Francesco Redi
Il nome di Francesco Redi è legato, a seconda della prospettiva dalla quale s’intende osservare il suo contributo, a tre aspetti ricorrenti. Se ci poniamo dal punto di vista della storia del pensiero scientifico, la preminenza va senz’altro alla celebre smentita della tesi della generazione spontanea affidata alle Esperienze intorno alla generazione degl’insetti (1668). Se lo si guarda mirando alla più ampia rilevanza assunta nell’ambito della storia della cultura italiana è la sua dimensione di erudito, di accademico della Crusca, di letterato a emergere. Se, infine, si sposta l’accento sui suoi legami con la Firenze medicea, lo status di ‘scienziato di corte’ diviene decisamente preminente.
Figlio di due nobili esponenti della società aretina, il medico Gregorio e Cecilia de’ Ghinci, Francesco Redi nasce ad Arezzo il 18 febbraio 1626, primogenito di otto figli. Compie i primi studi presso i gesuiti a Firenze, dove la famiglia si trasferisce nel 1642 dopo aver soggiornato per alcuni anni a Prato, laureandosi in medicina a Pisa nel 1647.
Gli anni successivi alla laurea lo vedono impegnato in studi di carattere filologico e letterario – oltre che nell’apprendimento di lingue antiche e moderne – intervallati da alcuni viaggi in varie località italiane: risalgono proprio a questo periodo i due soggiorni romani del 1650 e del 1654 (Guerrini, in Francesco Redi, 1999, pp. 47-69).
La solida preparazione umanistica acquisita in questi anni gli vale l’aggregazione, nel 1655, all’Accademia della Crusca, della quale diverrà arciconsolo dal 1678 al 1690, partecipando attivamente alla terza edizione del Vocabolario (1691).
Fin dal 1657 figura tra i protagonisti delle attività sperimentali della neonata Accademia del Cimento, eccezionale luogo di scambio, di confronto e scontro tra le varie ‘anime’ della scienza postgalileana e i portavoce della tradizione (P. Galluzzi, Nel ‘teatro’ dell’Accademia, in Scienziati a Corte, a cura di P. Galluzzi, 2001, pp. 12-25). È in questo contesto che prendono corpo – siamo nel giugno 1663 – le prime ricerche in campo naturalistico confluite, l’anno seguente, nella memoria intitolata Osservazioni intorno alle vipere.
Il 1666 segna l’inizio della vita di Redi a corte: in quello stesso anno egli riceve infatti l’incarico – già ricoperto dal padre – di medico personale del granduca Ferdinando II de’ Medici e la direzione della ‘spezieria’ e della ‘fonderia’ granducali. A partire da questo momento Redi, perennemente dedito alla salute del principe e della sua famiglia, che deve seguire nei continui spostamenti tra le varie dimore toscane, riveste incarichi di carattere diplomatico, politico o più ampiamente culturale. Questi doveri, bilanciati dall’agio di poter disporre di tutti i mezzi necessari per condurre esperienze, non gli impediranno di dar vita, nel 1668, a uno dei capolavori del metodo sperimentale applicato alle scienze biologiche: le Esperienze intorno alla generazione degl’insetti che lo consacreranno, in Italia e in Europa, come una delle punte più avanzate della nuova scienza inaugurata dalla lezione galileiana. Riconfermato nei precedenti incarichi anche da Cosimo III, succeduto al padre nel 1670, abbandonerà la pratica medica nel 1690, a causa di problemi renali destinati ad aggravarsi negli anni successivi. La morte lo coglierà al seguito della corte, a Pisa, la notte del 1° marzo 1697.
Con queste righe, spesso ricordate come sintesi emblematica del credo scientifico rediano, si apre la prima memoria naturalistica data alle stampe: le Osservazioni intorno alle vipere redatte sotto forma di lettera a Lorenzo Magalotti.
Mio Signore,
Ogni giorno più mi vado confermando nel mio proposito di non voler dar fede, nelle cose naturali, se non a quello che con gli occhi miei propri io vedo, e se dall’iterata e reiterata esperienza non mi venga confermato.
