QUADRIO, Francesco Saverio
– Nacque a Ponte in Valtellina il 1° dicembre 1695, figlio di Ottavio e di Maria Elisabetta Guicciardi, entrambi di nobile famiglia, genitori di numerosi altri figli, molti dei quali morti in tenera età.
I primi studi nel ginnasio annesso al locale collegio gesuitico propiziarono l’ingresso di Quadrio quindicenne nella Compagnia di Gesù, scelta adolescenziale non scaturita da spontanea vocazione, ma certo plausibile nell’ambito familiare, già stando al nome di battesimo. Uno zio della madre, Giovanni Maria, era stato gesuita missionario nelle Indie orientali, e alla morte del fratello maggiore Luigi, gesuita a Piacenza, Quadrio si sarebbe riferito il 6 giugno 1756 in una lettera al cugino Gian Antonio Quadrio Brunasi, al quale ultimo peraltro fu legato da affetto e consuetudine per tutta la vita (ne resta una corrispondenza epistolare intercorsa via via più intensamente negli anni 1741-56; sui rapporti familiari cfr. Corbellini, 2010).
Rinunciando dunque agli studi di legge a Pavia, nell’ottobre 1713 entrò nel seminario di Novellara (provincia veneta della Compagnia), dopo il biennio di noviziato passando a Piacenza per lo studio della retorica e nel 1716 a Bologna, presso il Collegio di S. Sofia, dove seguì i corsi del triennio di filosofia. Fu mandato quindi al collegio di Padova (1719-25), dove stabilì rapporti con scienziati del calibro di Giambattista Morgagni e Antonio Vallisnieri, che lo interessarono alla medicina e alla storia naturale. Ne conseguì la stesura di un Trattato di medicina, sollecitata da Morgagni, e di una Istoria delle piante (o Botanica universale, Milano, Biblioteca Trivulziana, Mss., 158, cit. in Quadrio 1921, ma ora irreperibile).
Agli interessi scientifici andò unita da subito la passione per la poesia, se già nel 1725 aveva composto un poema bernesco, in oltre sessanta canti, intitolato Il cavaliere errante, che in seguito ripudiò dandolo alle fiamme. Per il quadrienno di teologia studiò quindi a Bologna, sotto la guida di Giovanni Francesco Battaglini, e nel 1727 ricevette gli ordini sacri. Fu poi insegnante di retorica a Parma nel Collegio dei nobili (ovvero i convittori laici) quindi, dopo il terzo anno di probazione a Busseto (1729-30), svolse servizio di predicatore e confessore a Fidenza, a Borgo San Donnino e infine a Venezia. Nel febbraio 1731 prese i quattro voti solenni, a fronte di un percorso formativo importante ma alquanto tardivo, con una scelta destinata a condizionare gli anni centrali della sua esistenza, come egli stesso avrebbe narrato nelle due lettere apologetiche al marchese Alessandro Teodoro Trivulzio, dei primi anni Cinquanta (indicate come Lettera prima e seconda ad un amico a Milano, entrambe nella copia di Cremona, Biblioteca statale, Mss., Aa.3.73; la prima in Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat. 9283, Corrispondenza Tanzi - Mazzucchelli, cc. 160-181; la seconda: Milano, Biblioteca Trivulziana, Mss., E.158, edita in Porro, 1878, pp. 433-448). In tali scritti Quadrio rileggeva la sua vicenda esistenziale tutta alla luce dell’opposizione, al limite di «malignissime persecuzioni», da parte della Compagnia verso la sua impresa maggiore, i quattro libri Della storia e della ragione d’ogni poesia, e dunque dei suoi sforzi continui per uscire dall’Ordine e tornare all’abito di prete secolare: un’istanza che, proprio per l’età matura della sua professione gesuitica nel 1731, non sarebbe stato facile vedere accolta, e che tale sarebbe stata solo prima del sesto volume datato 1749, nel cui frontespizio finalmente Quadrio figurava come «abate» (ma per un quadro completo dei rapporti con i gesuiti, cfr. Preti, 2010, con nuovi apporti dalla documentazione ufficiale dell’Archivum Romanum Societatis Iesu).
