SILVANI, Francesco.
– Nacque a Venezia, probabilmente nel 1663, figlio dell’avvocato Cesare e di Margherita Cossali, sua seconda moglie (il fratello Zuane era stato battezzato nel 1661, la sorella Candiana nell’agosto del 1662).
Ignota la formazione del giovane letterato. Nell’Orazione panegirica per l’elezione di Girolamo Basadonna a procuratore di San Marco (Venezia 1682; Venezia, Museo Correr, Op. P.D. 8713) si dichiara «Academico Pacifico e Paragonista»; e ancora in un altro encomio, Oratione alla serenissima Republica di Venezia (Venezia 1687), si qualifica «Academico Pacifico». All’occasione comparve con il titolo di abate, documentato per la prima volta nel testamento dello zio materno Antonio Cossali (7 settembre 1691; Armellini, 2006, col. 805).
Nello stesso anno del debutto poetico, 1682, ebbe luogo il battesimo teatrale: ingaggiato dai fratelli Grimani per il teatro dei Ss. Giovanni e Paolo, allora ancora in piena attività, Silvani pubblicò, sotto un trasparente pseudonimo anagrammatico (Frencasco Valsini), i primi due di una quarantina di libretti d’opera. A partire dal 1691 abbandonò il nom de plume, comparendo perlopiù con nome e cognome nei frontespizi dei libretti o firmandone le dediche (talvolta con le sole iniziali).
Alcuni drammi adesposti gli vengono tradizionalmente attribuiti sulla scorta della cronologia di Giovanni Carlo Bonlini (1730), considerata fededegna faute de mieux (non senza incertezze: cfr., per es., Strohm, 2008, p. 281, per I veri amici del 1713); non si può viceversa escludere che qualche dramma veneziano uscito senza nome negli anni tra il 1682 e il 1691, e attribuito ad altri autori dalle cronologie, sia di sua mano. Nel 1744 Vincenzo Voltolini mise in cantiere un’edizione da scaffale, postuma, delle sue Opere drammatiche: ne programmò sette volumi, ma si fermò al quarto, la paternità dei rimanenti essendo risultata incerta (lo dichiara l’Avviso finale; del resto, neanche le attribuzioni dei 24 drammi ivi pubblicati sono tutte suffragate dai rispettivi libretti); fu ristampata da Domenico Deregni nel 1757.
Collaborò, in momenti diversi, con tutti i teatri d’opera attivi su base regolare a Venezia in quei decenni. La cronologia dei suoi drammi per musica (qui di seguito corredata tra parentesi dei nomi dei compositori: spicca l’assidua collaborazione con Francesco Gasparini nel teatro di S. Cassiano, 1703-05, e con Antonio Lotti nel lussuoso S. Giovanni Grisostomo, 1709-13) rappresenta di fatto il riferimento biografico primario. Salvo diversa menzione, le opere andarono in scena nella stagione di Carnevale, che iniziava il 26 dicembre dell’anno precedente e godeva del massimo afflusso di spettatori stranieri, mentre la meno impegnativa stagione autunnale (fine ottobre - inizio dicembre) attirava in primis la cittadinanza al rientro dalla campagna, come dice Silvani stesso nella prefazione ad Ama più chi men si crede (1709): «Ora che ancor si risente l’aria della villeggiatura non par isconcio il condurre i pastori a maneggiar i loro semplici amori», riserbando al Carnevale la maniera eroica, «più confacente alla [...] magnificenza di queste scene».
