SOLIMENA, Francesco
‒ Nacque a Canale, frazione di Serino (Avellino), il 4 ottobre 1657, da Angelo, pittore, e da Marta Grisignano dei quali fu il figlio primogenito.
Secondo il suo principale e devoto biografo, Bernardo De Dominici (1742-1745 circa, 2008), entrato in confidenza con l’ormai anziano pittore probabilmente attraverso il comune ancorché diverso legame con la cerchia intellettuale napoletana dei duchi di Laurenzano, Angelo Solimena, già allievo e collaboratore di Francesco Guarino, pittore degli Orsini di Solofra e di Gravina, aveva indirizzato il figlio verso seri studi umanistici – ancora attestati dalla proprietà linguistica delle sue lettere (Caravita, 1870, pp. 371 s.) e dei suoi sonetti di vario indirizzo (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, pp. 1158 s.) – ostacolando la sua inclinazione a schizzare rapidamente figure all’acquarello; ma una sosta di passaggio in casa Solimena a Nocera del cardinale Vincenzo Maria Orsini (già principe di Solofra e duca di Gravina, spogliatosi del nome e dei titoli per entrare nell’Ordine dei domenicani e in seguito papa Benedetto XIII) in precedente rapporto con Angelo nell’ambito dell’accademia letteraria da lui stesso promossa a Solofra, impresse una svolta al destino del giovane. Il cardinale, visti quegli schizzi rivelatori di un sicuro talento, convinse il padre a lasciare che Francesco seguisse la sua vocazione.
A diciassette anni, dice De Dominici – verosimilmente autore anche dell’anonima celebrazione dell’attività e del cursus honorum artistico di Solimena premessa all’edizione del 1733 dell’Abecedario pittorico di Pellegrino Orlandi, curata da Antonio Roviglione e dedicata al pittore stesso (pp. 1088 s.) – il giovane Francesco approdò a Napoli indirizzandosi verso la ‘scuola’ dell’affermato Francesco Di Maria, subito però recalcitrando di fronte alla pratica accademica del disegno imposta dal pittore agli allievi, onde una sua rapida deviazione verso il far da sé guardando alla «magia dei bei colori» del dominante Luca Giordano, alla drammatica potenza delle testimonianze lasciate a Napoli da Mattia Preti, all’emozionante Estasi di s. Alessio inviata quarant’anni prima da Pietro da Cortona alla chiesa dei Gerolamini, al libero articolarsi di angeli e santi nello spazio delle cupole affrescate da Giovanni Lanfranco nel suo operoso decennio napoletano: cioè a quanto di nuovo a Napoli aveva rotto con la forte pittura naturalistica di ascendenza caravaggesca della prima metà del secolo, aprendo la strada della grande stagione barocca.
Solo un rapido riferimento tocca nella Vita (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, p. 1101) alla «guida e ammaestramenti» del padre, cioè a quel secondo lustro degli anni Settanta che in effetti vide Francesco, prima di emergere con lavori in proprio, introdursi già con altro estro formale e pittorico nella realizzazione di opere commissionate ad Angelo o a lui tradizionalmente riferite: un problema ben visto da Ferdinando Bologna fin dal 1955 e poi nell’importante, prima e unica monografia dedicata a Francesco Solimena nel 1958, puntando al fiotto di luce dorata che provenendo dallo squarcio del cielo irrora la Visione di s. Gregorio Taumaturgo della chiesa di S. Domenico di Solofra (con in primo piano lo stemma Orsini-Frangipane dell’influente madre del cardinale) e all’ariosa mobilità impressa al Paradiso della cupola della Arciconfraternita del Rosario nella cattedrale di Nocera Inferiore, senza confronto con i compatti anelli concentrici dei personaggi che affollano la cupola affrescata da Angelo nella chiesa di S. Giorgio a Salerno (1675). Una collaborazione ben visibile anche nel s. Giovanni della Pietà della chiesa di S. Bartolomeo di Nocera Superiore (1678) e nell’Estasi di s. Rosa da Lima di Angri (1679).
