ROSI, Francesco
– Nacque a Napoli il 15 novembre 1922 da Sebastiano, direttore al porto di un’agenzia marittima privata, e da Amelia Caròla.
Il padre coltivava la passione per il disegno, la fotografia e il cinema: fu apprezzato caricaturista (con il nomignolo Rosy) per alcuni giornali locali come Il Re di danari o il Monsignor Perrelli; con una cinepresa a passo ridotto Pathé Baby nel tempo libero proiettava filmati che sincronizzava con la radio o il grammofono; inoltre, nello sgabuzzino attrezzato che aveva in casa, sviluppava i negativi, stampava e colorava a mano le foto, molte delle quali vennero utilizzate per manifesti pubblicitari o vinsero premi specializzati.
Nato a via Montecalvario nella popolare zona dei ‘quartieri spagnoli’, l’amore per il cinema gli fu trasmesso dalle frequentazioni, in compagnia del padre e di alcuni zii, del Maximum, nei pressi dell’elegante viale Elena dove si trasferì la famiglia, sala dove Rosi venne indelebilmente segnato dalla proiezione de Il monello di Charlie Chaplin accompagnato dal vivo al pianoforte.
Dopo avere conseguito la maturità classica presso il liceo Umberto I si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, abbandonandola quando gli mancavano nove esami alla laurea. Negli stessi anni, insieme agli ex compagni di scuola Maurizio Barendson, Achille Millo, Giuseppe Patroni Griffi e Antonio Ghirelli, tutti come lui di sentimenti antifascisti e destinati a diventare apprezzati professionisti, frequentò il circolo cinematografico e quello teatrale fascisti (Cineguf e Teatroguf), anche se la passione più intensa la nutrì per il cinema americano e i suoi divi Wallace Beery, Fred Astaire, James Cagney, George Raft o Clark Gable.
Il proposito di iscriversi al Centro sperimentale di cinematografia fu frustrato dalla chiamata alle armi nel 1943: arruolato nel corso allievi ufficiali presso il Settimo autocentro, fu sorpreso dall’annuncio dell’armistizio, l’8 settembre, mentre era in missione a Mondovì. Cercò con un gruppo di ex commilitoni di scendere al Sud, ma fu prima arrestato dai tedeschi in fuga, poi rilasciato in Toscana e infine ospitato clandestinamente, per brevi o lunghi periodi, da antifascisti, come i parenti dell’amico Mario Ferrero, anch’egli futuro regista, grazie ai quali entrò in contatto con il Partito d’Azione e fraternizzò con uno dei leader del Comitato di liberazione nazionale, l’insigne critico d’arte Carlo Ludovico Ragghianti. Solo dopo la liberazione di Firenze da parte degli inglesi riuscì a tornare a Napoli e a ricongiungersi con la famiglia, che non aveva sue notizie da mesi.
Nell’inverno tra il 1946 e il 1947 si trasferì prima a Milano, dove lavorò brevemente come vignettista al quotidiano Milano Sera, e poi a Roma. Qui il suo concittadino Ettore Giannini, ritenuto all’epoca il grande innovatore del teatro nazionale, che aveva conosciuto a Radio Napoli quando era ancora controllata dall’esercito americano, lo volle come assistente alla regia di ’O voto di Salvatore Di Giacomo. Segnalato a Luchino Visconti, fu ingaggiato dal regista milanese insieme a Franco Zeffirelli per assisterlo, dall’ottobre 1947 al maggio dell’anno seguente, nella complicata lavorazione di La terra trema, capolavoro del neorealismo interamente girato in Sicilia, a cui furono chiamati a partecipare gli abitanti, soprattutto pescatori, di Aci Trezza. L’apprendistato continuò tuttavia a lungo: «Dopo La terra trema sarei stato sicuramente in grado di dirigere un film. Ma allora c’era molto rispetto per la carriera, che doveva cominciare conoscendo il cinema sul campo. Ero pronto, ma non volevo. Non ancora. Volevo avere le idee ancora più chiare» (Rosi, 2012, p. 64). Prima che l’emergente Franco Cristaldi, titolare della Lux-Vides, accettasse di produrre La sfida (1958) fu, infatti, assistente alla regia di Luciano Emmer, Raffaello Matarazzo, Michelangelo Antonioni, Mario Monicelli, Vittorio Gassman (la cui prima moglie, Nora Ricci, fu per dieci anni compagna di Rosi e madre della figlia Francesca, nata nel marzo 1954 e affetta dalla sindrome di Down). Lavorò come assistente anche di Giannini e Visconti per due cult movie come Carosello napoletano (1953) e Senso (1954), collaborò alla sceneggiatura di Parigi è sempre Parigi (di Emmer, 1951), Bellissima (di Visconti, 1951), Racconti romani (di Gianni Franciolini, 1955), Il bigamo (di Emmer, 1955) e Kean, genio e sregolatezza (di Gassman, 1957), mentre nel 1952 portò a termine Camicie rosse dopo che Goffredo Alessandrini ne aveva abbandonato la regia per dissidi con la produzione.