Ecco dunque l’elenco dei titoli (per i dati analitici, cfr. Alm, 1993, e Selfridge-Field, 2007; i drammi compresi nella citata edizione letteraria del 1744 sono contrassegnati con l’asterisco; i nomi dei protagonisti indicati tra parentesi accanto ai titoli gnomici sono desunti dalle edizioni letterarie del 1744 e del 1757): Ottone il grande, Ss. Giovanni e Paolo, autunno 1682 (Paolo Biego); Marzio Coriolano, ibid., 1683 (Giacomo Antonio Perti); L’inganno scoperto per vendetta, S. Salvador, 1691 (Perti); La virtù trionfante dell’amore e dell’odio* (Artaserse II), ibid., 1692 (Marc’Antonio Ziani); La moglie nemica, ibid., 1694 (id.); Il principe selvaggio, S. Angelo, 1695 (Michelangelo Gasparini); La costanza in trionfo, ibid., autunno 1696 (Ziani); L’ingratitudine gastigata, S. Cassiano, 1698 (Tomaso Albinoni); L’innocenza giustificata* (Giuditta imperatrice e Lotario I), S. Salvador, 1699 (Benedetto Vinaccesi); La fortezza al cimento* (Oronta e Mitridate), ibid., 1699 (Giuseppe Aldrovandini); Il duello d’amore e di vendetta* (Esilena e Florinda con il re visigoto Rodrigo), ibid., 1700 (Ziani; ed. mod. in I libretti italiani di G.F. Händel e le loro fonti, a cura di L. Bianconi, I**, Firenze 1992, pp. 3-49); La pace generosa* (Germanico e Arminio), ibid., 1700 (id.); L’inganno innocente, S. Angelo, 1701 (Albinoni); L’arte in garra con l’arte, S. Cassiano, 1702 (id.); Gli imenei stabiliti dal caso, ibid., 1703 (Francesco Gasparini); Il più fedel fra i vassalli* (Antioco), ibid., 1703 (id.); Il miglior d’ogni amore per il peggiore d’ogni odio* (Clotilde), ibid., autunno 1703 (id.); La fede tradita e vendicata, ibid., 1704 (id.); La maschera levata al vizio* (Alete filosofo), ibid., autunno 1704 (id.); La Fredegonda*, ibid., 1705 (id.); Il principato custodito dalla frode* (Merope), ibid., 1705 (id.); La fede tra gl’inganni, S. Angelo, 1707 (Albinoni); Armida abbandonata*, ibid., autunno 1707 (Giovanni Maria Ruggieri); Armida al campo*, ibid., 1708 (Giuseppe Boniventi); Arrenione*, ibid., autunno 1708 («musica di diversi»); Sofonisba*, S. Giovanni Grisostomo, autunno 1708 (Antonio Caldara); Il tradimento tradito* (Erifile di Sparta), S. Angelo, 1709 (Albinoni); Ama più chi men si crede* (Fiordalba), melodrama pastorale, S. Giovanni Grisostomo, autunno 1709 (Lotti); Il comando non inteso et ubbidito* (Teodora e Zoe Porfirogenite), ibid., 1710 (id.); Il tradimento traditor di sé stesso* (Dario), ibid., 1711 (id.); La forza del sangue* (Zoe Carbonopsina), ibid., autunno 1711 (id.); L’infedeltà punita* (Ataulfo), ibid., autunno 1712 (Carlo Francesco Pollarolo e Lotti); I veri amici, con Domenico Lalli, S. Cassiano, 1713 (Andrea Paulati?); La verità nell’inganno* (Nicomede II di Bitinia), ibid., 1713 (Francesco Gasparini); Irene augusta*, S. Giovanni Grisostomo, autunno 1713 (Lotti); Semiramide*, ibid., 1714 (Pollarolo); La costanza combattuta in amore* (Leonato), S. Moisè, autunno 1716 (Giovanni Porta).
Quest’ultimo dramma sarebbe in realtà un rifacimento del suo Gl’amori ministri della fortuna (Bonlini, 1730, p. 173), dato con musica di Ziani nel Carnevale 1694 al Regio di Milano (dov’era stato preceduto l’anno prima dalla ripresa della Virtù trionfante degli stessi autori). Fu il primo dei pochi drammi di Silvani varati fuori di Venezia. Nella primavera del 1699 – il 5 marzo era stato affiliato all’accademia bolognese degli Accesi (Armellini, 2006, col. 805) – compose in un mese L’oracolo in sogno per il teatro di Mantova (musica di Caldara, Antonio Quintavalle e Pollarolo): si guadagnò la qualifica di servitore del duca Ferdinando Carlo Gonzaga (Armellini, 1993-94, p. 19), che esibì poi nei frontespizi finché durò il governo mantovano di Gonzaga, ossia fino ai primi del 1707. Con varianti, l’opera del 1699 fu ripresa a Carnevale nel teatro di S. Angelo a Venezia, con cantanti mantovani; ma Silvani era frattanto impegnato al S. Salvador. L’ultima sua première allestita sulla terraferma fu, nel maggio del 1709 nel teatro di Piazza a Vicenza, il «melodrama pastorale» La ninfa riconosciuta, musica di Pollarolo.
