RENATO, Francesco
RENATO, Francesco. – Con tale nome è noto uno degli esponenti dell’ala radicale del movimento valdesiano, che Aldo Stella (1969, pp. 26 s.) ha proposto d’identificare con il cappuccino Francesco di Calabria o Calabrese. In effetti, a parte l’identità di nome e l’origine geografica, entrambi erano predicatori cappuccini usciti in seguito dall’Ordine, esuli in Svizzera ma tornati poi in Italia, a Napoli. Ambedue erano inoltre contigui al mondo valdesiano; sovrapponibili sono i dati cronologici a loro relativi e altri elementi ancora consentono di ritenere la tesi ben fondata (Addante, 2010, pp. 80-84, 176-178).
Nato a «Cotrone» in data incerta, il futuro Renato entrò nell’Ordine dei cappuccini, svolgendo l’ufficio di predicatore e forse vivendo per qualche tempo nel convento di Anticoli, presso l’odierna Fiuggi. Dovette in ogni modo poi spostarsi nel Ducato di Milano, poiché nel 1539-40 fu promotore, a Como, della Casa della misericordia, iniziativa caritatevole nata a seguito di una carestia e che, baciata da successo, fu resa un’istituzione stabile con l’appoggio del governatore di Milano Alfonso d’Avalos.
Discepolo di Bernardino Ochino, nell’anno (1542) della fuga Oltralpe del predicatore senese Francesco era provinciale di Milano, e fu tra i propugnatori di un’iniziativa tesa a riportare Ochino in Italia con un salvacondotto. Fallito il tentativo e divenuto «sospetto», il provinciale «se ne fuggì» (Mariano da Salò, Historia cappuccina, a cura di M. da Pobladura, 1950, p. 53), sicché è sicuramente lui il «Franciscus ex Calabria» sfratato che fu pastore di Vettan (oggi Ftan) e «perturbatorem» dei Grigioni nel 1544, dove era giunto l’anno precedente.
Francesco era con un altro cappuccino «excucullatus», Girolamo, erroneamente detto milanese, ma in realtà anch’egli calabrese: verosimilmente l’ex provinciale di Calabria «Girolamo di Pignano», cioè da Dipignano, esulato dopo la fuga di Ochino e poi, scacciato dai Grigioni, processato dall’Inquisizione nel 1552-53 (Addante, 2014, p. 105). Entrambi erano «ex Italia profugi» e «discipulos» di Ochino, ma fu «maxime» Francesco a mostrarsi «temerarium» (U. Campell, Historia Raetica, a cura di P. Plattner, 1890, pp. 297, 302; Rosio de Porta, 1776, pp. 67, 75).
Dotato d’eloquio «prontum, doctum, audacem et ingeniosum» (Rosio de Porta, 1776, p. 67), venerato dalla comunità di Vettan come un «semideo» (U. Campell, Historia Raetica, cit., p. 302), Francesco rivelò idee che mescolavano istanze anabattistiche e tendenze libertine. Diceva che «infantes non esse baptizandos» se non quando dotati «rationis» e riteneva che, dopo il trapasso, l’anima morisse, e, di conseguenza, che «hominum nemo in coelis esse» e che «infernum esse nullum», mentre con il giorno del Giudizio sarebbero risorti i soli eletti. Sosteneva, inoltre, che gli eletti non peccassero e che la salvezza dipendesse soltanto dalla grazia di Dio. Fu così denunciato per «haereticae pravitatis» e, in una disputa pubblica convocata nel 1544 a Süss, si coalizzò un fronte di cattolici e riformati che ne sancì l’espulsione dai Grigioni.
A questo punto sparì dalla circolazione, se non che «ne l’anno 1544 seu 1545, sopervenne […] [a Napoli] un messer Francesco Renato calabrese» (Addante, 2010, p. 177), ex predicatore cappuccino tornato dall’esilio, il quale entrò in contatto (certo non a caso, dati i rapporti con Ochino) con il gruppo dei più radicali valdesiani, guidati dallo spagnolo Juan de Villafranca, intimo discepolo di Juan de Valdés. La scelta del nome Renato era forse ispirata al più celebre Camillo, già attivo nei Grigioni quando egli vi giunse, e con il quale significative erano le consonanze sul piano delle idee. Infatti, quando tornò in Italia Francesco era già su posizioni radicali, «eccetto de divinitate Christi, la qual anchora teneva; ma poi che lui venne in Napoli, […] disse che non la teneva più» (Addante, 2010, p. 82), il che conferma ulteriormente l’identità tra Francesco Renato e «Franciscus ex Calabria», che non aveva negato la natura divina di Gesù, pur sminuendone il ruolo in termini di grazia.