La sfida, sceneggiato con Suso Cecchi D’Amico ed Enzo Provenzale, venne accolto con grande favore dalla critica internazionale e vinse il Premio speciale della giuria ex aequo con Les amants di Louis Malle alla XIX Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Del film fu evidenziata in particolare la compattezza stilistica con cui il racconto della rapida ascesa e della rovinosa caduta del giovane boss Vito Polara (ispirato a un fatto di cronaca nera accaduto negli ambienti del mercato ortofrutticolo partenopeo) procede in bilico tra profondo vigore realistico ed epica noir senza tempo. Mentre in I magliari, uscito l’anno seguente e meno fortunato nei risultati commerciali e critici, lo straripante protagonismo di Alberto Sordi caratterizza la miscela di dramma e grottesco con cui il film riprende il leitmotiv della lotta tra il vecchio e il nuovo boss trapiantandolo, però, nel giro paramafioso dei venditori di stoffe false nella rinata Germania del dopoguerra.
Nel corso delle riprese del film ad Amburgo approfondì la relazione con Giancarla Mandelli, sorella della futura stilista Krizia, che sposò nel gennaio del 1964 e dalla quale ebbe l’anno seguente la figlia Carolina, in seguito attrice cinematografica, teatrale e televisiva. La separazione dalla Ricci fu resa complicata dai bisogni di cura della figlia; a colpire definitivamente i due genitori, tuttavia, fu la morte della ragazza nel corso di un incidente in cui fu coinvolta l’auto guidata dal regista, rimasto a sua volta gravemente ferito, il 18 gennaio 1969.
Salvatore Giuliano (1962), girato tra notevoli ostacoli e ripetute intimidazioni nelle location siciliane dove il famoso bandito era nato, aveva spadroneggiato per sette anni ed era morto in circostanze mai chiarite, si sviluppa attraverso una serie di episodi e qualche flashback che tracciano più che la biografia del protagonista, una ‘controstoria’ della Sicilia dal 1943 al 1960.
Nella pellicola si fondono le cadenze del thrilling con il piglio documentaristico del film-inchiesta: gran parte delle sequenze, dall’iniziale ritrovamento del cadavere di Giuliano all’immagine conclusiva che rimanda alla continuità dell’emergenza mafiosa, simulano una ripresa d’attualità e nello stesso tempo rafforzano il timbro epico espresso dal montaggio incalzante, la straordinaria fotografia in bianco e nero di Gianni Di Venanzo e la coesione del cast composto da professionisti ed esordienti presi dalla strada. Il film fu premiato con l’Orso d’argento al XII Festival di Berlino nonché insignito di tre Nastri d’argento, una Grolla d’oro e il premio San Fedele assegnato dalla stampa estera, ma soprattutto – anche grazie ad acmi drammatiche come quelle della strage di Portella della Ginestra, il pianto della madre sul cadavere del bandito, il processo di Viterbo ai mafiosi e l’avvelenamento in carcere del luogotenente della banda Gaspare Pisciotta – fu subito quasi unanimemente considerato una pietra miliare del nuovo cinema italiano.
Meno unanime fu l’accoglienza riservata al successivo Le mani sulla città (1963), che tuttavia procurò a Rosi una messe ancora più prestigiosa di premi, tra cui il Leone d’oro alla XXIV Mostra di Venezia.