È il 1664. Il contesto, che il richiamo all’«iterata e reiterata esperienza» rende subito evidente, è quello dell’Accademia del Cimento («provando e riprovando» è il suo motto), la società scientifica creata dal granduca Ferdinando II de’ Medici e dal fratello, il principe Leopoldo. Ben riconoscibile, dietro l’appello al «vedere con gli occhi e toccare con mano», il richiamo alla lezione galileiana, declinata secondo le direttive che l’Accademia medicea sta cercando di promuovere nella direzione di uno sperimentalismo attentissimo a evitare – necessità imprescindibile per dei principi cattolici – le pericolose implicazioni che avevano condotto alla condanna dello scienziato pisano.
Subito a seguire un altro passo – anch’esso frequentemente citato – che lascia ben intravedere, dietro l’intento apologetico rivolto al mecenate, i primi, chiari tratti della condizione dello scienziato di corte, vincolato a soddisfare i gusti e le curiosità del principe quanto ai tempi e agli oggetti stessi della ricerca, ma dotato, d’altra parte, di ogni mezzo necessario a condurre con agio e ricchezza di materiali il proprio lavoro:
Da Napoli arrivarono al principio di Giugno le Vipere per compor la Triaca nella Spezieria di S.A. Ser. alla di cui presenza, e di tutti gli altri Serenissimi Principi favellandosi di questi animali, e della gran parte, che egli anno nella composizione di quel maraviglioso antidoto, si venne a dire del lor veleno, e di quel, ch’ei fosse, ed in qual parte del lor corpo n’avessero la miniera (Osservazioni intorno alle vipere, 1664, p. 9).
L’interesse per il tema del veleno viperino, base essenziale per la preparazione della teriaca, il rimedio «da sempre applicato a vari tipi di morbi e avvelenamenti» (Mangani 1999-2000, p. 5) era emerso, dunque, proprio l’anno precedente nel corso di una delle sedute del Cimento.
Qual è la sede del veleno? Come agisce e perché uccide? Che succede se viene ingerito? Sono, questi, alcuni degli interrogativi ai quali Redi, nella dimensione collegiale della scienza a corte, tenta di fornire una risposta mettendo a punto una metodologia di ricerca che, destinata ad affinarsi nelle Esperienze intorno alla generazione degl’insetti, diverrà caratteristica della sua ‘arte della sperimentazione’.
Raccolte le varie ipotesi tra i presenti e constatato che l’opinione più diffusa tanto tra gli antichi quanto tra alcuni dei moderni autori era che a uccidere fosse il fiele dell’animale, ritenuto tossico anche se ingerito, si procede alla sua verifica sperimentale. Ad aprirla il celebre intervento di un certo Jacopo Sozzi, cacciatore di vipere al servizio del granduca, il quale, «appena dal ridere potendosi contenere» dimostrò l’innocuità del principio trangugiandolo d’un fiato senza riceverne alcun danno, dopo averlo diluito in mezzo bicchiere d’acqua.
Non potendo escludere che il rude Jacopo non avesse assunto in precedenza un qualche antidoto, l’esperienza viene replicata su una ricca serie di animali, tutti usciti indenni dalla prova. Stesso esito si ottiene stillando fiele direttamente sulle ferite, ponendo quindi il presunto ‘veleno’ a contatto con il sangue.