Nel 1731 fu a Bologna come accademico o istruttore in erudizione e lettere ai giovani del Collegio dei nobili San Francesco Saverio, il cui rettore Bernardo Arienti gli affidò la cura del teatro. Richiamato a Venezia come predicatore, dissapori con il preposto padre Gabriele Piovene lo spinsero a recarsi a Pordenone, dove riscosse successo con i suoi sermoni, componendo anche Esercizi spirituali, pure perduti. Dopo la quaresima, da Venezia tornò a Bologna, dove in qualità di direttore del teatro compose l’Altamene, perduta tragedia di osservanza aristotelica «lunga ben quattro volte più che le ordinarie», secondo il giudizio di Saverio Bettinelli che, nell’undicesima delle Lettere inglesi, l’avrebbe stroncata come «inutil fatica» (Bettinelli, 1782, p. 322).
Ma fu certo in questi anni che la vocazione di Quadrio per la letteratura maturò come un’appropriazione dell’intera tradizione poetica italiana in prospettiva didattica, se i suoi due libri Della poesia italiana furono sollecitati (secondo quanto affermava nell’Introduzione, pp. n.n.) dai «gentili e valorosi giovani» che attendevano le lezioni nel «desiderio di acquistare la volgar poesia», onde rendersi abili «a tessere ogni lirico e minor poema» con «osservazioni… che servir potessero quasi di fondamento» alla «poetica arte». La censura del testo fu controversa e diede inizio al dissidio con la Compagnia: affidata a quattro revisori, stando ancora alla Lettera prima sopra citata, la stampa incontrò l’opposizione di uno di essi, padre Cesare Calini, per l’esaltazione «dei poeti che trattano di amori» e tengono «sempre la fantasia dei giovani in belle donne ed innamoramenti», per la fede rinascimentale e l’avversione al gusto del Seicento, secolo glorioso per la Compagnia, sicché fu negata l’autorizzazione a stampare anche «suppresso nomine auctoris» (del parere è copia anonima anche nel citato ms. Trivulziano edito in Porro, 1878, pp. 431 s.). Nel gennaio 1734 Quadrio ricorse al generale dell’ordine František Retz, che invitò l’autore a fidarsi del processo di revisione; tuttavia nell’estate, con l’appoggio dei letterati veneziani del circolo di Apostolo Zeno e la diretta mediazione di Anton Federico Seghezzi, egli procedette a far stampare l’opera a Venezia per Cristoforo Zane, sotto lo pseudonimo di Giuseppe Maria Andrucci, dietro al quale però i recensori riconobbero da subito l’effettivo autore.
I due libri Della poesia italiana, di impianto affine per molti versi alla Istoria della volgar poesia di Girolamo Crescimbeni (da poco riedita a Venezia nel 1730), pure se ne distanziavano sin dalla più moderna formulazione di «poesia italiana», presentandosi «come un trattato di versificazione, quasi un manuale, anziché come una istoria» (Dionisotti, 1998, p. 21). Dedicati a trattare, nella prima parte, «del verso, e in sé stesso considerato e riguardo all’unione che può avere con altri» e, nella seconda, «delle diverse spezie de’ componimenti» (così l’intitolazione), essi mostravano come la ricerca erudita e retorica di Quadrio fosse già aperta a testi poetici delle altre lingue moderne (soprattutto francesi), eppure convinta del primato della poesia italiana, che «sì per la quantità e sì per la qualità de’ poemi né alla Greca né alla Latina inferior sia, nonché all’altre, che a quest’ora ha già di gran lunga lasciate addietro» (Della poesia italiana, p. 414); così preludendo allo sviluppo di questa sua prima «opericciuola» di oltre 400 pagine verso quella che egli già doveva aver concepito come una più vasta e sistematica trattazione.