Risale in effetti al documentato impegno preso nel 1677 con i gesuiti dall’architetto Arcangelo Guglielmelli (in rapporto con l’attività del Solimena per tutta la vita) di provvedere adeguatamente di persona all’affidamento dell’affresco della volta della nuova cappella dedicata a S. Anna nel Gesù Nuovo di Napoli, a sinistra del presbiterio, la prima importante commissione pubblica al ventenne Francesco ricordata da De Dominici, e già prima da Carlo Celano (1692, p. 51), della quale restano alla base della volta, molto ridipinti, quattro grandi angeli tubicini librati sulle anse delle edicole che inquadrano tra grandi festoni un grappolo di serafini, testimoni dell’impatto con la vicina cupola del Lanfranco, distrutta di lì a poco dal terremoto del 1688. E a una contemporanea mediazione gesuitica risulta oggi collegata anche la sorprendente tela con S. Nicola salva il fanciullo coppiere della chiesa di S. Chiara a Fiumefreddo Bruzio (Cosenza), restituita a Solimena da Bologna nel catalogo della mostra di Cosenza del 1976 (Arte in Calabria), già pagata nel dicembre del 1678 al pittore per conto della marchesa Lucrezia Ruffo della Valle (Nappi, 2003, pp. 127, 223; Carotenuto, 2015, pp. 86-90). La veloce resa pittorica dell’animata composizione, del candido viluppo delle vesti dell’angelo in volo, avalla un’esecuzione anche più precoce della Madonna del Rosario proveniente dal monastero delle domenicane di Gravina, e ora in collezione privata (D’Elia, 1982), e probabilmente anche dell’irruzione di Francesco, in piena sintonia con i riporti veneziani di Giordano, entro la cappella dedicata alle Ss. Tecla, Archelaa e Susanna nella chiesa di S. Giorgio a Salerno, della quale Angelo aveva affrescato tra il 1674 e il 1675 coro, navata, lunette laterali, e aveva già avviato anche il soffitto, oggi disastrato, della cappella in questione, che porta la data 1677 incisa nella lastra che chiude il sottostante sepolcreto.
Al 1678-79 è documentata (Nappi, 1982, p. 201) una tela perduta del giovane Solimena con i Ss. Francesco, Domenico, Ignazio e Filippo Neri per S. Maria dei Miracoli, segnalata per la qualità e la precocità del pittore già da Pompeo Sarnelli e da Celano. Se ne desume la brillante e rapida affermazione di Francesco ancora entro l’ottavo decennio sulla traccia smagliante della luce dorata e dell’estro pittorico visionario del Giordano (si vedano la Vergine bambina tra s. Elisabetta e s. Gioacchino del Museo di Capodimonte e lo straordinario rame con lo stesso tema del Museum and Art Gallery di Bristol), rispetto alla quale una struttura formale più ferma e una stesura pittorica più corposa, avvivata dalla mobile costruzione delle ombre e luci dal basso verso l’alto che materializzano ‘naturalisticamente’ il senso della visione, è offerta dalla Madonna del Rosario della Gemäldegalerie di Berlino, forse «il bel quadro» per le monache domenicane di Sessa Aurunca ricordato en passant dal sedentario De Dominici (Oertel - Schleier, 1971; De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, p. 1129 nota 49) sulla base evidente dei ricordi dello stesso Solimena.
La tela datata 1681 con S. Girolamo, s. Francesco e s. Antonio da Padova, distrutta a Montecassino e nota attraverso la fotografia pubblicata da Costanza Lorenzetti in occasione della mostra del 1938 (p. 160), che diede il via all’interesse per la pittura barocca napoletana, mette a fuoco il corso già personale di Francesco all’ombra di Giordano, aprendo un decennio scandito dal succedersi di rilevanti commissioni, a cominciare dai due forti dipinti dei cappelloni della chiesa napoletana di S. Nicola della Carità (I ss. Francesco di Sales, Francesco di Assisi e Antonio e la Vergine con il Bambino in gloria adorata da s. Pietro e s. Paolo), commissionati lo stesso anno dai padri Pii Operai di S. Giorgio Maggiore ed eseguiti entrambi, diversamente da quanto è stato supposto, entro l’anno successivo (Scalera, 2007). Segue a ruota la commissione della decorazione del coro della chiesa di S. Maria Donnaregina Nuova, sempre a Napoli, della quale Giordano aveva forse già affrescato il coro piccolo delle converse sopra l’ingresso prima della sua partenza per Firenze: Solimena vi raffigurò, entro sontuose cornici di stucco sagomate e dorate, nella volta, come ‘quadri riportati’ di prorompente animazione compositiva e luministica, il Trionfo e sei Episodi della vita di s. Francesco, sulle pareti laterali quattro coppie di Santi e tre tondi per parte con immagini di Sante regine e sulla parete di fondo la vasta scena architettonicamente inquadrata del Miracolo delle rose datata 1684, il tutto oggi purtroppo compromesso, in parte strappato e trasferito in altri ambenti, nel corso della deprecata ristrutturazione cui il complesso di Donnaregina fu sottoposto all’inizio del secolo scorso. Il cardinale arcivescovo Innico Caracciolo, dice De Dominici, sollecitato da voci invidiose sul pericolo di lasciare entrare un giovane di bell’aspetto in conventi di clausura, privilegiati fautori della prima affermazione di Francesco, lo convocò, e, rassicurato dall’incontro, gli commise subito per l’altare maggiore della chiesa di S. Giovanni in Porta, costruita a sue spese e benedetta nello stesso 1684, l’anno precedente la sua morte, il S. Giovanni Evangelista venerato dal cardinale Caracciolo, oggi, dopo vari trasferimenti, al Museo diocesano di Napoli (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, p. 1109 nota 18).
