RICCIARDI, Francesco
RICCIARDI, Francesco. – Nacque a Foggia il 12 giugno 1758 da Giulio Cesare e da Elisabetta Pioppi.
Destinato a seguire la tradizione forense della sua agiata famiglia, all’età di dieci anni fu inviato a Napoli presso uno zio avvocato. Prima di accostarsi alla scienza del diritto, acquisì una solida formazione umanistica sotto la direzione del grecista Giacomo Martorelli. Non ancora ventenne, pronunciò la sua prima arringa in tribunale, arrivando presto a distinguersi dalla pletorica torma dei causidici in virtù della sua eloquenza lucida e incisiva.
Dedito ad affermarsi nell’attività professionale, non prese parte al movimento riformatore dell’Illuminismo meridionale né all’esperienza repubblicana del 1799 (rispetto alla quale il suo atteggiamento non è accertabile in base alle fonti oggi disponibili). Nel 1800 sposò la trentunenne Luisa Granito dei marchesi di Castellabate, con la quale ebbe cinque figli: Giulio, Irene, Giuseppe, Elisabetta e Giovanni (che morì a soli quattordici mesi).
Nel 1806, la conquista del Regno di Napoli da parte dell’esercito napoleonico cambiò repentinamente la vita del talentuoso avvocato, attraendola in una nuova dimensione: quella pubblica di uomo delle istituzioni. Immediatamente nominato al Consiglio di Stato dal re Giuseppe Bonaparte, Ricciardi fu promosso segretario di Stato l’8 settembre dello stesso anno. Il passaggio dello scettro regio a Gioacchino Murat non ostacolò il suo cursus honorum: dopo una breve parentesi lontano dal governo, il 4 novembre 1809 subentrò a Giuseppe Zurlo nel ruolo di ministro della Giustizia e del Culto, conservando la carica sino alla restaurazione borbonica.
Come ministro del Culto, Ricciardi si trovò a gestire gli affari religiosi e i rapporti con la Chiesa nell’orizzonte ideologico e operativo del giurisdizionalismo napoleonico. In piena sintonia con l’indirizzo politico dei sovrani, egli perseguì l’obiettivo di fare del clero un corpo di funzionari fedeli allo Stato e capaci di provvedere all’educazione morale delle masse prive di istruzione. Si oppose apertamente, invece, ai cambiamenti più dirompenti introdotti dai francesi, quali la coscrizione militare e il matrimonio civile dei preti. Il suo piano di riforma organica dell’organizzazione ecclesiastica, presentato al Consiglio di Stato il 25 novembre 1813, non fu mai convertito in legge.
Ben più incisivo e produttivo di risultati fu il suo lavoro al vertice della giurisdizione. Il sistema istituzionale edificato dai napoleonidi, volto a comprimere il potere dei giudici, vincolandoli alla rigida applicazione della legge codificata e inserendoli in una struttura piramidale e gerarchizzata sottoposta all’esecutivo, trovò in Ricciardi un partigiano convinto e capace, che spinse a livelli estremi il controllo del governo sull’attività e sulla condotta dei magistrati, attraverso una capillare sorveglianza dei procuratori regi e un efficace interventismo ministeriale, finalizzato non solo ad annientare l’arbitrio giudiziario d’antico regime, ma anche a estirpare i radicati e tenaci costumi professionali del ceto togato, incline a una gestione privatistica e venale del potere. Sottratta la giurisdizione alle ingerenze delle autorità di polizia, Ricciardi allontanò dalla magistratura coloro che si erano rivelati inidonei ad adeguarsi al rinnovamento della legislazione e creò l’«alunnato di giurisprudenza» per formare e selezionare i futuri giudici del Regno. Diresse i lavori delle commissioni istituite per l’adattamento dei codici francesi e tentò, senza successo, di introdurre nel processo penale la figura del giudice istruttore.
Lungo il quinquennio della sua esperienza ministeriale crebbe il suo credito presso il sovrano e il suo peso politico nel Consiglio dei ministri. Consapevole del deficit di popolarità del governo francese, del malcontento prodotto dall’accentramento amministrativo e della crescente forza delle opposizioni, condivise le istanze del cosiddetto partito nazionale, orientate all’emancipazione del Regno dal dominio imperiale, e sollecitò a più riprese la riforma della monarchia in senso costituzionale. Ancora nell’aprile del 1815, con il trono di Murat traballante, egli insisteva nel pretendere l’«adempimento delle promesse, molte volte reiterate, di presentarsi la Costituzione», per corrispondere alla aspettative della «classe dei proprietari» (Valente, 1965, p. 73).