Morto Juan de Villafranca nel 1545, Renato fu tra quanti assunsero una posizione preminente su alcuni adepti del gruppo radicale valdesiano, orientandoli verso un radicalismo ancor maggiore. Se i discepoli di Villafranca avevano dubitato di alcune parti dei Vangeli, quanti si raccolsero attorno a Renato e all’ex abate basiliano Girolamo Busale – anch’egli calabrese ma di origine conversa – si spinsero a ritenere che «le Scripture sancte et evangeliche erano false» nel loro complesso, e, quindi, «nega[va]no» «tutto il Testamento Novo». Sostenevano, inoltre, che «Iesu Christo non è il vero messia promesso nella legge et nelli profeti», mentre «il messia ha da venir» «et de poi salvar tutti li hebrei», con chiari riferimenti alla tradizione ebraica: non a caso Renato aveva «molte chimere di interpretatione et di ponti de la lingua hebrea» (pp. 22 s., 55-57, 82 s.). Su questo sostrato, però, Renato aggiungeva una visione di Gesù che era ricalcata piuttosto sul Corano, definendolo «profeta come li altri profeti», ma dotato di «maggior spirito et maggior dono di Dio de li altri profeti» (pp. 83, 178), il che una volta di più conferma l’identità con il Francesco esule nei Grigioni, che era stato detto pure «a Turcis seductus» per la sua visione di Gesù (Campell, 1576, p. 303). E come nei Grigioni Renato sosteneva che «morto il corpo more ancora l’anima», con la resurrezione finale dei soli «electi» (Addante, 2010, pp. 22 s.). Su tutto ciò s’innestavano istanze millenaristiche, con la persuasione che con «l’advenimento de Christo» egli «regnerà mille anni con gli suoi eletti» (pp. 56, 59).
Fra il 1546 e il 1547 Renato e altri compagni lasciarono Napoli (verosimilmente per l’inasprirsi della repressione) dirigendosi verso la Repubblica di Venezia, «ma fu preso per camino» e dal suo arresto se ne persero le tracce (pp. 84, 177). Probabilmente fu processato e poi tornò fra i cappuccini, poiché secondo l’apologetica dell’Ordine, «ritornato a penitenza, alla fine doppo molti anni santamente passò all’altra vita» a Napoli (Mariano da Salò, Historia capuccina, cit., p. 53).
Era comunque ancora in vita nel 1567, se è lui (come probabile) un «p[adre] f[ra’] Francesco di Calabria che sta in Napoli», cappuccino citato come testimone in un processo dell’Inquisizione (Camaioni, 2015, p. 85). Non si conoscono la data e il luogo di morte.
Fonti e Bibl.: U. Campell, Historia Raetica (1576), a cura di P. Plattner, II, Basel 1890, pp. 297-307; Bernardino da Colpetrazzo, Historia ordinis fratrum minorum capuccinorum (1584-93 ca.), a cura di M. da Pobladura, Assisi 1939-1940, I, p. 432; II, p. 178; P.D. Rosio de Porta, Historia Reformationis Ecclesiarum Raeticarum…, I, 2, Curiae Raetorum et Lindaviae 1776, pp. 67-75; Mariano da Salò, Historia capuccina, a cura di M. da Pobladura, II, Roma 1950, pp. 53, 184; A. Stella, Anabattismo e antitrinitarismo in Italia nel XVI secolo. Nuove ricerche storiche, Padova 1969, pp. 26 s., 30, 33, 35 s., 39; F. Chabod, Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V. Note e documenti, in Id., Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, Torino 1971, pp. 266, 388 s.; I frati cappuccini. Documenti e testimonianze del primo secolo, a cura di C. Cargnoni, II, Perugia 1988, pp. 268-275, 1185, 1391, 1645, 1678; L. Addante, Eretici e libertini nel Cinquecento italiano, Roma-Bari 2010, pp. 24, 55-57, 59, 61, 76, 80-84, 162, 176-178, 203; Id., Valentino Gentile e il dissenso religioso del Cinquecento. Dalla Riforma italiana al radicalismo europeo, Pisa 2014, p. 105; M. Camaioni, L’eredità di Bernardino Ochino. Predicazione eterodossa ed eresia tra i cappuccini dopo il 1542, in Ripensare la Riforma protestante. Nuove prospettive degli studi italiani, a cura di L. Felici, Torino 2015, pp. 83-86.