Escluso, dunque, il fiele come agente del veleno viperino, l’indagine si sposta sul ‘liquore’ giallo, simile per odore e sapore all’olio di mandorle, che ristagna nelle guaine che avvolgono i denti della vipera. Come per il fiele, anche di questo elemento si testano per primi gli effetti conseguenti alla sua ingestione. Ecco ancora in scena l’intrepido Jacopo che, indenne dopo averne bevuto una cucchiaiata, scelta una vipera «delle più grosse, delle più bizzarre, e delle più adirose», ne raccoglie in mezzo bicchiere di vino non solo tutto il liquido che riesce a ricavarne dalle guaine, ma anche «tutta la spuma, e tutta la bava» rigettata dall’animale (Osservazioni intorno alle vipere, cit., p. 17), bevendola come se si fosse trattato di «giulebbo perlato» (pp. 17-18). Ripetendo la procedura utilizzata per il fiele, si passa quindi a sperimentarne gli effetti su una nutrita serie di altri animali e, ottenuto lo stesso risultato, si decide di verificare – sullo sfondo della scoperta della circolazione del sangue – «se per fortuna messo sulle ferite» non fosse cagione di morte (p. 22). Ebbene, nel giro di poche ore tutti gli animali così trattati muoiono, sia che il ‘liquore’ provenisse da vipere vive, sia che fosse stato estratto da animali morti anche da due o tre giorni. La conclusione che a seguito di ‘reiterate esperienze’ (sulla distinzione tra ‘ripetizione’ e ‘replica’ delle esperienze e sul suo utilizzo negli studi sul veleno viperino, cfr. Schickore 2010) Redi può stabilire, facendo piazza pulita di una moltitudine di ‘errori’ provenienti tanto da autori antichi che moderni, è che la morte è direttamente conseguente all’inoculazione del liquido contenuto nelle guaine, liquore – si precisa – che non è «veleno, se non tocca il sangue» (Osservazioni intorno alle vipere, cit., p. 55). Ma perché, in quel caso, uccide? Per una sorta di «occulta potenza», perché comporta un allontanamento degli «atomi calorifici» dal cuore, abbassandone la temperatura fino a provocarne il congelamento, o perché, al contrario, lo surriscalda, «multiplicando, e rendendo più vivi que’ medesimi atomi» (pp. 57-58)? Sono, queste, alcune delle domande alle quali, comportando il ricorso a ipotesi generali e chiamando in causa interpretazioni atomistiche, l’accorto archiatra granducale sa bene come sia preferibile non azzardare risposte: «vi ingannate, se ciò da me pretendete, contentandomi, che questa sia una delle tante, e tante cose, che non so» (p. 58).
Riaffermate la propria autonomia e libertà intellettuale nei confronti dell’autorità, proprio come il «cauto e avveduto» destinatario dell’opera, Magalotti, neppure Redi si dichiara disposto a credere «alla bella prima tutto ciò che ne’ libri de’ Filosofi si trova scritto», persuaso unicamente dalle «geometriche dimostrazioni, forza di possenti argomenti, o replicate esperienze» (p. 91).
Sotto forma di lettera indirizzata a Carlo Dati, segretario dell’Accademia della Crusca e accademico del Cimento, l’opera che condurrà Redi alla notorietà espone le conclusioni raggiunte a seguito di molte esperienze «fatte di fresco […] intorno al nascimento di que’ viventi che infino al dì d’oggi da tutte le scuole sono stati creduti nascere a caso [corsivo mio] e per propria lor virtude senza paterno seme» (Esperienze intorno alla generazione degl’insetti [1668], a cura di W. Bernardi, 1996, p. 75).
L’epoca in cui si colloca la sperimentazione rediana è, infatti, dominata dall’idea che un’ampia schiera di viventi – insetti, piccoli mammiferi, molluschi o anfibi – nasca spontaneamente (senza, cioè, genitori cospecifici) da materiale organico in decomposizione (ex putri) o, in alcuni casi, persino dall’inorganico. In ciò convergono «tutte quante le scuole o degli antichi o de’ moderni filosofi» (p. 78). Affondando le radici nell’antichità, tale idea aveva permeato il pensiero medievale giungendo incontrastata alle soglie della modernità, sostenuta e accettata anche da rappresentanti di spicco tra i ‘moderni’ come Francis Bacon, William Harvey, Robert Boyle o René Descartes.
