, «rivali [...] per competenza di monarchia», innescata da una doppia controversia teorica, per la risoluzione della quale vengono convocati tutti i maggiori saggi del mondo antico. Unanimi nel considerare la monarchia la miglior forma di governo, il Cuore e il Cervello si contendono poi il naturale diritto di accedere al trono. La diatriba cerebro-cardiocentrista assume qui risonanze politiche, concernenti il dibattito tra machiavellismo e antimachiavellismo. Le successive alleanze, azioni militari, strategie e scontri avvengono nel teatro anatomico del corpo, coinvolgendo le patologie e gli organi personificati in una sarabanda perturbante, a volte oscena. Non manca un Olimpo mondano e cialtrone, con gli dèi a sostenere l’una e l’altra parte, né le allusioni all’attualità politica o le tresche amorose. La Maschera viene così a configurarsi non solo come parodia dell’epica, ma anche come perfetto metaromanzo barocco. Il finale, che vede il «Baron Podice» mettere in scacco i due potentati, conclude però con un radicale abbassamento l’ambiguo gioco del testo.
La Maschera ha un fondo comico cui fanno eco i Sonetti berneschi (Verona 1627) ma anche una spregiudicatezza etica che si riflette in alcuni temi dei Discorsi sopra le Morali di Aristotele a Nicomaco (Venezia 1627), come mette in luce Marangon (1984, pp. 110-111 e Bondi 2004, p. XVII). Solo nell’ultimo scorcio degli anni Venti l’aggressiva verve letteraria di Pona si attenuò un poco, ma non la sua produttività.
L’allegorica «comedia morale» Il Parthenio (Venezia 1627) mette in scena ambiguamente il trionfo della verginità, mentre il discorso accademico Della contraria forza di due begli occhi sviluppa in modo fisiologicamente fondato una classica quaestio amorosa. Nel 1629 videro la luce due importanti traduzioni: l’Argenide, prima fortunata versione italiana (con la significativa eliminazione degli inserti poetici) del capolavoro latino di Barclay, che sotto il velame erotico-cavalleresco tratteggiava le vicende della guerra dei tre Enrichi, esaltando la figura di Enrico IV; le Nozze di Mercurio e Philologia, da Marziano Capella. Un interessante esperimento teatrale è poi Il Christo Passo, riscrittura della Passione a metà tra la sacra rappresentazione e la tragedia. Il ‘teatro della crudeltà’ che vi si vede all’opera è anche notevole per motivi formali e strutturali: ad esempio la scelta – rivendicata – della prosa, e la presenza dei cinque Inframmezzi apparenti, di argomenti vari e che moltiplicano le virtualità sceniche della composita macchina.
Nello stesso anno Pona entrò con un ruolo primario – il che testimonia il raggiungimento di un certo prestigio intellettuale – nella seconda fase del dibattito accesosi intorno alla vicenda degli «amici heroi» (come li definì Ludovico Zuccolo nel suo Il secolo dell'oro, Venezia 1629) Barbarigo e Trevisan, due nobili veneziani la cui reciproca incondizionata fedeltà sembrò ai contemporanei simbolo di una possibile rinascita del secolo aureo (cfr. Bondi, 2004, pp. XXXI-XXXVI).
Non certo eroica, invece, fu la condotta di Pona durante la pestilenza, giunta a Verona tra il 1630 e il 1631. Incluso nella seconda leva dei medici precettati per far fronte ai bisogni della città e del lazzaretto, egli riuscì a essere esentato dal Provveditore. Al servizio della patria mise però la sua penna, sia in veste nosografica che storiografica.
Dopo i due opuscoli di carattere tecnico intitolati Del Modo di preservarsi dalle malattie pestilenti e La Remora, overo dei Mezi Naturali per curare, e fermare la Pestilenza, entrambi del 1630, l’anno successivo Pona pubblicherà Il Gran Contagio di Verona, una delle sue opere più celebri. Oltre a un approccio razionalistico alle origini della pestilenza, di cui vengono ricostruite le cause storiche, geografiche e ambientali, il Contagio si segnala per l’icastico, spesso tragico resoconto degli orribili sconvolgimenti vitali portati dall’epidemia nella città. Lo scritto, che fonde suggestioni classiche e mimesi dei fatti, farà da modello a molti resoconti posteriori della peste nell’Italia settentrionale, ispirando forse anche Manzoni (Marchi, 1972, pp. XXXV-XXXVIII).
Anche grazie al successo di queste opere, nel 1632 egli venne finalmente ammesso alla prima fascia del Collegio dei Medici di Verona. In questi anni la sua scrittura ritrovò audacia, forse anche sull’onda della riapertura dell’Accademia degli Incogniti. In linea con gli interessi di questi era il genere prediletto da Pona all’epoca, cioè la biografia e il dramma storico di ambientazione antica, nonché l’attenzione quasi ossessiva per la psicologia e il comportamento femminili.