Da un soggetto ideato insieme all’amico scrittore Raffaele La Capria e sceneggiato con la collaborazione di Enzo Forcella ed Enzo Provenzale, il film scolpisce la diabolica figura del costruttore napoletano Nottola, interpretato da un grandioso Rod Steiger, che riesce a usare le divisioni interne al partito di destra alla guida del governo locale per perseguire le sue mire di speculazione edilizia. Gli espliciti e veementi riferimenti alla controversa stagione del sindaco Achille Lauro, agli intrallazzi immobiliari che diedero vita al cosiddetto sacco della città e all’opposizione, sin troppo idealizzata, del Partito comunista italiano non arrivano a inficiare, come sembrò a una piccola ma agguerrita parte della critica coeva, la qualità dell’opera. Tecnica e stile del film, infatti, traggono linfa dalla dialettica tra i dati cronistici, i sentimenti indignati e la tensione dei capolavori d’azione e gangsteristici all’americana. Il suo modo di fare cinema, in effetti, fu in sintonia con lo spirito delle campagne giornalistiche svolte da periodici d’orientamento laico e radicale come Il Mondo e L’Espresso.
L’uscita di Il momento della verità (1965) e C’era una volta (1967), preceduti dal successo ottenuto a teatro con la messinscena di In memoria di una signora amica (1963) di Giuseppe Patroni Griffi, dimostrarono che il cineasta napoletano era in grado di esercitare il talento su una vasta gamma di soggetti.
Il primo film, amara parabola di un ragazzo andaluso che cerca il riscatto sociale diventando un torero di fama, scontò un eccesso di sociologia e di retorica; mentre il secondo, liberamente ispirato alle favole seicentesche narrate da Giambattista Basile in Lo cunto de li cunti, disorientò i cinefili, ma divertì il pubblico per l’originale e arioso senso del fantastico con cui fa duettare Sophia Loren e Omar Sharif.
Superato il periodo di depressione causato dalle ferite fisiche e psicologiche riportate in seguito all’incidente in cui aveva perduto la prima figlia, diresse Uomini contro (1970).
Girato tutto a ottocento metri d’altitudine in Cadore e tratto dal romanzo antimilitarista Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu (Parigi 1938), il film è importante non solo per come rievoca la partecipazione italiana alla prima guerra mondiale, evidenziando al di là della retorica ufficiale i contrasti di classe tra ufficiali e truppa e la crudeltà efferata della guerra di trincea, ma anche perché segnò l’incontro con un attore straordinario come Gian Maria Volonté e quindi l’inizio di una collaborazione amicale e professionale destinata a estendersi e potenziarsi nonostante le discordanti opinioni politiche. Nell’eccezionale rapporto tra i due serpeggiò sempre qualche battagliero dissenso dovuto alle simpatie di Volonté verso l’estremismo della sinistra extraparlamentare e all’adesione di Rosi alla sinistra tradizionale.
Gli anni Settanta segnarono il clou dell’operosità, dell’autorevolezza, della fama internazionale di Rosi, favorite dal carattere esigente e decisionista, dal rapporto con un produttore illuminato come Cristaldi e dalla fitta rete di frequentazioni importanti. Particolarmente significativi i legami che ebbe con i protagonisti – Federico Fellini in primis – del milieu cinematografico, intellettuale e politico romano, incentivati dall’esorbitante personalità della moglie che gestiva anche negozi di pret-à-porter di gran voga.
Come ha colto, del resto, perfettamente il collega e amico Giuseppe Tornatore nel suo fondamentale libro-intervista: «Siamo in una fase in cui la tua carriera ha un’impennata clamorosa [...]. Non ti fermava nessuno. A differenza dei primi anni, in cui c’era ancora qualche problema per mettere in piedi i film, adesso il vento era cambiato. Il pubblico, il cinema, il mercato, la produzione, ti sono venuti dietro. È l’epoca in cui puoi fare esattamente ciò che vuoi» (Rosi, 2012, p. 317).
In Il caso Mattei (1972), Palma d’oro ex aequo al festival di Cannes di quell’anno, ricostruì con un insolito ed elaborato montaggio di materiali di repertorio, interviste e persino un intervento personale, il presunto giallo legato all’opera e alla morte del presidente dell’ENI che cercò la collaborazione con gli arabi e i sovietici indispettendo le multinazionali del petrolio egemonizzate dal governo statunitense. In Lucky Luciano (1973) affrontò i lati oscuri del mito del famigerato gangster siculo-americano, riuscendo a equilibrare la sottigliezza dell’analisi sociopolitica con il virtuosistico protagonismo di Volonté. Con Cadaveri eccellenti (1976), trasposizione di Il contesto di Leonardo Sciascia (Torino 1971), offrì al pubblico una versione metafisica e dechirichiana della complottistica interpretazione degli attentati, del terrorismo e dei depistaggi che funestavano il decennio, suggerita dallo scrittore. Nel 1979 girò, inoltre, la trasposizione televisiva di 270 minuti (ridotti a 150 nella versione per le sale) del romanzo autobiografico di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli.