L’esperienza più comune che portava ad avvalorare la generazione spontanea era la comparsa di larve o insetti nelle carcasse putrefatte di animali: al livello della pura osservazione quegli animaletti apparivano infatti facilmente interpretabili come dirette ‘produzioni’ di quei materiali. Ma perché Redi decide di affrontare questo tema? La questione della generazione spontanea era stata toccata, a proposito dell’improvvisa comparsa delle rane nelle strade e nei campi dopo forti scrosci di pioggia, durante una seduta al Cimento del settembre 1657. Gli accademici avevano smentito la cosa – generalmente interpretata come nascita ex novo di quei viventi, plasmati dall’azione delle gocce sulla polvere del terreno – spiegando che dopo la pioggia le rane, semplicemente, uscivano dai loro nascondigli. Giunta alle orecchie degli scienziati della Compagnia di Gesù – Athanasius Kircher e Honoré Fabri in testa – tale soluzione era stata letta come una sfida alla tesi della generazione spontanea (Bernardi 1996, pp. 19-21).
Questo lo sfondo sul quale si collocano le Esperienze rediane databili, per la maggior parte, nel corso dell’estate 1665 (Esperienze intorno alla generazione degl’insetti, cit., p. 81 e nota). Lasciate macerare le carni di alcuni serpenti dentro contenitori aperti, Redi può osservare, dopo pochi giorni, la consueta comparsa di vermi che divengono prontamente oggetto di ulteriori osservazioni. Confinati in alcuni vasetti in modo che non possano uscire, registra la loro trasformazione in ninfe o pupe: «raggrinzandosi in se medesimi insensibilmente pigliarono una figura simile all’uovo» (p. 82). Riposte tali «uova» in contenitori «di vetro ben serrati con carta» (p. 83), dopo alcuni giorni può osservare la fuoriuscita di mosche di vario tipo, a seconda del colore e delle caratteristiche delle «uova» di provenienza. Ripetute, moltiplicate e variate nei giorni successivi, utilizzando una varietà indescrivibile di carni crude e cotte, nuove esperienze mostrano a Redi «su quelle carni e su quei pesci, ed intorno ai forami delle scatole dove stavan riposti» non solo la presenza dei vermi, ma anche quella di uova, simili a quelle ordinariamente deposte dalle mosche (p. 86). «Di qui cominciai a dubitare – scrive – se per fortuna tutti i bachi delle carni dal seme delle sole mosche derivassero e non dalle carni stesse imputridite», un dubbio che traeva ulteriore alimento dal fatto che «in tutte le generazioni da me fatte nascere, sempre avea io veduto sulle carni, avanti che inverminassero, posarsi mosche della stessa spezie di quelle che poscia ne nacquero» (p. 87).
Concepito dunque il sospetto che l’origine di tutti i vermi che comparivano nelle sostanze macerate fosse imputabile a uova, e non alla trasformazione delle sostanze stesse, Redi mette in piedi una nuova fase sperimentale nella quale compare, per la prima volta nella storia della biologia, il ricorso, accanto agli esperimenti di ricerca, anche a esperimenti di controllo. Quattro diverse varietà di carni vengono poste in contenitori di vetro dall’apertura ampia, sigillata con carta legata con dello spago. Le stesse carni vengono quindi collocate in altri quattro vasi lasciati aperti (controllo). Risultato: in questi ultimi le carni «diventarono verminose; ed in essi […] vedevansi entrare ed uscir le mosche a lor voglia, ma ne’ fiaschi serrati non ho mai veduto nascere un baco», neppure a molti mesi di distanza dall’inizio dell’esperimento (p. 87).
Impedendo dunque alle mosche l’accesso alle carni, e quindi la deposizione di uova, i vermi non comparivano. E non comparivano neppure sostituendo la chiusura di carta con quella di una sorta di garza, a smentire il sospetto che fosse la mancanza di aria a impedirne lo sviluppo (p. 91). Si poteva dunque concludere che la causa efficiente dei vermi erano le mosche, o meglio le uova da esse deposte sulla carne, e non la carne stessa.
