PORTO, Francesco
PORTO, Francesco. – Nacque a Rethymno, nell’isola di Creta, il 22 agosto 1511 da una famiglia di origini probabilmente vicentine.
Non si sa molto circa i suoi primi anni. Inizialmente condusse gli studi nel Peloponneso sotto la guida dell’ellenista Arsenio Apostoli, vescovo di Monembasia. Probabilmente al suo seguito, giunse nel 1527 a Venezia, per poi frequentare – non è chiaro a che titolo – l’Università di Padova. Tornato a Venezia, per tre anni insegnò presso la scuola dei greci, assumendone la direzione per qualche tempo. È altresì verosimile che si trovasse in Francia, alla ricerca di un impiego, poco prima che nel 1534 scoppiasse lo scandalo dei placards, i manifesti affissi in varie città per contestare la dottrina cattolica, in particolare in tema di eucarestia. Il suo coinvolgimento nelle aggrovigliate trame del movimento eterodosso europeo e, nello specifico, italiano, sarebbe comunque stato di lì in avanti sempre più deciso.
Fu soprattutto l’arrivo a Modena a mettere Porto in contatto con uno dei contesti tra i più vivaci sotto il profilo religioso. Il 19 gennaio 1536 era stato invitato nella città emiliana dove, con un salario di 10 lire al mese (poi portate fino a 300 lire annuali), ricoprì l’insegnamento di greco. La sua chiamata era stata sostenuta dal gruppo denominato Accademia, in cui alla discussione filologica si affiancava l’interesse per il dibattito religioso del tempo. Furono infatti i componenti del circolo, come Ludovico Castelvetro, Giovanni Bertari, Filippo Valentini, Giovanni Grillenzoni e molti altri, i primi divulgatori nella città estense di una sintesi eclettica e originale delle idee riformate: tra i principali canali di diffusione, l’Accademia si servì di pubbliche letture della Sacra Scrittura e favorì, come fu nel caso di Porto, l’insegnamento delle lingue che consentivano di accedere al dettato biblico nella sua forma originaria. Dal canto suo Porto non rimase certo estraneo alle dottrine di cui gli accademici furono propagatori e, anzi, condivise molti dei loro convincimenti prendendo parte alle riunioni che periodicamente si tenevano nella spezieria dei fratelli Grillenzoni.
Proprio per mettersi al riparo dalle accuse che gravavano sul suo capo, il 7 luglio 1542 scrisse al cardinale Iacopo Sadoleto per garantire che mai si era discostato «da quel che ha tenuto et tiene la chiesa catholica» (Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, I, 2011, p. 11). In quegli stessi giorni per l’Accademia modenese e i suoi seguaci le cose iniziarono a prendere una brutta piega e il vescovo di Modena Giovanni Morone, accusato di posizioni troppo blande nei confronti degli eretici, fu costretto a tamponare l’emergenza ‘luterana’ dilagante nella diocesi a lui affidata. Allo scopo, sottopose agli accademici una dichiarazione di fede elaborata da Gasparo Contarini (gli Articuli orthodoxae professionis), alla cui sottoscrizione Porto si sottrasse allontanandosi da Modena con il pretesto della presunta malattia del padre, allora in Grecia. Il 9 o il 10 settembre decise però di tornare sui propri passi e firmare la dichiarazione di ortodossia, riprendendo, il 2 ottobre seguente, gli insegnamenti di greco che registrarono uno straordinario afflusso di persone.
Nei suoi confronti Morone, mostratosi conciliante verso gli altri membri dell’Accademia, fu particolarmente duro e solo le proteste della comunità modenese evitarono che Porto finisse a Roma per essere giudicato dalla neoistituita Inquisizione. A ogni modo, egli non sarebbe rimasto molto a Modena. Tra la fine del 1545 e gli inizi del 1546 il duca Ercole II lo chiamò a Ferrara, con uno stipendio rilevante, per ricoprire presso lo Studium le cattedre di eloquenza e poesia greca. La duchessa Renata, di aperte simpatie eterodosse, lo designò inoltre come precettore delle figlie Eleonora e Lucrezia, e con Renata Porto si stabilì a Consandolo, piccola località del Ferrarese dove si riunì un circolo di ispirazione calvinista. Non potendosi permettere quell’ulteriore scandalo, nel 1554 il duca di Ferrara, che a causa di questioni religiose era già rimasto invischiato in più di uno scontro giurisdizionale con Roma, preferì disperdere la piccola ecclesia raccolta attorno alla moglie.