La Galeria delle Donne Celebri (Verona 1632) comprende dodici racconti incentrati sulle figure di altrettante donne del mito e della storia, divise in «lascive», «caste» e «sante». Ispirata in parte alla Galeria mariniana, l’opera dispiega, in tratti narrativi pieni di anacronismi e ironia, una fenomenologia muliebre tutta giocata sullo straordinario-mostruoso. Alla storia della «lasciva» Elena, una delle più marcatamente teatrali, si riallaccia Il giudizio di Paride, favola musicale, forse dello stesso anno, strettamente legata al contesto musicale e politico di Verona. Dedicata al Loredan è invece La Messalina (Venezia 1633), la cui seconda edizione accresciuta fu falsamente datata 1627, per motivi cautelari (cfr. Carminati, 2006). Lo scottante testo, quasi mostruosa appendice alle Donne celebri, non risparmia al lettore (con la solita compiacenza psico-fisiologico-patografica) nessuno degli eccessi sessuali tradizionalmente attribuiti al personaggio, segnalandosi inoltre per alcune virate stilistiche verso il laconismo. A un simile gusto storico romano appartengono Li dodeci Cesari (Verona 1633), la tragedia Cleopatra (Venezia 1635), soggetto peraltro già trattato nella Lucerna, e il «drama libero» Virgiliana. (Verona 1635).
Negli anni Trenta Pona si confrontò con quella che Giovanni Battista Manzini avrebbe definito la «più stupenda e gloriosa macchina» letteraria. Il risultato è l’Ormondo (Padova 1635), romanzo eroico-galante in sette libri, di ambientazione inglese, che godrà di un certo successo.
Incentrato sulle vicissitudini del condottiero Ormondo, impegnato in una guerra contro la Scozia, e dell’amata Rosidora, il romanzo mette in atto con particolare sovrabbondanza i meccanismi di proliferazione narrativa tipici del genere nel Seicento. Tornei, tempeste, agnizioni, duelli, fanciulli abbandonati nei boschi, e tutto il repertorio topico della narrazione romanzesca vi dilagano. Notevole, nel III e IV libro, la presenza di cinque inserti novellistici che riducono la diegesi principale al ruolo di cornice (seppure talvolta interagente con le sottonarrazioni), a ulteriore conferma della predilezione di Pona per le strutture ibride. Il romanzo termina sostanzialmente con un to be continued, non realizzato. La traduzione del VII libro in latino, uscita lo stesso anno, è forse un ultimo omaggio all’Argenis di Barclay. Ma nell’Ormondo «non si individua la tenace condanna delle istituzioni paludata nel contorto meccanismo del romanzo a chiave, ma la chiara persuasione che la letteratura gode di uno statuto autonomo» (Buccini, 2013, p. 157).
Dalla seconda metà degli Anni Trenta, Pona iniziò il processo di pieno riavvicinamento alla Chiesa che avrà il suo compimento alla fine del decennio successivo con la versione espurgata del suo capolavoro giovanile, L’Antilucerna (Verona 1648), vera e propria riscrittura palinodica in senso cristiano che andava a toccare tutti i punti sensibili del testo originale. Ma già dopo il 1636, anno della formula di abiura sottoposta alla Congregazione dell’Indice, la sua produzione letteraria si orientò decisamente su tematiche morali e sacre, che accompagnarono il lungo dialogo con i Riformatori, sicuramente già avviato dopo il 1641.
Singolarissima la raccolta emblematica Cardiomorphoseos, sive ex corde desumpta emblemata sacra, in cui la centralità attribuita al cuore nel repertorio simbolico-religioso fa pensare a una sorta di palinodia della Maschera Iatropolitica. Interessante anche il romanzo biblico L’Adamo (Verona 1650). Il tema, assai fortunato nel Seicento, è svolto da Pona con la consueta fantasia amplificatoria, pittoricismo e sensualità protetti dallo scudo dell’intento parenetico; la misoginia poniana si esprime in un’affermazione netta della colpevolezza di Eva, tesi poi rovesciata nel trattatello accademico (non a caso dedicato a Cristina di Svezia) Dell’eccellenza, et Perfettione ammirabile della Donna (Verona 1653).
All’inizio degli anni Cinquanta, il recupero del prestigio sociale da parte di Pona apparve ormai compiuto. A suggellarlo, tra il 1650-1651, arrivò la nomina dell’Imperatore a storiografo cesareo (non si sa esattamente con quali mansioni). Inoltre «è evidente che fra il 1653 e il 1655 Pona intensifica i rapporti con l’ambiente romano, come documentano, accanto all’elogio di Cristina di Svezia, l’ode dedicata all’elezione al soglio pontificio dell’erudito cardinale Fabio Chigi […] e le dodici lettere autografe a Cassiano del Pozzo» (Buccini, 2013, p. 194), dalle quali si evince peraltro un tentativo di accedere alla cattedra di medicina a Bologna. Da tempo gravemente malato, Pona morì il 2 Ottobre 1655.
Opere: Per un regesto completo delle opere di Pona si rimanda a Buccini 2013, pp. 204-215.
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