CAMILLI, Francesco Saverio
Nato il 13 ag. 1753 a Beffi di Acciano (L'Aquila), allora in provincia dell'Abruzzo, Ulteriore II, da famiglia "borghese" relativamente benestante di proprietari terrieri (nel 1789 un Berardino Camilli è acquirente di terreni ex feudali), ebbe in provincia la tipica educazione letteraria classicheggiante di tanti intellettuali del suo tempo. Una formazione che non tardò a dare i suoi frutti, procurandogli la cattedra di lingua greca e lettere umane, poi di lingua greca e latina superiore, presso il R. Collegio dell'Aquila, dove si trasferì nel 1788.
Il collegio, già retto dai gesuiti prima del 1767 e riaperto nel 1785, era allora una vera e propria istituzione a livello universitario, dove il C. ebbe per colleghi Giuseppe Liberatore, medico di fama e umanista, Francesco Masci e il marchese Giovanbattista Dragonetti, il quale nella sua posizione di sovrintendente di quelle scuole, di animatore della classe dirigente locale e di uomo influente anche presso l'amministrazione centrale a Napoli, avrebbe di lì a poco introdotto l'amico nell'ambiente della capitale. Per tutto l'ultimo decennio del secolo, infatti, la vita del C. è divisa tra l'Aquila e Napoli, tra l'insegnamento e l'opera, anch'essa di promozione e istruzione, all'interno della locale Società patriottica guidata dal De Torres e dal Dragonetti da un lato, e la sempre più frequente opera prestata a Napoli a latere del Supremo Consiglio delle finanze, dove essa è conosciuta e stimata dai suoi massimi reggitori, dal Corradini al Palmieri, dall'altro.
A partire dalle prime perorazioni presso il governo di cui si fa portavoce in qualità di "procuratore delle università della provincia dell'Aquila", questa attività continua del C. di sollecitazione dello Stato in direzione del soddisfacimento di esigenze fortemente avvertite dai più disparati ceti sociali del suo Abruzzo, se lo caratterizza sempre più come voce autorevole che va ascoltata ogni qualvolta quelle esigenze sono in discussione, lo spinge anche a precisare i suoi interessi culturali. Ferma restando la base umanistico-erudita (che sarà poi quella che gli varrà la lusinghiera citazione del Mommsen), in primo piano emergono sempre più alcuni problemi economici di fondo nel rapporto tra lo Stato borbonico e le province, tra una capitale-monstre e le campagne depresse e degradate. Meno Ovidio e Plinio saranno allora le sue letture, e molto di più gli scrittori mercantilisti stranieri e della tradizione napoletana, sino alle opere avidamente lette ed ammirate di Giuseppe Palmieri che venivano pubblicate proprio in quel periodo. E significativamente egli indirizzerà nel '92 i giovani "ad impiegare i loro talenti nella pubblica Economia lasciando il foro".
La prima questione al centro dell'esperienza nuova del C., che lo vedrà impegnato dal 1790 al '95, fu quella dei criteri da seguire nell'intrapresa costruzione delle strade nella sua regione. La dissertazione Sula regia strada da costruirsi per l'Abruzzo ultra (Aquila 1790), inviata prima manoscritta al Supremo Consiglio che ne favorì poi la pubblicazione, è singolare testimonianza di cultura classica ed archeologica notevole posta al servizio di un interesse pratico. L'attenta e documentata rivalutazione del ruolo avuto in epoca romana dalla valle subequana come punto d'incontro del ramo della via Salaria discendente lungo l'Aterno sino a Corfinio, con la Valeria proveniente dalla Marsica, appare funzionale alla riproposta della storica "via degli Abruzzi" fra le conche di Sulmona e Aquila. Si trattava di scegliere tra questo tracciato, di cui il C. si sforza di mostrare l'agevolezza, il minor costo e soprattutto il ruolo di catalizzatore di un indifferibile processo di creazione di un mercato allargato al contado aquilano, al Cicolano, a tutta la "Vallata", alla Marsica e aperto verso Napoli, lo Stato pontificio, le zone costiere abruzzesi, sino alla Puglia; e quello che voleva la strada più a nord, per Popoli e Collepietro, strada "né antica, né de' iempi di mezzo, ma bensì presa provisionalmente dal Procaccio, e sostenuta per privati interessi" di un potente baronaggio, ma non suscettibile di alimentare tutta l'economia locale (Memoria aggiunta alla dissertazione in cui si dimostra che la nuova strada da costruirsi da Sulmona all'Aquila per Rajano sia la più breve, la più agiata e facile, e la più centrale della provincia, e che fu un ramo di via antica, il quale univa la Valeria alla Salaria nella Piana di Sulmona e Corfinio, s.l. 1791, pp. 12 s.).