In seguito alle esperienze rediane «i vermi, le mosche, le anguille, nascono da vermi, da mosche, da anguille: dove esiste un essere vivente c’è stato, prima, un essere simile a lui che lo ha generato» (F. Jacob, La logique du vivant, une histoire de l’érédité, 1970; trad. it. 1971, p. 68).
L’universalità del principio della generazione parentale veicolato dalle Esperienze rediane (seppure con le note e dibattute eccezioni costituite dai casi degli insetti galligeni e dei parassiti animali) fu generalmente condivisa, nel corso del Seicento, dai novatores che si ponevano sulla scia della lezione galileiana. Fino alla prima metà del Settecento, quando una sistematica osservazione microscopica spostò l’attenzione dal mondo degli insetti o dei piccoli invertebrati a quello di esseri dalle dimensioni più infinitesime, come protozoi o batteri (M. Stefani, Corruzione e generazione. John Turberville Needham e l’origine del vivente, 2002) la possibilità stessa di una generazione ex putri, sostenuta dai portavoce della tradizione, sembrò collocarsi al di fuori dei confini tracciati dalla ‘nuova scienza’.
Nell’antiporta dell’edizione latina che, a tre anni dalla pubblicazione, apriva alle Esperienze le vie della diffusione europea, Minerva – personificazione della scienza – è raffigurata nell’atto di sottoporre la natura alla prova avvalendosi di un microscopio (strumento-simbolo, insieme al telescopio, della scienza dei ‘moderni’) mentre tiene aperto un libro, precisa Paula Findlen, «of unspecified authority» (Possessing nature, 1994, p. 194). Tra il libro e il microscopio, sullo stesso tavolo, una carta sciolta raffigurante immagini di oggetti naturali evidenzia l’importanza ormai rivestita dall’iconografia scientifica all’interno dell’indagine naturalistica.
Libro e microscopio sono adagiati su uno stesso piano, a sottolineare come la battaglia della nuova scienza contro l’auctoritas non coinvolga affatto, indiscriminatamente, tutti gli auctores:
Se Iddio invece di creare Adamo avesse creato me nel Paradiso terrestre, e invece di vietarmi quel fico, o quella mela mi avesse vietato di leggere i libri, io son così debole, che di sicuro avrei fatto peggio d’Adamo (Redi a Leopoldo de’ Medici, 13 maggio 1670, in Opere, 6° vol., 1811, p. 339).
Più che evidente, dietro queste parole, il rapporto che da sempre ha legato il Redi erudito, l’appassionato bibliofilo al libro, strumento non meno importante – d’altro canto – per il Redi scienziato. Studi recenti principalmente condotti sulla corposa mole dei manoscritti (sui protocolli di esperienze e sui carteggi come sull’autobiografico Libro di ricordi) sono finalmente approdati all’identificazione non solo della maggior parte dei titoli che componevano la biblioteca dello scienziato, ma anche di molti degli esemplari originali, oggi conservati in varie biblioteche aretine (Mangani, Martini 2006).
L’analisi di queste fonti, seguendo attentamente la cronologia delle acquisizioni di alcuni testi e ponendola in relazione con i tempi del lavoro sperimentale, mostra con grande chiarezza «l’adesione totale a un metodo investigativo che, tra le fasi cruciali dell’osservazione e dell’esperimento, prevedeva anche il confronto serrato con gli autori che si erano precedentemente occupati dell’argomento» (Mangani, in Francesco Redi, 1999, p. 236). Ed è in particolare la dimensione ‘privata’ della scienza, piuttosto che quella pubblica o ‘partecipata’, sono le carte manoscritte, piuttosto che le opere edite, a rendere evidente «che il momento del confronto con i classici, l’esame di tutte le opinioni scritte su ogni problema naturalistico» (p. 243), oltrepassando ampiamente la dimensione del puro «abbellimento letterario» (p. 243), penetrano in profondità nella fase stessa della ricerca e della sperimentazione, pronta a interrompersi, a ripensarsi, a intraprendere nuove direzioni a seguito di nuove ‘letture’ effettuate in corso d’opera.