Nella prefazione all’Innocenza giustificata del 1699 Silvani si difese appassionatamente dalle accuse di plagio che gli erano state mosse dopo L’ingratitudine gastigata dell’anno prima. Il poeta sostenne la falsità di tali «latrati indebiti», rivendicò la paternità delle proprie opere, «mie nell’invenzione, mie nella disposizione, mie nell’elocuzione», e aggiunse che «nel comporle né le ho communicate con chi si sia, né da chi si sia ho ricevuto un minimo consiglio»; riconobbe tuttavia che Il principe selvaggio del 1695 era stato composto «con l’altrui assistenza e consiglio», e «perciò corre senza nome» (il libretto, dedicato al milanese Filippo Antonio Spinola Colonna, duca del Sesto, è nondimeno siglato «F.S.»; quanto al soggetto, è presumibilmente tratto dalla drammaturgia spagnola). Sempre in questo torno d’anni venne preso di mira, insieme ad altri colleghi, nelle pungenti Satire di Bartolomeo Dotti (apparse a stampa soltanto nel 1757); venne inoltre criticato da Apostolo Zeno non solo per «i suoi amori», che «lo han reso ridicolo anche nella patria», ma anche perché il suo comportamento aveva fatto «formare sinistri concetti di tutti i poeti di Venezia, che veramente son poco buoni, se non assolutamente cattivi per la maggior parte» (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Ashburnham 1788: Lettere inedite del signor Apostolo Zeno istorico e poeta cesareo raccolte e trascritte da Giulio Bernardino Tomitano, opitergino membro del collegio elettorale dei dotti. Oderzo MDCCCVIII, c. 55rv).
Morì dopo l’8 luglio 1718 (se è lui il fratello menzionato nel testamento di Candiana Silvani; Armellini, 2006, col. 805). Nel Carnevale del 1724 il libretto veronese del Tolomeo re d’Egitto (una ripresa del Più fedel fra i vassalli del 1703) attribuisce il dramma all’«eccellente penna del fu signor abate Silvani».
Lo stesso libretto loda «il maneggio dei più teneri affetti, il nodo forte, il proprio di lui scioglimento», dunque la qualità patetica, l’interesse dell’intreccio, il sapiente controllo dei congegni drammatici, pregi che si riconoscono in parecchi altri drammi. Silvani, che prediligeva i titoli sentenziosi e parenetici, attinse la materia drammatica – spesso intessuta di situazioni violente, acri conflitti di amore e politica, immagini cruente – non solo dal consueto serbatoio della storia greca, romana e del Vicino Oriente o della mitologia, ma anche da quello delle più recenti storie medievali, secondo un gusto che nel teatro d’opera veneziano affiora proprio dopo il 1680. I personaggi traslocano dai regni algenti del Nord alle corti mediterranee della Spagna e dell’Africa, dai palazzi imperiali della Mezzaluna alle deliziose riviere della Grecia.
