ROCCHI, Francesco
– Nacque a Savignano sul Rubicone (Forlì) il 24 maggio 1805 da Giulio e da Maria Pascucci (o Placucci). Trascorse la sua prima giovinezza a Savignano che, proprio in quegli anni, attraversava un momento di particolare fortuna sul piano culturale.
Nel 1801 Giulio Perticari, letterato e genero di Vincenzo Monti, Bartolomeo Borghesi, archeologo e insigne epigrafista, e Girolamo Amati, valente cultore delle antichità classiche, in un’ottica storico-nazionale già permeata di intendimenti patriottici vi avevano fondato la Rubiconia Accademia dei Filopatridi che «conservava molte costumanze arcaiche» e che, con spirito «essenzialmente innovatore», perseguì attraverso un rigoroso metodo scientifico «l’amore per la storia e le antichità della patria» (Meriano, 1920).
In questo quadro culturalmente favorevole Rocchi ebbe la possibilità di studiare umanità e retorica alla scuola pubblica di Eduardo Bignardi, un colto sacerdote di Lugo che si era trasferito a Savignano. Nel 1820, per completare la sua formazione, si trasferì a Urbino e l’anno dopo a Pesaro, dove poté avvalersi dell’insegnamento ma anche della frequentazione amichevole di Monti (che ammalato d’occhi gli dettava i suoi versi), Perticari, Francesco Cassi, Terenzio Mamiani e Antaldo Antaldi. Si deve sicuramente ad alcuni di questi maestri la sua iniziale predisposizione per l’attività letteraria sia in prosa sia in poesia, largamente apprezzata da Giosue Carducci. Ma fu soprattutto Borghesi (anche lui letterato e poeta in giovane età), «maestro, amico e quasi un altro padre» (Carducci, 1875a), a trasmettergli l’amore per l’antichità romana e soprattutto il metodo per affrontarne lo studio sulla base della tradizione storica, della documentazione archeologica e soprattutto delle testimonianze epigrafiche.
«Francesco Rocchi udì fanciullo gl’inni dei consenti [raccolta di poesie di Bignardi, Borghesi, Amati e altri]; il Monti lo percosse dell’ala; il Borghesi lo addusse per mano nella sacra antichità di Roma [...]»: così Giovanni Pascoli sintetizzò efficacemente questa prima parte della sua vita nell’epigrafe collocata nella Biblioteca comunale di Savignano.
Fatto ritorno a Savignano nel 1824, Rocchi completò la sua formazione con lo studio della lingua e della letteratura greca sotto la guida del canonico Emanuele de Lubelza, ex gesuita di Cadice. A ventisei anni, nel 1831, a seguito dei ben noti episodi di ribellione divenne segretario del Comitato rivoluzionario di Savignano e scrisse manifesti in favore del movimento al quale partecipò attivamente. Restaurato tuttavia l’ordine antico – per cui anche Savignano divenne «nido vil di papalini» (Meriano, 1920) –, fu arrestato e solo in seguito all’intercessione del suo maestro Borghesi riuscì a evitare il carcere e trasformare la pena in una sorta di domicilio coatto nella stessa Savignano. Da quel momento le sue energie e il suo tempo furono dedicati quasi esclusivamente agli studi di ‘lettere e antichità’ e a una sempre più stretta frequentazione di Borghesi che, pur risiedendo abitualmente a San Marino, si recava spesso a Savignano, se non altro per le attività dei Filopatridi.
Nel 1835, a Savignano, Rocchi si unì in matrimonio con Edvige Bertozzi, dalla quale ebbe Maria (1837), Luigi (1843) e Giulio (1846), seguiti da un quarto figlio morto alla nascita nel 1849.
Quando nel 1847 venne a mancare Girolamo Bianconi, titolare della cattedra di archeologia e numismatica presso l’Università di Bologna, si pensò di rivolgersi, per la sua sostituzione, a Borghesi. Il ‘grande vecchio’ dal suo ‘romitaggio di S. Marino’, pur profondamente grato, non accettò considerandosi ormai troppo anziano (aveva 67 anni), ma non esitò a suggerire Rocchi, che divenne così professore nell’Università di Bologna dove si trasferì stabilmente.
