MONTEFREDINI, Francesco Saverio
MONTEFREDINI, Francesco Saverio. – Nacque il 12 maggio 1827 a Spinazzola, un piccolo comune della Puglia, da Mauro, un possidente cultore di lettere classiche, e da Gaetana Evangelista, anch’essa proprietaria terriera.
Le notizie sui primi anni della sua vita sono quanto mai scarne. Ignote risultano, per esempio, le circostanze del suo trasferimento a Napoli, dove insegnò per un certo periodo al liceo Vittorio Emanuele, e dove svolse la sua attività intellettuale. Qualche elemento biografico più certo si comincia ad avere soltanto a partire dagli anni Sessanta, soprattutto dal 1864-1867, quando avviò la sua collaborazione come critico teatrale a L’Italia, la rivista di sinistra moderata organo dell’Associazione universitaria costituzionale, fondata da Francesco De Sanctis (del quale era stato studente a Napoli da prima del 1848), insieme con Luigi Settembrini.
A quelle date, però, si era già fatto notare dalla comunità degli intellettuali meridionali con alcune intraprese che tradivano le sue simpatie liberali e patriottiche: aveva collaborato a Lo Spettatore napoletano dei patrioti Francesco Saverio e Tommaso Arabia, fatto chiudere d’ufficio dalla polizia del Regno delle Due Sicilie; nel 1860, quando Francesco II era ancora sul trono, aveva pubblicato a Napoli un Compendio della storia delle Due Sicilie che era anche un chiaro pamphlet antiborbonico, in seguito al quale rischiò ritorsioni; l’anno seguente aveva dedicato un opuscolo storico, scritto sulla spinta entusiastica della liberazione dai Borboni, al problema della disinfestazione del Sud dai briganti (Memorie autografe del generale Manhès intorno a’ briganti compilate da F. M., Napoli 1861), riflettendo sulla lotta ingaggiata per reprimere il brigantaggio nel regno di Napoli durante il periodo napoleonico dal generale francese Charles-Antoine Manhès (1777-1854), che si era servito di metodi violenti e spesso inumani, come aveva sostenuto anche Pietro Colletta nella sua Storia del Reame di Napoli; a quel periodo risale inoltre lo scritto All’opuscolo del Sig. Costantino Crisci «La situazione politica in Italia». Risposta di F.S. M. (Napoli 1861).
Del maestro De Sanctis Montefredini abbracciò inizialmente le teorie letterarie e storiche con sentita adesione, come dimostra per esempio la netta stroncatura che scrisse intorno a Dell’Arte del dire (1857-62) dell’abate agostiniano Vito Fornari, intitolata Delle opere dell’abate Vito Fornari (Napoli 1866). Essa si inserì in una querelle più ampia che coinvolse, ostili a Fornari, anche Vittorio Imbriani, Benedetto Croce e Bertrando Spaventa (l’abate trovò invece un convinto sostenitore in Francesco Acri). Fornari si era fatto portavoce, nell’Arte, di uno strenuo purismo e di un’interpretazione globale della storia in chiave cristiana. A queste posizioni Montefredini contrapponeva quelle che De Sanctis aveva messo a fuoco durante il magistero presso il collegio della Nunziatella (1841-1848): un allontanamento deciso dal purismo e dal programma cattolico-liberale giobertiano, verso un Risorgimento laico e postilluministico, da porre sotto le insegne dello storicismo hegeliano. Sempre in quest’ottica di adesione al maestro, curò la Prefazione alla prima raccolta dei suoi Saggi critici (Napoli 1866).
Il distacco da De Sanctis maturò più avanti con l’approfondimento degli studi storici, che lo portarono a una sorta di rovesciamento dell’ottimismo hegeliano e a un’interpretazione più aderente (sebbene estrema e spesso tendenziosa) del pensiero di Leopardi, ammirato anche da De Sanctis, ma in una luce più romantica, schilleriana. Specie nel corso del decennio 1870-1880, non a caso proprio mentre in Italia si andavano manifestando con forza il positivismo scientifico e il verismo, indirizzi nutriti entrambi delle prospettive evoluzionistiche di Darwin, Montefredini si abbandonò a un’idea di storia umana ultrapessimistica, secondo cui i popoli neolatini (contrariamente a quelli nordici, anglosassoni e germanici), e in special modo quello italiano, sarebbero andati inesorabilmente verso la decrepitezza, e dunque verso la decadenza morale e degli ordini civili. Di queste idee, che parevano anticipare di un cinquantennio le indagini di Oswald Spengler, offrì un primo bilancio nella raccolta di Studi critici pubblicata a Napoli nel 1877.
Montefredini definiva i popoli come corpi organici le cui cellule invecchiano se non ricevono una trasfusione di cellule nuove: nel caso dell’Impero romano, tale trasfusione fu costituita dall’invasione dei popoli barbarici. Egli arrivava così a ribaltare le sue idee liberali e patriottiche degli anni Quaranta-Sessanta (professate nel Compendio) e a togliere valore allo stesso Risorgimento italiano, che non era stato ancora in grado – nonostante la conquistata Unità – di ringiovanire e rinvigorire il tessuto sociale della penisola. Fu senz’altro questo uno dei motivi per cui Croce lo criticò pesantemente nella sua Letteratura della nuova Italia, dando di lui il seguente ingeneroso parere: «Ecco uno scrittore che ha del maniaco: se mania è l’asservimento assoluto a una sola idea, l’impenetrabilità alla critica e all’autocritica, l’incapacità di ascoltare gli insegnamenti delle cose, la resistenza ostinata a quegli svolgimenti mentali che gli uomini normali percorrono» (p. 369). Ma il giudizio di Croce (che poco più avanti lo avrebbe addirittura definito «mattoide ») non esaurisce affatto la comprensione della figura di Montefredini, il quale proprio per le sue prese di posizione radicalmente pessimistiche in ordine alla storia e al progresso precorse molta della filosofia negativa del XX secolo, e spianò la strada a una classe intellettuale italiana aspramente atea e anticlericale che trovò in lui – in un paese costantemente dedito alla medietà delle opinioni e alla attenuazione degli imprestiti filosofici provenienti da Oltralpe – un oltranzista come pochi altri, capace della stessa grave consequenzialità speculativa di un Leopardi, sebbene di caratura infinitamente inferiore. Montefredini, per tale suo acceso e ortodosso leopardismo appare dunque un ‘eccentrico’ nel panorama della storiografia italiana, un monstrum, se così vogliamo chiamarlo, ma non un improvvisato né un maniaco come lo dipinse Croce.