Il poeta dichiarò talvolta le proprie fonti storiche e letterarie. Con lo «scrupolo di peccare di soverchia temerità», per la saga dell’Armida abbandonata ammise di aver attinto a piene mani all’«ammirabile libro» del «gran Torquato» (le due opere tassesche del 1707-1708 furono tagliate su misura di cantanti d’eccezione come Maria Anna Benti Bulgarelli, la Romanina, e Francesco Bernardi, il Senesino). Per il cruento infanticidio, narrato come di regola solo nell’antefatto, le identità scambiate e celate o il rischio di nozze incestuose nei Veri amici del 1713 (sempre che sia suo) fece ricorso all’Héraclius di Pierre Corneille. Il modello della drammaturgia classica francese, le cui traduzioni «accomodate all’uso delle scene d’Italia» circolavano ormai diffusamente, offrì il soggetto anche alla Costanza combattuta in amore (1716), la cui fonte è la Statira di Jacques Pradon (1680). La Virtù trionfante (1692) attinge dal romanzo Cassandre di Gautier de Costes de La Calprenède. Sebbene lo citi nei libretti con il solo cognome dell’autore, dal famoso Mappamondo istorico di Antonio Foresti (Parma, 1690 ss.), pozzo inesauribile di notizie, Silvani dichiarò di aver tratto il soggetto di due drammi di ambientazione spagnola, il Duello d’amore e di vendetta (1700) e il Miglior d’ogni amore per il peggiore d’ogni odio (1703). Ma non si può escludere che altri titoli fossero debitori della narrazione del gesuita Foresti, se perfino nella pastorale Ninfa riconosciuta (1709) per la descrizione dei giochi olimpici e dell’importanza di risultarne vincitore usò esattamente le stesse parole di Cicerone citate nel Mappamondo. Non mancano nell’elenco delle fonti gli autori classici latini: Silvani guardò a Tacito (Annales) per il carattere risoluto di Mitridate e a Svetonio (Nero) per il catalogo delle sfortunate consorti dell’imperatore nella Fortezza al cimento (1699), mentre le Troades di Seneca gli offrirono non solo «un grande motivo per la mozion degl’affetti», ma anche «molte frasi per lo adornamento dello stile» nella Pace generosa (1700), uno dei suoi drammi più fortunati.
Silvani possedeva le regole della poetica, e se non le osservava scrupolosamente si giustificava però con i lettori dichiarando di rispettare comunque – secondo un diffuso topos dei librettisti barocchi – la «regola massima ch’è quella del dilettare, se non vogliamo aggiungervi quella antica dell’ammaestrare» (Il principe selvaggio, 1695). Nei suoi drammi si osserva la progressiva soppressione delle parti buffe, il cui impiego, come confessa al lettore dell’Oracolo in sogno in scena a Mantova (1699), è tutt’al più giustificato dalla necessità di «secondar il costume già abbracciato sovra questo teatro». Anche a livello delle arie il poeta si allineò alle nuove tendenze, collocandole di preferenza al termine delle scene, ossia a ridosso del rientro del personaggio tra le quinte; mantiene tuttavia l’uso occasionale del novenario, metro deciduo in questi anni.
Alcuni drammi di Silvani, mutati nei titoli, rivestiti di nuova musica (tra gli altri da Georg Friedrich Händel giovane, Alessandro Scarlatti, Leonardo Vinci, Antonio Vivaldi, Baldassarre Galuppi, Giovanni Battista Pergolesi), travestiti e camuffati da altri poeti teatrali fino al limite dell’irriconoscibile, con ambientazioni traslate in luoghi nuovi, talora esotici e remoti, che comportano incisive variazioni nell’onomastica dei personaggi e nelle mutazioni sceniche, si mantennero a lungo sulle piazze teatrali italiane e straniere lungo il Settecento. A Parigi, nel 1767, Antoine-Alexandre-Henri Poinsinet, attingendo al soggetto della Fede tradita e vendicata, tentò addirittura una contaminazione tra generi e provò a trasformare un dramma italiano in tragédie lyrique, per la musica di François-André Danican Philidor. Ma la rigidità della struttura e delle norme sottese ai due sistemi teatrali impedì una ristrutturazione convincente della vicenda drammatica: l’opera, andata in scena all’Académie royale de musique con il titolo Ernelinde, princesse de Norvège, fu un fiasco clamoroso. Invece in Italia lo stesso dramma, con il titolo spesso mutato in Ricimero e con i consueti adeguamenti alle nuove forme musicali, andò in scena fino al 1789.
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