Nel 1850, soltanto tre anni dopo la sua chiamata, avendo aderito ai movimenti del 1848, fu sospeso per sette mesi dal ruolo di professore e in seguito tenuto lontano da incarichi istituzionali per diversi anni. Con il tempo, tale ostilità si attenuò ed egli entrò a pieno titolo a far parte della vita culturale e civile dell’Università e della città. Cessato il dominio dello Stato pontificio, in perfetta coerenza con la sua impostazione politica, fu tra i pochi a giurare subito fedeltà al re dell’Italia unita. Tra il 1868 e il 1871, inoltre, fu preside della facoltà letteraria bolognese.
Come professore dell’Università di Bologna cominciò subito a dedicare molta attenzione alle scoperte e ai problemi archeologici della città e della regione con particolare riguardo a quelli di età romana. Se per l’archeologia romana Rocchi mostrò di essere in sintonia con le posizioni scientifiche più aggiornate, per quanto riguarda invece la fase preromana, che per Bologna e il suo territorio significava soprattutto fase etrusca, le sue posizioni erano ancora lontane dal fervore innovativo che proprio in quegli anni si andava affermando. In una lezione «sopra le antichissime origini della città» dedicata a Giovanni Gozzadini e a sua moglie Maria Teresa di Serego Alighieri, dei quali era molto amico, in occasione delle nozze della loro unica figlia avvenute nel 1865, pur essendo già in atto importanti scoperte archeologiche, si limitò a una lunga digressione solo sulle fonti scritte ostentando la sua fedeltà al ‘metodo storiografico’ con un atteggiamento fortemente conservativo rispetto alle novità dell’archeologia. Ma fu soprattutto nel campo dell’epigrafia latina che ottenne grande considerazione in ambito nazionale e internazionale. Quando Abel-François Villemain, ministro dell’Istruzione pubblica di Luigi Filippo, progettò di pubblicare in Francia un Corpus delle iscrizioni latine e si affidò ad Adolfo Noël Des Vergers, questi venne subito in Italia a cercare Francesco Rocchi. Con la morte del ministro che l’aveva ideata, l’iniziativa francese si arenò; tuttavia, venne subito ripresa dall’Accademia di Berlino e affidata a Theodor Mommsen che, assieme a Wilhelm Henzen, non esitò a rivolgersi a Borghesi per ricevere consigli e suggerimenti, ma anche a Rocchi il quale già stava lavorando alla schedatura delle iscrizioni latine di alcune aree contigue delle Regioni VI (Umbria), VII (Etruria) e VIII (Aemilia).
Le schede che Rocchi aveva raccolto e che aveva intenzione di pubblicare (oltre 4000) furono poi da lui stesso generosamente cedute a Eugen Bormann al quale era stato affidato l’incarico ufficiale di preparare l’undicesimo volume del Corpus Inscritionum Latinarum (CIL) riguardante appunto le Regioni VI, VII e VIII e che in vista di questo gravoso compito aveva subito preso contatto con lui. Nel 1874 Bormann lo propose come membro ordinario dell’Instituto di corrispondenza archeologica del quale era già membro corrispondente (1845), con una motivazione tanto schietta quanto insolita: «perché mi ha dato tutto il materiale che aveva».
In veste di professore di archeologia e numismatica dell’Università di Bologna Rocchi fu anche direttore del museo antiquario dell’Università, erede della ‘Stanza delle antichità’ dell’Istituto delle scienze fondato da Luigi Ferdinando Marsili, e ne compilò il primo inventario generale consegnato a Roma nel 1874.
Sotto la sua direzione il museo incrementò la funzione di luogo ove far confluire le ‘patrie memorie’, ovvero i materiali della città e del territorio, anche se poi di lì a poco il museo universitario, unitamente con la Collezione Palagi, le Collezioni comunali e, soprattutto, i materiali dei nuovi scavi della Bologna etrusca, confluì nel Museo civico archeologico inaugurato nel 1881, inteso come unico grande ‘archivio’ per la storia della città.