Agli interessi di quella classe, irrobustita dall’alienazione dell’asse ecclesiastico, egli era pienamente solidale. Semplice avvocato al momento della fuga dei Borbone da Napoli, nel decennio francese aveva compiuto una folgorante ascesa sociale. Nominato prima gran dignitario e in seguito capo coorte dell’Ordine delle Due Sicilie (status che implicava la percezione di una rendita di 6000 ducati annui), nel 1814 fu insignito del titolo di conte di Camaldoli. Contemporaneamente accumulò «una fortuna in fondi speciosissimi, e considerevole in acquisti di beni dello Stato» (Archivio di Stato di Napoli, Carte Tommasi, b. 5). La restaurazione lo allontanò dalle cariche pubbliche, ma non poté privarlo del rango nobiliare, né intaccare le sue risorse economiche: le pulsioni vendicative di Ferdinando I erano state represse dal trattato di Casalanza.
Da privato cittadino, Ricciardi assistette al fallimento della «politica dell’amalgama» attraverso cui il ministro Luigi de’ Medici cercò di pacificare il Paese e di riconciliare la nazione intorno alla Corona. Scoppiata la rivoluzione carbonara che impose al re l’adozione della Costituzione democratica di Cadice (luglio 1820), per Ricciardi si riaprirono le porte del governo. Nominato ministro della Giustizia, degli Affari ecclesiastici e della Polizia generale, egli si impegnò in un’attività di progettazione legislativa di nitida ispirazione liberale. Nell’ambito della giustizia penale, condividendo l’ideologia illuministica del giudice-cittadino, propose l’istituzione dei giurati come garanzia degli individui dalle degenerazioni del potere punitivo. Nell’ambito dell’organizzazione giudiziaria, approntò un’ambiziosa riforma organica che mirava ad assicurare maggiore rapidità nell’amministrazione della giustizia, moltiplicando le sedi giurisdizionali sul territorio, per rispondere alle esigenze di modernizzazione delle istituzioni, espresse dalla borghesia protagonista della rivoluzione.
Coerente con il proposito di rettificare «l’ordinazion giudiziaria… mercé delle forme più liberali, e dei mezzi più efficaci a proteggere la sicurezza delle persone e della proprietà» era anche il tentativo di scardinare l’assetto della giustizia amministrativa, superando il paradigma napoleonico del foro speciale. Funzionale «all’ampliamento del potere esecutivo» a detrimento del giudiziario, «palladio dei diritti più sacri dell’uomo e del cittadino», tale paradigma, secondo Ricciardi, era inammissibile in un «regime costituzionale», poiché quei diritti erano inevitabilmente messi in pericolo dallo «stabilimento di una folla di eccezioni e di privilegj non necessari in favore de’ comuni e delle pubbliche amministrazioni», così come dalla «troppo immediata» partecipazione del governo ai giudizi. Rimarcando che, in base al dettato costituzionale, il potere esecutivo non aveva facoltà di concorrere nell’amministrazione della giustizia; che l’amovibilità dei giudici del contenzioso amministrativo ne rendeva dubbia l’imparzialità; che i continui confitti d’attribuzione generati dalla doppia giurisdizione arrestavano il corso della giustizia, il ministro avanzava la proposta che «per tutte le materie giudiziarie civili e amministrative» vi fossero «i medesimi tribunali, i medesimi magistrati, la medesima forma di procedere» nel quadro di una rinnovata organizzazione giurisdizionale progettata in «armonia collo spirito e coi principi della… Costituzione» (Rapporto e progetto di legge sul riordinamento del potere giudiziario, 1820, in F. Riccardi, Scritti e documenti varii, Napoli 1873, pp. 140-150).