Nonostante le grandi interpretazioni di Volonté e Paolo Bonacelli e le commoventi performances della gente del luogo arruolata nel cast, l’esito non fu del tutto compiuto, soprattutto per via dello schematismo ideologico alquanto prevaricante rispetto alla dimensione antropologica e magica cara allo scrittore e pittore torinese confinato dal fascismo nell’eremo lucano di Aliano.
Notoriamente vicino al Partito socialista, ma senza prenderne mai la tessera, il regista non fece mistero della distanza che lo separava dall’estremismo che si era molto accreditato sia in corrispondenza del movimento del Sessantotto, sia nel decennio successivo: «Ho vissuto il ’68 con estremo interesse e anche emozione senza, tuttavia, mai nascondermi i pericoli di certi entusiasmi [...]. Ci fu un uso dei contestatori, una esaltazione acritica del loro ‘spontaneismo’ che di lì a poco si sarebbe mutato in pazzia [...]. Sì, certa rivolta giovanile era una risposta alla corruzione che ci circonda e che, sempre più, si modellerà su un’immagine di affermazioni consumistiche. Ma l’unico patrimonio che possediamo è la ragione e, quindi, la difesa della democrazia» (Bolzoni, 1986, pp. 34 s.). Una parte di queste posizioni di taglio riformista emergono in Tre fratelli (1981), che guadagnò la nomination all’Oscar per la categoria del miglior film straniero, liberamente tratto – in collaborazione con l’affiatato Tonino Guerra – da un racconto di Andrej Platonov. Il lavoro si distacca dal collaudato modello del film-inchiesta e si propone come apologo sulla memoria, il tempo e l’oscuro presente: ruotando, infatti, le vicende di tre personaggi emblematici sul nucleo tematico della fine della civiltà contadina, il regista rivela il proprio profondo disagio di fronte all’impossibilità di effettuare categoriche scelte in ambito etico ed esistenziale ancora più che politico.
Nel 1984, implicito omaggio a Visconti, realizzò un’incursione nel cinema operistico con una versione della Carmen di Bizet, facendo recitare, però, con una felice intuizione, i cantanti Placido Domingo, Julia Migenes-Johnson e Ruggero Raimondi nel plein air di una Spagna realistica e assolata. In seguito, un sopravvenuto travaglio creativo arrivò a sbloccarsi solo grazie al sincero e lacerato ritorno nella città natale alla ricerca delle radici di Diario napoletano (1992), documentario prodotto da RAI Tre e penultimo titolo della filmografia. Infatti Cronaca di una morte annunciata (1987), inerte e disomogenea trasposizione del romanzo dell’amico Gabriel García Márquez, il sontuoso ma didascalico Dimenticare Palermo (1990) e La tregua (1997), tratto con sorprendenti impacci dal già di per sé frammentario libro-culto di Primo Levi, non riuscirono a fronteggiare l’affievolimento del segno cinematografico, indotto anche dal noto e intransigente controllo autocritico.
Gli ultimi anni furono scanditi da una serie impressionante di premi e onorificenze, tra cui vanno ricordati almeno l’Orso d’oro e il Leone d’oro alla carriera assegnatigli nel 2008 e nel 2012 dal Festival di Berlino e dalla Mostra di Venezia, gli innumerevoli David di Donatello (tra cui quello speciale del cinquantenario nel 2006) e Nastri d’argento, i titoli di cavaliere di Gran Croce, grande ufficiale dell’Ordine al merito del presidente della Repubblica e cavaliere della Legion d’Onore dell’Accademia di Francia nonché le lauree honoris causa assegnategli dalle Università di Padova, Torino, Reggio Calabria e i dottorati in arti e lettere rispettivamente conseguiti al Middlebury College negli Stati Uniti e all’Università Sorbonne di Parigi. Nello stesso periodo tornò anche alle giovanili esperienze teatrali, mettendo in scena tra il 2003 e il 2008, con lusinghieri riscontri ed esteso successo, Napoli milionaria!, Le voci di dentro e Filumena Marturano di Eduardo De Filippo per la compagnia di teatro del figlio di quest’ultimo, Luca, da oltre vent’anni prima compagno e poi coniuge di sua figlia Carolina.