Dai protocolli di laboratorio emerge, infatti, con chiarezza la particolare «strategia di ricerca» (p. 248) di Redi, approdata all’elaborazione di un «metodo nel quale la pratica sistematica del laboratorio si avvaleva di un apparato di competenze potenziato dalla riflessione sui risultati acquisiti e sui nodi irrisolti delle fonti testuali» (p. 248). La sua biblioteca diviene in tal modo uno strumento, non meno importante del microscopio, una «fonte indispensabile alla ricostruzione della fitta trama delle sollecitazioni argomentative nella genesi delle procedure e delle scoperte scientifiche» (p. 248), mostrando come gli eccezionali risultati sperimentali raggiunti siano stati ottenuti «dosando sapientemente la prassi e l’erudizione scientifica e impegnando tanta maestria nell’investigare la natura quanta perizia nell’interrogare i libri» (p. 248).
Osservazioni intorno alle vipere, Firenze 1664.
Esperienze intorno alla generazione degl’insetti, Firenze 1668, nuova ed. a cura di W. Bernardi, Firenze 1996.
Lettera sopra alcune opposizioni fatte alle “Osservazioni intorno alle vipere”, Firenze 1670.
Esperienze intorno a diverse cose naturali, e particolarmente a quelle che ci son portate dall’Indie, Firenze 1671.
Lettera intorno all’invenzione degli occhiali, Firenze 1678.
Osservazioni intorno agli animali viventi che si trovano negli animali viventi, Firenze 1684.
Bacco in Toscana. Ditirambo di Francesco Redi accademico della Crusca, Firenze 1685, nuova ed., con una scelta delle Annotazioni, a cura di G. Bucchi, Roma-Padova 2005.
Opere, 9 voll., Milano 1809-1811.
Consulti medici, a cura di C. Doni, Firenze 1985.
J. Tribby, Cooking (with) Clio and Cleo: eloquence and experiment in seventeenth-century Florence, «Journal of the history of ideas», 1991, 3, pp. 417-39.
P. Findlen, Controlling the experiment: rhetoric, court patronage and the experimental method of Francesco Redi, «History of science», 1993, 91, pp. 35-64.
G. Olmi, La scienza e la corte. Alcune riflessioni sul ‘patronage’ in Italia, «Giornale critico della filosofia italiana», 1995, 3, pp. 287-308.
W. Bernardi, introduzione a F. Redi, Esperienze intorno alla generazione degl’insetti, Firenze 1996, pp. 5-62.
Natura e immagine. Il manoscritto di Francesco Redi sugli insetti delle galle, a cura di W. Bernardi, G. Pagliano, L. Santini et al., Pisa 1997.
Francesco Redi: un protagonista della scienza moderna, Atti del Convegno, Arezzo (28-29 novembre 1997), a cura di W. Bernardi, L. Guerrini, Firenze 1999 (in partic. W. Bernardi, Teoria e pratica della sperimentazione biologica nei protocolli sperimentali rediani, pp. 13-30; L. Guerrini, Contributo critico alla biografia rediana, pp. 47-69; M. Fazzari, Redi, Buonanni e la controversia sulla generazione spontanea: una rilettura, pp. 97-127; L. Mangani, Tra laboratorio e scrittoio: le fonti testuali scientifiche nelle osservazioni e nelle esperienze di Redi, pp. 231-59).
L. Mangani, Libro ed esperimento. Le teorie della generazione di Francesco Redi, Università degli Studi di Firenze, tesi di dottorato in Storia della scienza, a.a. 1999-2000.
L. Mangani, G. Martini, La biblioteca di Francesco Redi e della sua famiglia. Catalogo, Arezzo 2006.
J. Schickore, Trying again and again: multiple repetitions in early modern reports of experiments on snake bites, «Early science and medicine», 2010, 6, pp. 567-617.
Si veda inoltre il sito on-line ideato e curato da Walter Bernardi www.francescoredi.it.