Sul piano della tutela va ricordato il suo impegno fortemente innovativo nella Commissione ausiliaria di antichità, articolazione locale della Commissione generale consultiva di antichità e belle arti prevista dall’editto Pacca (1820) per una più efficace tutela dei beni culturali, sia archeologici sia storico-artistici. All’interno di tale consesso Rocchi non esitò a stigmatizzare l’inefficacia e la sterilità di un atteggiamento rigido e burocratico che provocava solo diffidenza, auspicando al contrario un rapporto di fiduciosa collaborazione con i proprietari dei terreni nei quali si facevano le scoperte.
Altro ambito nel quale la competenza scientifica si coniugava all’impegno civile fu la sua intensa attività nella Deputazione di storia patria per le province di Romagna. Istituita, assieme a quelle di Modena e Parma, il 10 febbraio 1860 con decreto del governatore delle R. province dell’Emilia Luigi Farini – sulla base del presupposto che «nella storia del passato sono gli elementi della civiltà futura di un popolo» (Decreto istitutivo della Deputazione) –, essa divenne immediatamente un punto di riferimento essenziale per la raccolta, lo studio e la riflessione critica sui documenti del passato con particolare riguardo a quelli archeologici in un’ottica squisitamente risorgimentale che attraverso il recupero della ‘storia’, latamente intesa, mirava alla ricostruzione di una solida identità nazionale sul piano della cultura, a sostegno e a rinforzo di quella politica appena acquisita. Giovanni Gozzadini ne fu il primo presidente e Rocchi vicepresidente, fino alla sua morte, oltre che membro molto attivo.
In ragione delle sue competenze sia letterarie sia epigrafiche gli fu affidato dall’Amministrazione comunale l’incarico di «revisore delle epigrafi, segnatamente quelle che si pongono ai sepolcri nel Cimitero Comunale» (Marcacci, 2002) allo scopo di evitare errori, ma soprattutto distorsioni o improprietà nel linguaggio sul piano sia formale sia sostanziale. A questo compito di revisore si affiancò anche quello di confezionatore di epigrafi commemorative che gli venivano commissionate da privati o da enti, istituzioni o società per avvenimenti speciali. A livello cittadino tutto ciò gli diede paradossalmente una rinomanza forse superiore a quella di cui godeva per le sue benemerenze scientifiche e professionali.
Morì a Bologna il 23 maggio 1875. Nel 1893 il figlio Luigi (detto Gino) – dopo avere insegnato letteratura italiana all’Istituto tecnico Pier Crescenzi – fu chiamato a coprire l’insegnamento di antichità all’Università di Bologna.
Fonti e Bibl.: G. Carducci, F. R., in Gazzetta dell’Emilia, 24 maggio 1875a; Id., Commendatore prof. F. R., in Ordine degli studi nella r. Università di Bologna. Anno accademico 1875-76, Bologna 1875b, pp. 63-68; G. Pelliccioni, Discorso del professor Pelliccioni ai funerali dell’illustre F. R., in Gazzetta dell’Emilia, 26 maggio 1875; Id., F. R., in Pantheon di Bologna, Bologna 1881, pp. 171-176; G. Gasperoni, Per F. R. e Francesco Vendemini (commemorazione e appendice di lettere inedite), Imola 1911; F. Meriano, Maestri dello Studio bolognese: F. R., in La vita cittadina. Rivista mensile di cronaca amministrativa e di statistica del Comune di Bologna, 1920, gennaio, pp. 1-6; A. Donati, Maestri dell’Ateneo e antiche scritture, in Il contributo dell’Università di Bologna alla storia della città: l’evo antico, Atti del 1° convegno... 1988, a cura di G.A. Mansuelli - G. Susini, Bologna 1989, pp. 323-332; E. Weber, L’impresa epigrafica di Eugen Bormann, ibid., pp. 333-340; A.R. Marcacci, F. R. e il municipio di Bologna, in Il Carrobbio, XXVIII (2002), pp. 167-174.