A sostegno delle sue tesi il C. premette molto a Napoli, in costante contatto con la centrale Giunta delle strade, soprattutto nel corso del 1791: senza successo in verità, come si vedrà poi dal tracciato effettivamente seguito. Ma è importante rilevare che il C. nella successiva anonima Memoria sull'amministrazione de' fondi delle R. strade degli Abruzzi (Napoli 1792) metterà esplicitamente sotto accusa il sistema amministrativo degli appalti generali seguito dal governo nelle costruzioni (mentre nello stesso anno perfino Melchiorre Delfico premeva per "restringersi" il caso della strada d'Abruzzo). Erano le lentezze nel portarne avanti la realizzazione, da Venafro a Castel di Sangro, a Sulmona, finalmente verso l'Aquila; le rimostranze contro i partitari che per la loro "irreparabile impotenza" non riuscivano a pagare operai e trainanti; le carenze nella manutenzione degli stessi tratti compiuti: era cioè un forte malcontento locale lo sfondo che consentiva al C. di attaccare la passata direzione tecnica dei Pigonati, esonerato nel 1790, e quella attuale del Carpi. Ma, partendo da questi motivi municipalistici, il C. riusciva a denunciare acutamente la realtà complessiva di un'economia regionale in crisi, pur interpretandola in chiave rigidamente mercantilista di ritorno. Per dirla con le stesse parole con cui in data 8 luglio 1793 egli si rivolgerà al sovrano, "il danno che nella costruzione di quelle strade ha ricevuto il pubblico e lo Stato dal sistema finora tenuto di far grandi partiti, e le subaste nella capitale, e dal non aver avuto la minima ingerenza quei provinciali interessati nell'opera" si è riverberato su una società civile già esangue, impoverendone ancora la vita economica attraverso la sistematica fuoriuscita di capitali altrimenti vitali per l'agricoltura "chè la sorgente di ogni ricchezza". La sottolineatura della carenza di liquidità, di "numerario", è qui non solo denunciata, dal C. come da tanti altri, ma è vista come risultante di un meccanismo operante sullo squilibrio strutturale tra l'area napoletana e le province; uno squilibrio esaminato principalmente in rapporto all'accaparramento degli appalti da parte dei "monopolisti della capitale e del suo contorno", ma talora riscontrato anche ad altri livelli, ad esempio dei mercati granari. Assume un valore generale la conclusione - nell'opera migliore del C. - che la moneta "manca nelle province dove porterebbe il massimo profitto, e si riunisce tutta nella capitale dove o rimane quasi infruttifera, o il lusso la straregna per l'estere manifatture" (L'utilità della costruzione delle pubbliche strade per tutto il Regno di Napoli dimostrata col calcolo della spesa, Napoli 1793, p. 4).
La discussione che si aprì su questi temi fu significativa, vedendo contrapposti centro e periferia, Giunta degli ingegneri e Società patriottica, anche su aspetti più particolari (cfr. le anonime, ma probabilmente del C., Ragioni in sostegno del progetto della Società patriotica dell'Aquila contra il progetto della Giunta direttrice delle R. strade intorno ai provvedimenti da darsi per la ruina di un ponte, di buona parte del R. tratturo, e della successiva R. strada nel locale di Codalonga in distretto della detta città, Aquila 1795), con la mediazione di un Supremo Consiglio delle finanze oscillante e diviso. A suscitare la maggior reazione, fu la proposta riforma amministrativa volta a decentrare la gestione dei fondi destinati alle strade; mentre la disamina dei fattori deflattivi venne abilmente deviata. La Giunta (Antonio Winspeare, G. Capri, L. Iaccarino) si limitò ad accettare l'intervento delle locali società (peraltro, si pre cisava, altra cosa dalle francesi intendenze!) ma in chiara funzione subalterna di copertura, a proporre qualche economia, ad impegnarsi per render più spedita l'esecuzione delle opere. Ben poco venne recepito del ruolo propulsivo assegnato dal C. alla costruzione delle strade, dell'importanza decisiva da lui sottolineata del commercio interno per la prosperità di una nazione in quanto fattore di mobilitazione delle risorse dell'agricoltura.