Il 1734 fu l’ultimo anno di residenza veneziana e quello in cui, per la dura reazione della Compagnia alla stampa non autorizzata, Quadrio minacciò di chiedere le dimissioni riasserendo la legittimità dello studio della poesia italiana anche per i membri dell’Ordine, e in generale un più lato rinnovamento dei metodi didattici gesuitici, come documentato dalla corrispondenza con Retz, che lo destinò dal gennaio 1735 a prefetto per gli studi inferiori del Collegio padovano, sotto il rettorato di Andrea Zuccheri, il quale pure cercò di difendere Quadrio dalle restrizioni impostegli (quali, a esempio, l’obbligo di ricevere il vitto alla “tavola piccola”). Nell’autunno 1736 egli fu poi trasferito nel Collegio di Modena, con incarichi che lo tenessero lontano dall’insegnamento, precludendosi così ogni sua aspirazione a ottenere una lettura.
Sicché egli finì per dedicarsi a tempo pieno al lavoro di biblioteca, essenziale al progetto di sviluppo della prima trattazione del 1734 in quella che sarebbe stata l’opera maggiore Della storia e della ragione d’ogni poesia (sulla “geografia” delle biblioteche menzionate nell’opera, cfr. Dionisotti, 1998, pp. 24 s.). Già l’anno seguente, infatti, inviava al generale il manoscritto di un primo volume per la licenza di stampa, che giunse, dopo venti mesi, nel 1737. Autorizzato agli spostamenti necessari alla ricerca, risiedette per due anni a Modena, dove potè studiare all’Estense e interagire con l’allora bibliotecario Muratori (restano quattro lettere di tale corrispondenza, cfr. Bonfatti, 2010), che assunse il patrocinio sui primi due tomi dell’opera, elogiati con l’incisiva affermazione che «a niuno era finora caduto in pensiero d’unire insieme tutto ciò che può appartenere all’arte de’ poeti» (lettera del 6 ottobre 1739, in Muratori, 2008, p. 11). Pur continuando a subire critiche e speciose accuse di plagio mossegli dagli ambienti gesuitici, si andava così consolidando la reputazione di grande erudito, dotato di capacità di memoria e scrittura straordinarie, mentre si intensificavano frequentazioni con intellettuali bolognesi, quali Gianpietro e Francesco Maria Zanotti, Flaminio Scarselli, professore di eloquenza e autore tragico, Fernando Antonio Ghedini, naturalista e poeta, e Giovanni Granelli, direttore dell’Estense. Già in tale contesto forse si guadagnò la stima del cardinal Prospero Lambertini, arcivescovo di Bologna, e dal 1740 papa Benedetto XIV, cui Quadrio promise di scrivere una storia della Valtellina, per cui già iniziava a raccogliere i materiali.
Il primo volume della Storia e ragione d'ogni poesia uscì dunque a Venezia presso l’editore Domenico Tabacco agli inizi del 1738 (ma con falsa data di stampa 1736), con dedicatoria al duca di Modena Francesco III. La pessima qualità della stampa, zeppa di errori, indusse al ritiro delle copie e a un nuovo accordo con l’editore bolognese Ferdinando Pisarri per la ristampa del 1739. La mancata remunerazione dalle vendite (forse per l’inadempienza dei collegi gesuitici, pur obbligati ad acquistarne copia) determinò dissapori con l’editore, che accusò Quadrio di non onorare il contratto, fino alla rottura, quando era già pronto e approvato dai revisori il secondo volume.