Il destino, però, gli riservò la seconda e definitiva disgrazia della sua vita l’8 aprile 2010, quando l’adorata moglie Giancarla, già affetta dal morbo di Alzheimer, morì per le devastanti ustioni riportate in seguito a un banale incidente domestico: «Non riesco a togliermela di mente. Ce l’ho sempre davanti agli occhi [...]. Mi manca molto. Per l’intelligenza, l’humour, il modo molto personale che aveva di vivere tutto [...]. Eravamo complementari» (Rosi, 2012, p. 237). Sebbene fiaccato nel fisico, Rosi non perse mai la fierezza e la curiosità, intervenendo spesso in cerimonie e convegni, esequie di grandi colleghi o assemblee di giovani appassionati di cinema e avidi di sentirlo parlare delle avventure vissute grazie al suo mestiere.
Si spense serenamente a Roma nella celebre casa-studio di via Gregoriana il 10 gennaio 2015.
La cerimonia funebre, di due giorni, ebbe luogo presso la Casa del cinema di Villa Borghese alla presenza, tra una folla di amici, colleghi e cinefili, del presidente della Repubblica e vecchio sodale del gruppo napoletano dei ‘ragazzi di Chiaia’ Giorgio Napolitano.
Fonti e Bibl.: Protagonista di un’ingente bibliografia internazionale, Rosi ha anche il privilegio di essere raccontato da due tra i più importanti libri di cinema italiani. Il primo, quasi all’inizio della carriera, è il diario delle riprese di Salvatore Giuliano scritto da un giovane giornalista che diventerà uno dei maestri della critica italiana: Tullio Kezich, Salvatore Giuliano, Roma 1961 (in seguito variamente ripubblicato e rielaborato dall’autore, cfr. T. Kezich, Trent’anni fa ‘Salvatore Giuliano’: Rosi denuncia ancora, in Corriere della sera, 2 agosto 1991); il secondo, quasi alla fine della vita, è la ricostruzione della sua carriera fatta nel corso di dettagliati colloqui con uno dei suoi più prestigiosi discepoli: F. Rosi, Io lo chiamo cinematografo. Conversazione con Giuseppe Tornatore, Milano 2012. La monografia di Michel Ciment, Le dossier Rosi, Paris 1976, restò a lungo l’unica fonte esaustiva a disposizione degli studiosi, nonché la testimonianza dell’eccezionale stima che Rosi riscosse, sin dagli inizi della carriera, in Francia. Certamente dettagliate e professionali, le monografie G. Ferrara, F. R., Roma 1965; S. Zambetti, F. R., Firenze 1976; F. Bolzoni, I film di F. R., Roma 1986, appaiono oggi alquanto obsolete per la riduttiva lettura del suo cinema nell’ottica della requisitoria ideologica, mentre sembrano resistere meglio al tempo il libro dell’italianista francese J. Gili, F. R.: cinéma et pouvoir, Paris 1976 e l’intervista pubblicata in A. Tassone, Parla il cinema italiano, I, Milano 1979, pp. 263-307. Tra le storie e le enciclopedie del cinema, che dedicano tutte ampio spazio alla disamina della sua opera, ci si limita qui a segnalare gli aggiornamenti esegetici e bibliografici reperibili in G.P. Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da “La dolcevita” a “Centochiodi”, Roma-Bari 2007. Sul suo ricorrente tornare nella città natale cfr. T. Fiore, Non arrendiamoci per non morire, in Il Mattino, 9 agosto 1992, p. 11. Un notevole apporto bibliografico è dovuto anche al documentario Il cineasta e il labirinto diretto da Roberto Andò e prodotto dal Centro sperimentale di cinematografia-Cineteca nazionale nel 2002 e soprattutto agli inestimabili documenti di prima mano forniti dallo stesso Rosi grazie al deposito del proprio archivio presso il Museo nazionale del cinema-Fondazione Maria Adriana Prolo di Torino, per la cui consultazione si rinvia a http://www.museonazionaledelcinema.it/collezioni/Rosi.aspx?%7C=it/.