In realtà in quello scorcio di fine secolo i margini concessi ad un'azione riformista nel Regno venivano com'è noto sempre più restringendosi, in riferimento sia al ciclo economico da tempo mutato, sia agli sviluppi politici. Questo andamento segna anche la vicenda del Camilli. Amaramente cosciente della parte giuocata dalla stessa mancata prosecuzione delle strade avviate nell'aggravare la condizione delle province a vantaggio, relativo, della capitale, la disillusione provata ne facilitò lo scivolamento verso il disimpegno e la chiusura municipalistica. Continuò a soggiomare a Napoli, in particolare nell'autunno del 1797, ma anche l'attività di maggior rilievo da lui dispiegata in quegli anni, e cioè l'appoggio al piano del Vivenzio per la transazione del dazio o "fida delle pecore rimaste" in Abruzzo, appare debole e scoraggiata, priva di respiro e di prospettiva (cfr. la Memoria sui danni apportati allo Stato ed al Fisco dalla fida delle pecore rimaste e sull'utilità di transigere in perpetuo la medesima, Napoli 1795. È singolare il fatto che proprio questo fosse lo scritto del C. più noto ad uno dei primi storici dell'economia politica nel Mezzogiorno, Ludovico Bianchini). Sul problema si era espresso fra gli altri, anche se qualche anno prima, in maniera ben più pregnante il Delfico, operando una chiara scelta polemica verso l'"oziosa pastorizia" che ora il C. non sembra in grado di sottoscrivere.
Questa involuzione prepara, e spiega in parte, l'atteggiamento di indifferenza, se non di legittimismo, tenuto dal C. di fronte al rivolgimento del '99: "lontano dagli interessi della sedicente Repubblica" lo riconoscerà la famigerata Giunta di Stato più tardi, quando, a seguito degli avvenimenti "giubilato" come professore del Collegio dell'Aquila, chiederà la grazia della "continuazione del mezzo soldo". Peraltro, il primo decennio dell'Ottocento fu quasi di smobilitazione per il R. Collegio, ridotto a tre sole cattedre attive di poche unità di studenti. Al C. non rimase che ritirarsi in campagna, il che lo portò a dare un taglio "agriculturista" ai suoi ultimi scritti.
Non che precedentemente la sua derivazione mercantilista gli impedisse di porre al centro di una composita ideologia economica due elementi: proprietà, e libertà, della terra. Ora però, nel Discorso per la solenne apertura della Società d'agricoltura nella città, e provincia di Aquila al1º novembre 1810 (s.n.t., ma Aquila 1810), la fiducia nella libertà economica s'è stemperata nell'affidamento quasi esclusivo all'istruzione agraria del compito di diffondere un progresso già fissato nel dogma agronomico, che si tratta solo di apprendere e divulgare. È questo ufficio pedagogico che ormai il C. assegnava a se stesso, ed alle società agrarie (fu socio appunto di quella dell'Aquila).
Di lì a poco, il 18 ag. 1811, egli morì all'Aquila.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Napoli, Finanze, fasci 419, 1595, 1618, 2031; Archivio storico del Banco di Napoli, Banco di S. Giacomo. Libri Maggiori e Volumi di Polizze anni 1795-1798; Giornale letterario di Napoli, II (1794)" aprile, pp. 29-50; G. Olivier-Poli, Continuazione al "Nuovo Dizionario Istorico", II, Napoli 1824, p. 258; T. Mommsen, Corpus inscriptionum Latinarum, IX, Berlin 1883, pp. XXXII, 312; T. Fornari, Delle teorie economiche nelle provincie napolitane dal 1735al 1830, Milano 1888, pp. 299 s., 436; E. Casti, Sinopsi storica dell'istruzione educativa nell'Aquila degli Abruzzi dal secolo XIII al XIX, in Boll. della Soc. di storia Patria "A. L. Antinori" negli Abruzzi, IV (1892), p. 32; G. Rivera, Memorie biografiche degli scrittori aquilani, Aquila 1898, pp. 73 s.