Ciò determinò, nella primavera del 1741, il trasferimento di Quadrio da Bologna a Milano, alla ricerca di un nuovo editore e di protezione, che egli trovò nella contessa genovese Clelia Grillo Borromeo Arese, al centro della vita intellettuale milanese con il salotto scientifico dell’Academia Cloelia Vigilantium, dotata di entrature importanti presso la Curia romana e amica del già ricordato marchese Trivulzio, grande collezionista di codici e fondatore della Società Palatina, che stampava i Rerum Italicarum scriptores muratoriani. Con garanzia del Trivulzio veniva così stipulato il contratto con i fratelli Agnelli per la stampa della Storia e ragione d'ogni poesia, del cui secondo volume uscirono i due tomi tra fine 1741 e maggio 1742. Milano era l’ambiente ideale, per un Quadrio ormai tutto votato allo scavo erudito sui testi rari della poesia, non soltanto nell’Ambrosiana, ove era arrivato nel 1740 con presentazione di Muratori, o nella biblioteca dei Trivulzio, ma pure nelle tante librerie minori, ecclesiastiche o private, tra cui quella di Carlo Antonio Tanzi, che divenne amico prediletto di Quadrio (non per caso ricordato da Giuseppe Parini nella prefazione alle poesie del Tanzi di 1766; lo stesso Parini ne esaltò il «lume di dottrina» nel sonetto in memoriam (Parini, 1967, p. 417; sui rapporti Quadrio - Tanzi, cfr. Martinoni, 2010). A Milano prese parte all’Accademia dei Trasformati, poi contribuendo alla Borlanda impasticciata (Milano 1751), raccolta satirica allestita da Pietro Verri; mentre già era stato ascritto alla Colonia Insubrica dell’Arcadia (non prima del 1743, sotto il custodiato di Michele Giuseppe Morei, con il nome di Ornisco Ippocreneo), alla cui istanze di «grazia» crescimbeniana e razionalismo graviniano aderì nell’opera storiografica, in cui Carducci vide appunto un «inventario dell’asse arcadico» (sui rapporti con l’Arcadia, Sarnelli, 2010).
D’altronde, vessazioni e dispetti da parte dei confratelli non cessavano, facendogli avvertire che l’autorizzazione a stampare la sua opera, la dispensa a risiedere a Milano pur appartenendo egli alla provincia veneta, benché a spese proprie e sempre con un novizio accompagnatore, non fossero altro che concessioni volte a dissimulare l’ostracismo da parte della Compagnia, che comunque mal tollerava quei privilegi di studioso quali egli sentiva dovuti. In tale clima maturò definitivamente la volontà di abbandonare l’Ordine, con l’istanza di poter vestire l’abito secolare. Consigliato dal confessore Aimo Maggi a rivolgersi direttamente al pontefice, ebbe una prima udienza a Roma da Benedetto XIV, cui confidò disagi e angherie subite, intavolando così una trattativa (mediata dai protettori milanesi, l’arcivescovo Giuseppe Pozzobonelli, Trivulzio e donna Clelia), che tuttavia incontrò la resistenza del papa, che, per l’oggettivo impedimento costituito dall’età matura, gli offriva la sola alternativa di un passaggio ad altro ordine disposto ad accoglierlo. Al diniego, si accrescevano in Quadrio i sospetti continui, ai limiti dell’ossessione, sulle interferenze dei confratelli a trafugare le lettere inviate al papa, a metterlo in cattiva luce presso la Borromeo, a negargli vitto e vestiti. Si risolse così a una repentina partenza alla volta di Zurigo (per varcare il confine azzardò persino a svestirsi dell’abito di gesuita), donde scrisse ancora al pontefice, confidando nelle sue «clementi intenzioni», ma sortendo ancora un rifiuto. La cronaca fornita da Quadrio, in quella vera e propria requisitoria antigesuitica che è la Lettera seconda ad un amico, di questa rocambolesca avventura, non priva di colorito romanzesco e a tratti teatrale, lo vede quindi passare a Coira e di lì in Francia, dove a Parigi forse conobbe Voltaire e tentò invano di acquisire la protezione di Luigi XV per il tramite del cardinale Pierre Guérin de Tencin e di padre Sylvain Perusseau, gesuita confessore del re. Finiva invece dinanzi a un piccolo tribunale allestito dai gesuiti nel collegio di La Flèche, che oltre a negargli l’appello gli garantiva mentitamente risorse per il viaggio di ritorno in Italia, laddove egli, passato il confine a Nizza, venne a trovarsi «lacero» e costretto a mendicare per poter rientrare a Cuneo, indi a Milano.