Il 9 marzo di quell’anno Porto, pur non abbandonando la speranza di poter tornare, dovette dunque lasciare l’insegnamento ferrarese e riparare a Venezia. Il 28 marzo si trovava in Laguna sotto il falso nome di Pellegrino da Bologna, dopo essersi lasciato alle spalle la moglie Giovanna, tre dei suoi cinque figli (Ermodoro, Senofonte, Emilio, Anna e Lucrezia) e una ricchissima biblioteca, della quale recupererà solo la metà. Recatosi in Friuli verso maggio, quando tornò a Venezia, nel 1555, vi coltivò frequentazioni pericolose (Pietro Carnesecchi, Lattanzio Ragnoni, Francesco Stella, Girolamo Donzellino, Galeazzo Caracciolo e Paolo Manuzio), inserendosi nella cerchia di Giovanni Bernardino Bonifacio, marchese d’Oria. Furono proprio queste compagnie a fargli cadere addosso, nel 1558, un processo inquisitoriale intentato dal S. Uffizio veneziano. Il 19 settembre il filologo «grando con barba grisa» comparve davanti ai giudici, ammettendo di avere letto Martin Butzer, il Pasquino in estasi di Celio Secondo Curione e la Tragedia del libero arbitrio di Francesco Negri, cui negli interrogatori successivi si aggiunsero Melantone, il Beneficio di Cristo, il Sommario della Sacra Scrittura, Antonio Brucioli, Sebastian Münster e altri testi e autori ‘scottanti’. Nonostante le reiterate professioni di ortodossia, solo l’abiura poté mettere fine al processo, conclusosi con le consuete penitenze salutari e l’obbligo di non allontanarsi da Venezia per due anni (13 ottobre 1558).
I tempi erano ormai cambiati e nemmeno la Serenissima poteva più considerarsi un luogo sicuro. Porto preparò così la propria fuga e nel 1559 partì per la Svizzera. Il 25 maggio il pastore Friedrich von Salis scrisse a Heinrich Bullinger per raccomandargli l’esule, che due anni dopo avrebbe aiutato l’amico di un tempo, Ludovico Castelvetro, a riparare a Chiavenna.
Nel settembre 1561, saputo che Renata di Francia si era ritirata a Montargis, Porto tentò di raggiungerla, ma venne prevenuto dalla nomina alla cattedra di greco presso l’Accademia di Ginevra propostagli da Calvino (25 settembre). Accettato l’incarico, che però non gli dette mai la tranquillità economica tanto agognata, proseguì il suo viaggio verso la Francia, probabilmente alla volta di Lione, dove sperò invano di poter recuperare le somme investite nel grand parti (titoli del tesoro francese che la Corona in massima parte non riuscì a restituire). Tornato a Ginevra con una lettera di raccomandazione della duchessa Renata, ricevette la cittadinanza ginevrina e diede avvio a un lungo soggiorno, particolarmente fecondo sotto il profilo della produzione culturale. Il suo lavoro – in molti casi pubblicato e talvolta integrato dal figlio Emilio, che ne aveva seguito le orme – si esplicitò in edizioni e commenti di vari autori classici, da Sofocle a Eschilo, Tucidide e Senofonte, sino ai grandi poemi omerici. Collaborò al Lexicon Graecolatinum di Robert Constantin, e dai suoi insegnamenti trassero vantaggio allievi del calibro di Giuseppe Scaligero, Giovan Battista Pigna (Nicolucci), Isaac Causabon. Pochi invece gli scritti in cui Porto non rivestisse il ruolo di curatore o commentatore.
In controtendenza con la sua indole fu infine la violenta polemica ingaggiata con Pierre Charpentier che, dopo la strage di San Bartolomeo (23-24 agosto), nel 1572 aveva indirizzato a Porto un suo scritto (Epistola ad Franciscum Portum Cretensem in qua docetur persecutiones ecclesiarum Galliae non culpa eorum qui religionem profitebantur […] accidisse, s.l. e t.) in cui attaccava Théodore de Bèze, additandolo come istigatore di comportamenti più politici che autenticamente religiosi, che mettevano in pericolo la causa protestante. Porto, chiamato a giudice da Charpentier, rispose con un testo (Ad Petri Carpentarii causidici virulentiam epistola responsio, s.l. e t., 1573) in cui, verosimilmente, lo stesso Bèze intervenne, lasciando tracce di una violenza retorica fatta di attacchi personali e accuse di scarsa moralità, contrarie alla moderazione e all’eleganza coltivate da Porto. Comunque sia, questi accettò che la replica circolasse sotto il suo nome, mostrando come le esigenze pratiche e l’inserimento nel contesto ginevrino avessero avuto la meglio sui principi propugnati nel corso di una vita.
Ginevra fu il suo ultimo rifugio e, gravato dai debiti e minato nella salute, lì Porto morì il 5 giugno 1581.
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