Quasi nessuno dei numerosi progetti di legge presentati da Ricciardi poté essere discusso in Parlamento: troppo breve fu la vita del regime costituzionale. Le divisioni interne al fronte dei suoi sostenitori contribuirono ad accelerarne la fine. Apertamente ostile alla carboneria, di cui non esitò a proporre lo scioglimento, Ricciardi operò attivamente per una riforma di segno moderato della Costituzione spagnola, nel tentativo di salvare il nuovo ordine politico. Persuaso che soltanto una rassicurante strategia di contenimento dell’impulso rivoluzionario avrebbe potuto allontanare la minaccia di un’invasione straniera, si impegnò in prima persona nella formazione di una maggioranza parlamentare favorevole a modellare l’ordinamento istituzionale delle Due Sicilie su quello delle monarchie rappresentative di Francia e d’Inghilterra, in modo da ottenere l’appoggio dei governi di quei due Paesi contro le mire restauratrici dell’impero austriaco e dei suoi alleati.
Il fallimento di questo piano – sostenuto da tutta la compagine ministeriale – portò alle dimissioni del governo e al precipitare degli eventi verso l’esito catastrofico della guerra e della reazione assolutistica. Abbandonata la scena politica nel dicembre del 1820, dopo un ultimo discorso in Parlamento a favore dei colleghi accusati di attentato alla Costituzione, Ricciardi tornò ad appartarsi nella sua villa di Camaldoli. Negli anni successivi alla terza restaurazione borbonica, il suo nome circolò negli ambienti politici e diplomatici allorché gli avvicendamenti sul trono delle Due Sicilie alimentarono previsioni di aperture liberali. Chi le temeva trovò rapida rassicurazione; chi le auspicava restò deluso. Rassegnato a vivere da suddito di una monarchia assoluta, Ricciardi trovò rifugio nella quiete domestica e nel lavoro intellettuale. La prima fu turbata nel 1827: costretto a lasciare Napoli dal ministro di Polizia Nicola Intonti, Ricciardi trascorse nove mesi in giro per l’Italia insieme con la sua famiglia. Al secondo tornò a dedicarsi negli anni successivi: un Discorso letto dal Presidente Conte Ricciardi nella tornata dell’Accademia delle Scienze dei 14 febbraio 1832 attesta la vastità dei suoi interessi scientifici e delle sue competenze culturali. Nel marzo di quello stesso anno morì prematuramente sua moglie.
Morì a Napoli il 17 dicembre 1842.
Fonti e Bibl.: Napoli, Archivio della Società napoletana di Storia patria, Mss., XXX, a. 9: N. Nicolini, Vita di R.; P. Borrelli, Discorso pronunziato presso al feretro del Conte di Camaldoli F. R., Napoli 1842; E. Catalano, F. R., in Annali civili del Regno delle Due Sicilie, 1842, n. 30, pp. 153-156; G. Ceva Grimaldi, Elogio del conte di Camaldoli letto nella solenne adunanza della Reale Accademia delle Scienze del dì 11 giugno 1843, Napoli 1843; G. Ricciardi, Vita di F. R., in F. Ricciardi, Scritti e documenti varii, Napoli 1873, pp. 2-42; C. Dalbono, F. R., Napoli 1882; A. Valente, Gioacchino Murat e l’Italia meridionale, Torino 1965, p. 73; A. Vitulli, La famiglia Ricciardi, in La Capitanata, 1997, n. 5, pp. 81-105; D. Ippolito, La giustizia nel Mezzogiorno tra antico regime e rivoluzione: l’opera di F. R., tesi di laurea in storia moderna, relatore G. Pescosolido, Università di Roma La Sapienza, a.a. 1998-99; F. Mastroberti, Codificazione e giustizia penale nel regno di Napoli dal 1808 al 1820, Napoli 2001; E. Delle Donne Robertazzi, Un secolo di trasformazioni nel Regno di Napoli. Da Bernardo Tanucci a F. R., Napoli 2004, pp. 167-262; D. Ippolito, Tra rivoluzioni e reazioni: l’esperienza politica di F. R. (1758-1842), in Studi storici, L (2009), pp. 131-165; F. Mastroberti, F. R. e gli affari di culto durante il Decennio francese, in Stato e Chiesa nel Mezzogiorno napoleonico. Atti del quinto seminario di studi sul decennio francese (1806-1815), Napoli 2011, pp. 73-89; Id., R., F., in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), a cura di I. Birocchi et al., II, Bologna 2013, pp. 1681 s.