Entrò allora in contatto, per tramite epistolare dell’amico valtellinese Pietro Angelo Lavizzari, con il cardinal Angelo Maria Querini che, nella sua battaglia antigesuita, decise di offrire protezione a Quadrio, curando una nuova mediazione con Benedetto XIV, che Quadrio incontrò di nuovo agli inizi e alla fine del 1748, determinato ad andare sino in fondo (scriveva a Lavizzari, il 31 agosto: «l’ultimo pensiero che mi cadrà mai in mente sarà di ritornarmi in Compagnia, e avrò sempre fisso prima che far ciò d’andarmene tra Turchi, Arabi, e Caldei e fare il boja e ogni cosa», in Leoni, 1975, p. 47), quando finalmente ottenne di rimanere per triennium in abito di prete secolare. Sganciatosi da Querini, tornò quindi a Roma nel 1749, dopo la pubblicazione del quarto volume della Storia e ragione d'ogni poesia, e fece omaggio al pontefice della lunga dedicatoria alle Dissertazioni sulla Valtellina, che forse gli valse la permanente riduzione allo stato secolare, nonché la nomina a canonico di S. Maria Perpetua e S. Zeno a Pavia, onde desisté pure dall’istanza di entrare nell’Ordine di Malta come storiografo, ventilata da Trivulzio quando era in cerca di una soluzione alternativa alla Compagnia. Gli anni tra 1749 e 1752, quando risiedeva come bibliotecario presso il conte genovese Gian Luca Pallavicini, cui dedicò la Lettera intorno ai titoli d’onore (Venezia 1751, vi stigmatizzava appellazioni e cerimonie spagnoleggianti tipiche del Seicento), furono completamente assorbiti dall’elaborazione degli ultimi due volumi della Storia e ragione d'ogni poesia, a coronamento di una monumentale impresa la cui vastità erudita è ben provata dal quinto e ultimo di essi, dove alle quasi trecento pagine di Correzioni e aggiunte (segno dell’aggiornamento costante cui l’autore sottoponeva l’intero corpus), ne seguivano quasi quattrocento dell’Indice universale.
Sin dalla Introduzione generale nel primo volume, l’opera era concepita nel suo impianto in nove libri, «due della poesia in generale [su «natura, accidenti, cagioni e materia» e sullo «strumento», cioè sul verso], due della Melica [sulla lirica «in universale» e sui metri], tre della Drammatica [su tragedia, commedia e tragicommedia], e due dell’Epica [su poemi «senza favola» e «con favola tessuti»]», mirando al grandioso disegno di una «enciclopedia di letteratura universale, con l’intento di abbracciare tutte le letterature dalle classiche alle moderne, in un contesto di continui, minuziosi raffronti, per indicarne i nessi e le dipendenze, le varie evoluzioni ambientali e i differenti processi di svolgimento, le strutture comuni e le tecniche peculiari e distintive» (Doglio, 1986, p. 572).