Negli Studi, dove svalutava con risolutezza l’esperienza dei Comuni e del Papato medievali, che avevano frammentato e annichilito l’Italia per secoli, e mostrava invece il suo apprezzamento per il Sacro Romano Impero germanico (qui palesava anche la sua predilezione per Dante Alighieri) e per la Riforma protestante, egli metteva in chiaro quello che era il Leit-motiv della sua visione storica, ovvero la persuasione che esista una «legge fatale che dopo un giro di tempo colpisce di vecchiezza le nazioni». L’Italia, paese segnato più di altri dal fenomeno, poteva forse ancora «trasformarsi in nuova vita», ma non più con la fusione di altri popoli («il tempo delle invasioni» salutari era infatti chiuso, e tale doveva rimanere), bensì con una «rigenerazione mediante lo studio, con la scienza» (p. V). Il Risorgimento, quindi, per Montefredini non aveva affatto portato a termine il suo compito, che era quello di produrre un ringiovanimento delle coscienze, degli intelletti, e non di coordinare una mera unificazione territoriale e politica. Per ottenere questo risultato, consigliava al nuovo Stato italiano di guardare al popolo tedesco e ai suoi istituti civili e religiosi, sano frutto della riforma di Lutero: «Ma se non è in poter nostro di cangiare i fatti necessari della storia, potrebbe forse essere in nostro potere di riscattarcene allontanandoci appunto da quel passato, trasformandoci con la scienza, entrar con questo sacro vessillo nella vita nuova, dando la mano al popolo tedesco per attaccare la formidabile rocca papale che esiste indipendentemente e al di sopra del potere temporale» (p. VI).
Crebbe con gli anni, specie in concomitanza con le discussioni sulla cosiddetta questione romana, tutt’altro che esaurite dopo Porta Pia, l’acredine di Montefredini verso la Chiesa cattolica, che per lui rappresentava la continuazione dell’Impero Romano corrotto: «I barbari» – scrisse nell’opuscolo Roma ci è fatale (Firenze 1870) – «distrussero l’impero, presero Roma, ma rimasero i Romani. E bene, questo popolo, perduto l’imperatore, crea il papa. Una pianta velenosa non può dar che frutti avvelenati. Dal putridume del cadavere imperiale nacque un nuovo mostro, il più spaventevole che abbia mai contristato gli uomini » (p. 19). Nel 1883, si avventò contro il clinico Guido Baccelli, ministro della Pubblica Istruzione con Cairoli e con Depretis dal 1881 al 1884, per un suo disegno di legge che prevedeva la possibilità di aprire sul territorio italiano università teologiche purché autonome rispetto a Roma (secondo il modello dello Studio teologico parigino), eventualità che Montefredini considerava altamente dannosa. La Chiesa infatti avrebbe così potuto recuperare, attraverso le nuove università, un potere culturale assai ampio, con forti ripercussioni anche sulla sfera temporale: «Poiché la Chiesa ha visto sparire il suo Stato temporale e dopo molti anni nessuna potenza fedele o infedele curarsi di reintegrarlo, […] perché non dovrebbe pensare di mutar strategia, e dalla violenza aperta riuscita vana, passare alle coperte arti in cui è stata sempre al mondo maestra inarrivabile? Quindi tutto il suo interesse di spacciar libertà e progresso, per trarre dalle mani del Governo le università e manducarsele» (Le più celebri università antiche e moderne, Roma-Torino- Firenze 1883, p. 56).
Le idee esposte negli Studi critici ricorrono poi in altre due opere successive: La vita e le opere di Giacomo Leopardi (Milano 1881) e La Rivoluzione francese: reazione socialista (Roma-Torino-Firenze 1889), dove Montefredini sottoponeva a stringente revisione il giacobinismo, reo di aver sterminato gli ultimi elementi franchi (rappresentati dal patriziato d’ancien régime) e di aver fatto salire in auge la plebaglia gallo-latina, moralmente e intellettualmente decaduta.
Morì celibe il 18 ottobre 1892 a Napoli, secondo l’anagrafe nel manicomio provinciale.
Fonti e Bibl.: A. De Gubernatis, Diz. biografico degli scrittori contemporanei, Firenze 1879, pp. 735 ss.; C. Barbagallo, F. M.: di un obliato discepolo di F. De Sanctis, Firenze 1900; F. Torraca, Scritti critici, Napoli 1907, pp. 57-64; B. Croce, La letteratura della nuova Italia, III, Bari 1929, pp. 355-369; Francesco De Sanctis e la riforma scolastica del 1861. Sette lettere inedite a Quintino Sella, in Rassegna storica del Risorgimento, LXXXV (1998), 3, p. 305 n. 68.