PROVENZALE, Francesco
Musicista, nato a Napoli, probabilmente nel 1627, morto ivi nel 1704. La biografia rimane assai lacunosa. Diresse il Conservatorio dì Loreto dal 1663, quello dei Turchini dal 1673 al 1701. Fu maestro alla Cappella del Tesoro di S. Gennaro e vicemaestro alla Cappella reale. È da considerare il fondatore della scuola napoletana.
Delle otto opere che furono rappresentate col suo nome fra il 1653 e il 1679 soltanto Lo schiavo di sua moglie (1671) e La Stellidaura vendicata (1678) ci sono pervenute. L'operistica veneziana era stata accolta con favore a Napoli. Ciò influì sulla formazione del P., nel quale erano d'altra parte tuttora vive le tradizioni sentimentali dei madrigalisti del Cinque e Seicento. Notevole compositore di cantate e di musica concertante e a cappella, il P. mostra nelle superstiti opere teatrali una forte personalità drammatica. Nei melodrammisti suoi contemporanei non si ritrova un'espressione altrettanto psicologica. P. F. Cavalli sembra piuttosto un realista nella tragicità; A. Cesti un elaboratore della propria lirica e dell'elegante raffinatezza del pathos. Il Provenzale riesce invece più immediato e nella malinconia rammenta C. Monteverdi. La sua frase è eloquente: mentre le ariette dei Veneziani risentivano dei ritmi delle canzoni e danze divulgate dal liuto, e per tale derivazione serbavano un che di strumentale, le cantilene del Provenzale riecheggiavano invece la vocalità delle villanelle napolitane e il patetico tormento del madrigale cromatico di Gesualdo di Venosa. Esse si presentavano soprattutto come canto vocale. Alle parole e alle immagini si informavano espressive le armonie sovente ardite. L'ampiezza dei periodi, la larghezza delle arie sembravano favorire lo svolgimento degli stati d'animo. Il pensiero non viene meno, né procede artificiosamente, ma riceve più intimo e naturale fervore. Nei suoi Larghi si scorge il prototipo di quelli di G. B. Bononcini, e di G. F. Händel. Fuori della melodia è disattenzione; il recitativo è assai comune. L'aria è l'ideale del P. ed egli la forma a due e tre parti e col da capo, con molteplici modulazioni, che sarà poi il punto di partenza dello stile di A. Scarlatti. Talvolta però resta vincolato dalla forma da lui stesso prescelta e il calore dell'ispirazione svanisce nelle formule. Egli è ricco di espressioni felici, dal grande accento appassionato all'arguzia sottile. Magistrale è la sua capacità nell'armonia, nel contrappunto, nella fuga. Eccellente l'accento della verità. I libretti che egli intonò, poco differiscono, nel congegno, da quelli veneziani, divenuti generalmente italiani. Il siciliano Andrea Perrucci, reputato a Napoli fra i migliori "poeti", sapeva proporgli accenti di umanità. Ed egli operava il prodigio di far quasi dimenticare l'eroe greco o romano e la principessa e la nutrice, e quasi strappava loro la maschera, facendoli cantare fuori della convenzionale loro funzione. Gli episodî sentimentali meno marcati restavano generici. Ma le passioni: il tormento, l'amore, la gelosia, venivano vissute, drammatizzate, liricizzate.
Bibl.: R. Rolland, Histoire de l'opéra, ecc., Parigi 1895; ecc., L'opéra, ecc., in A. Lavaignac, Encycl. de la musique, I, ii (1913); H. Goldschmidt, F. P. als Dramatiker, in Sammelb. d. inst. Musikgesellschaft, 1906; G. Pannain, Fr. P. e la lirica del suo tempo, in Riv. mus. italiana, 1925. Dodici arie, riv. da C. Pedron, sono edite a Milano.