Tale articolazione analitica si rifletteva nella divisione «scolastica» (Capucci, 1998, p. 406) in volumi, libri, distinzioni, capitoli, particelle o paragrafi, con un impianto classificatorio applicato alle forme poetiche dalle origini mitiche al Settecento che è stato accostato al Systema naturae di Linneo (Gorni, 1984, p. 439 n.) per l’effetto di «perpetuo catalogo» (Getto, 2010, p. 52), la cui aspirazione alla totalità consentiva di superare i limiti delle imprese pregresse e coeve di Crescimbeni e Gimma, con una curiosità verso i testi rari antichi reperiti nelle biblioteche non inferiore a quella per le novità librarie, persino non uscite ancora a stampa, e un’apertura alle letterature straniere non solo funzionale alle ragioni polemiche antifrancesi, ma volta all’aggiornamento del recente quadro europeo (si vedano i riferimenti a Pope, Defoe, Klopstock) e alla dilatazione dei confini alla letteratura tedesca, russa, e persino all’estremo Oriente e America (cfr. Dionisotti, 1998, pp. 28-32; Sinopoli, 2010). Pur nei limiti di indicazioni e accertamenti critici non sempre attendibili, secondo quanto avrebbe rimarcato Girlamo Tiraboschi («opera in cui alla vastissima erudizione non sempre vedesi corrispondere una saggia critica e un giusto discernimento», Tiraboschi, 1774, p. 306; più sprezzante Giovanni Andrés, 1785, p. 21), Quadrio proponeva, nelle coordinate razionalistiche di un’«arte scienziale della poetica» (Storia e ragione d'ogno poesia, I, p. 260), una visione del primato poetico italiano posto al vertice della tradizione letteraria occidentale, fondato sull’intrinseca superiorità originaria del «verso armonico» quale si era evoluto fino al Petrarca «legislatore» (Pinchetti, 1913, p. 100), modello assoluto di perfezione. Ma era anche capace di anticipare la rilevanza di Dante entro un canone nazionale (cfr. Danzi, 2010); quindi, facendo perno sulla grande poesia rinascimentale e al di là della costante e recisa condanna dell’«infelicissimo gusto» barocco, mostrava, a differenza di quanto avrebbe fatto Tiraboschi, di aprirsi francamente alla letteratura contemporanea, a esempio riferendosi ai poeti improvvisatori dell’epoca, esaltando Metastasio «valoroso e illustre poeta de’ nostri tempi» (Storia e ragione d'ogni poesia, I, p. 714), citando le commedie goldoniane nella recentissima edizione Bettinelli, e in genere affrontando la letteratura teatrale con attenzione agli aspetti dello spettacolo; mentre affatto straordinario era il rilievo assunto dalle teorie e pratiche musicali in tutti i volumi dell'opera (cfr. Mellace, 2010).
Negli stessi anni Quadrio curò a Milano la stampa di scritti minori, quali la Lettera intorno alla sferistica, o sia giuoco alla palla degli antichi (1751); l’edizione commentata dei volgarizzamenti apocrifi dei Sette salmi penitenziali e del Credo, che ritenne di attribuire a Dante (1752); la Lettera intorno all’origine e alla propagazione delle Lingue (uscita poi nella Raccolta milanese dell’anno 1756, Milano 1756, f. 1), dedicata al conte Beltrame Cristiani, dove riprendeva la teoria di Leonardo Bruni, rilanciata da Gravina e Maffei, sull’origine del volgare già in età anticoromana, soffermandosi poi su questioni etimologiche. Restano invece perlopiù inediti, oltre a un poema allegorico incompiuto di 370 ottave in cinque canti, intitolato Il mondo lunare scoperto sotto lo pseudonimo di Grillo da Luneburgo (conservato a Modena, Biblioteca Estense universitaria, It. 563 = α.F.4.16, mal leggibile; mentre perduto è l’autografo di Milano,, Biblioteca Trivulziana, Mss.. 1032, cit. in Quadrio, 1921, p. 79), una raccolta di 418 componimenti, forse destinata alla stampa (nell’autografo Trivulziano 915), ove emerge un poeta «che ha ben assimilato, da precettore di retorico rito, la versatilità metrica e stilistica dell’Arcadia e passa con disinvoltura dai sonetti petrarcheschi alle pastorali e alle piscatorie, dai madrigali alle canzoni morali; ma che forse dà il meglio di sé nelle cose satiriche» (Arato, 2002, p. 155).
Ma l’opera erudita che lo impegnò negli ultimi anni di vita, con frequenti ritorni nella terra natia per ricerche d’archivio, fu la stesura dei tre tomi di Dissertazioni critico-storiche intorno alla Rezia di qua dalle Alpi, oggi detta Valtellina (Milano 1755-56; se ne hanno una riedizione Milano 1960-61, e un’ed. anast. Bologna 1970), dedicati al papa Lambertini, di cui recavano un ritratto a piena pagina, «malagevole e tediosa» impresa per la carenza di indagini pregresse, cui diedero ausilio Lavizzari, Quadrio Brunasi e l’erudito locale Carlo Giacinto Fontana, conosciuto in un viaggio a Morbegno del 1742, quando aveva già iniziato a raccogliere il materiale documentario.
Nelle ventuno trattazioni in tre tomi, rispettivamente dedicati alla storia civile, ecclesiastica e ai personaggi illustri di Valtellina e Contadi annessi (Bormio e Valchiavenna), Quadrio superava lacunose e spesso infondate notizie preesistenti in virtù di un solido metodo erudito di comparazione delle fonti, muovendo oltre il mero gusto collezionistico dei documenti per tentare una sintesi della storia valtellinese. Al partecipe delinearsi storico delle virtù e dell’aspirazione alla libertà delle popolazioni di Valli confinarie, non faceva riscontro un senso di solidarietà rispetto al presente delle critiche e al mancato sostegno finanziario alla stampa da parte dei valtellinesi (che egli accusava di cercare nell’opera solo patenti di nobili origini), da cui si congedava così, infermo per una caduta, in una lettera del 20 luglio 1756: «Io ho fatto un crocione sulla Valtellina, né più mi porterò in codesti paesi» (in Leoni, 1975, p. 52).
Dopo il 1754, in gravi ristrettezze per i debiti di stampa e ancora lavorando all’ultimo tomo delle Dissertazioni, uscito postumo, si ritirò presso il convento milanese dei Barnabiti di S. Alessandro dove morì il 21 novembre 1756, malato di idropisia, all’indomani della ricevuta notizia circa la pensione concessagli da Maria Teresa d’Austria su istanza del cancelliere Beltrame Cristiani. Fu sepolto nella chiesa annessa, dove tuttavia non resta traccia della tomba e della lapide.
Fonti e Bibl.: Oltre a quanto già citato, per un esaustivo regesto delle fonti edite e inedite, soprattutto epistolari, cfr. P. Bartesaghi, Appendice documentaria, in La figura e l’opera di F.S. Q. (1695-1756), a cura di C. Berra, Ponte in Valtellina 2010, pp. 651-659.
Notizie intorno alla Vita, ed agli Studi dell’Abate Don F.S. Q., in Raccolta milanese dell’anno 1756 dedicata a Sua Eccellenza il Signor Marchese Corrado Olivera, Milano 1756, f. 50; Appendice, in F. S.Q., Dissertazioni critico-storiche intorno alla Rezia di qua dalle Alpi, oggi detta Valtellina, Milano 1755-56, III, pp. 514-519; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, IV, Modena 1774, p. 306; S. Bettinelli, Opere, VII, Venezia 1782, pp. 321 s.; G. Andrès, Dell’origine, progressi e stato attuale d’ogni letteratura, II, Parma 1785, p. 21; G. Porro, Documenti sul Q., in Archivio storico lombardo, V (1878), pp. 429-448; G. Marpillero, F.S. Q. e l’uomo di genio, in Rivista filosofica, II (1900), pp. 611-631; L. Fresco, Lettere inedite di Benedetto XIV al cardinale A.M. Querini (1740-50). Da un codice della Biblioteca arcivescovile di Udine, in Nuovo archivio veneto, n.s., IX (1909), pp. 5-93, 279-300; X (1910), pp. 159-215 passim; B. Pinchetti, La vita di F.S. Q. (1695-1756), in Archivio storico lombardo, XL (1913), p. 5-47; Id., Ricerche sulle opere letterarie di F. S. Q., Catania 1915 (con il precedente in ed. anast., Ponte in Valtellina 2006); G. Carbonera, F.S. Q. poeta, in Letterati valtellinesi del sec. XVIII. Note per una storia della coltura in Valtellina, Sondrio 1920, pp. 61-70; S. Quadrio, Di F.S. Q. e delle sue opere (1695-1756), Brescia 1921; T. Salice, F.S. Q., in Boll. della Società storica valtellinese, X (1956), pp. 71-76; E. Sala di Felice, Il Petrarca nell’opera del Q., in Ead., Petrarca in Arcadia, Palermo 1959, pp. 83-88; G. Parini, Opere, a cura di E. Bonora, Milano 1967, p. 417; M. Costanzo, La poetica di F.S. Q. (1960), in Id., Dallo Scaligero al Quadrio, Roma 1970, pp. 1-104; B. Leoni, Alcune lettere di F.S. Q. a Pietro Angelo Lavizzari, in Boll. della Società storica valtellinese, XXVIII (1975), pp. 36-53; Id., Altre quattro lettere di F.S. Q. allo storico Pietro Angelo Lavizzari, ibid., XXIX (1976), pp. 53-57; G. Gorni, Le forme primarie del testo poetico, in Letteratura italiana, dir. da A. Asor Rosa, III, 1, Torino 1984, p. 439 n.; M.L. Doglio, Q., F.S., in Dizionario critico della letteratura italiana, dir. da V. Branca, III, Torino 1986, pp. 571 s.; L. Bruzzone, Lettere di F.S. Q. a Giannantonio Quadrio Brunaso, in Boll. della Società storica valtellinese, XL (1992), pp. 213-246; C. Dionisotti, Appunti sul Q., in Id., Ricordi della scuola italiana, Roma 1998, pp. 11-32; M. Capucci, L’erudizione storica e Ludovico Antonio Muratori. Critica e storiografia letteraria, in Storia della letteratura italiana, dir. da E. Malato, VI, Roma 1998, pp. 406 s.; F. Arato, La storiografia letteraria nel Settecento italiano, Pisa 2002, pp. 151-188; M. Fubini, Storia e della ragione d’ogni poesia (Della), in Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi (1947-50), IX, Milano 2005, p. 9732; L. Ricaldone, “Questo Don Chisciotte della critica”: il Q. di Balilla Pinchetti, in B. Pinchetti, La vita - Ricerche, ed. anast. Ponte in Valtellina 2006, pp. 15-25; L.A. Muratori, Carteggi con Quadrio… Ripa, - cura di E. Ferraglio, M. Faini, Firenze 2008; M. Sarnelli, L’Accademia dell’Arcadia e F.S. Q., in Annali della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Sassari, 1 (2009), pp. 147-163; G. Getto, Storia delle storie letterarie (1942), a cura di C. Allasia, Napoli 2010, pp. 52-57; A. Corbellini, F.S. Q. e la Valtellina, in La figura e l’opera di F. S. Q. (1695-1756), a cura di C. Berra, Ponte in Valtellina 2010, pp. 19-41; C. Preti, F.S. Q. e i gesuiti, ibid., pp. 81-110; F. Sinopoli, Il Q. tra storia nazionale e storia comparata della letteratura, ibid., pp. 123-132; R. Martinoni, «Secolo indegno!». F.S. Q. e Carl’Antonio Tanzi, ibid., pp. 589-611; M. Sarnelli, Q. e le poetiche arcadiche, ibid., pp. 133-166; R. Bonfatti, Un cruciverba a schema libero: Muratori e Q. tra poesia e critica, ibid., pp. 201-210; L. Danzi, «Tuttoché licenziosissimo…». Il Q. e Dante, ibid., pp. 264-272; R. Mellace, Q. musicografo tra critica ed erudizione, ibid., pp. 469-489.