I risultati delle intense ricerche archivistiche compiute negli ultimi decenni in relazione all’attività artistica sei e settecentesca, in particolare nell’imponente Archivio storico del Banco di Napoli, hanno potuto, spesso correggendo ipotesi di autorevoli studiosi, dare ordine più certo al fitto intrecciarsi degli impegni di Solimena ricordati dal solerte De Dominici, con notevole sensibilità al dato stilistico ma qualche approssimazione nell’ordine cronologico, pur nella possibilità e probabilità del ricorso alla memoria dell’autore.
A ridosso degli affreschi del coro di S. Maria Donnaregina Solimena subentrò anche nella chiesa del Gesù delle Monache a Giordano, che, rientrato da Firenze a Napoli su richiesta dell’appena insediato viceré Gaspar de Haro marchese del Carpio, vi aveva dipinto l’Immacolata Concezione con le ss. Teresa e Chiara (1683) per l’altare della seconda cappella a sinistra, prima di passare ai Girolamini e al clamoroso affresco della Cacciata dei mercanti dal Tempio della controfacciata (1684), in coinvolgente confronto con la Probatica piscina di Lanfranco ai Ss. Apostoli. Il 10 gennaio 1685 Francesco era già pagato per la Gloria della Vergine affrescata nel soffitto della cappella stessa e per la Gloria di s. Chiara del soffitto della cappella di fronte, nell’aprile per I quattro santi francescani Chiara, Bonaventura, Giovanni da Capestrano e Ludovico del sottostante altare, nell’ottobre dello stesso anno per le due splendide tele laterali della cappella dell’Immacolata con l’Annunciazione e Lo sposalizio della Vergine di lampeggiante impianto chiaroscurale, e ancora, lo stesso anno, per i laterali della cappella di S. Chiara (Amirante, 1976, p. 184; Rizzo, 1984, p. 316), dove però già Domenico Parrino (1700) registra invece, in seguito a vicende non note, la presenza delle attuali S. Chiara scaccia i Saraceni e La monacazione di s. Chiara di Paolo de Matteis (M.R. Nappi, in Galante, 1872, 1985), rientrato anch’egli al seguito del marchese del Carpio da un apprendistato romano all’ombra imperante di Carlo Maratta.
Il confronto diretto con Giordano e l’attenzione alle stampe del Cortona – particolarmente evidente quest’ultima nei disegni di Francesco per le illustrazioni di Piscatoria et Nautica di Nicola Giannettasio, incise da François de Louvemont (1685), e nei ‘rametti’ «trasportati in Inghilterra» e oggi nella Devonshire Collection a Chatsworth, con Apelle ritrae Pancaspe e Zeusi dipinge Venere prendendo a modello le fanciulle di Crotone (F. Bologna, in Settecento napoletano, 1994, pp. 194-197) – affinarono l’immaginario di Francesco: la drammatica eleganza della Crocifissione di S. Domenico di Solofra che porta l’inattesa data 1686 (Braca, 1990, p. 118), la stessa delle splendide tele con l’Annunciazione e l’Adorazione dei pastori che si affiancano al più antico intervento di Giordano nella cappella dell’Oratorio del Monte dei Poveri (Nappi, 1979, pp. 178 s.), la Madonna con il Bambino e i ss. Pietro e Paolo dell’Episcopio di Nardò, in provincia di Lecce (V. Rizzo, in Pavone, 1997), il S. Francesco rifiuta il sacerdozio offertogli dagli angeli (1688) di nuovo in S. Maria Donnaregina (Rizzo, 1994, p. 154, doc. 6), l’Adorazione dei pastori della chiesa dell’Annunziata di Aversa (1689), il S. Giorgio della cappella Loffredo in Duomo (1689) ne sono solo alcune attestazioni tra le molte offerte dall’implicita gara in rapidità d’esecuzione con ‘Luca fapresto’ (soprannome di Luca Giordano). Nell’Ampliamento della sua Guida dei forestieri, Sarnelli (1688) segnala al Gesù Nuovo, appena prima del terremoto che avrebbe fatto crollare la cupola affrescata da Lanfranco e danneggiato le vicine cappelle, i contigui e contemporanei lavori di Giordano nella cappella Merlino e di Solimena all’arco della cappella della Visitazione, occasione, a detta di De Dominici, di incontri e reciproci riconoscimenti. Subito dopo, la commissione a Solimena della decorazione ad affresco della sagrestia di S. Paolo Maggiore – dalle Virtù, Angeli e Allegorie entro gli spartimenti in stucco dorato della volta, che affascinarono Jean-Honoré Fragonard, ai due grandi murali delle pareti frontali con la tumultuosa Conversione di s. Paolo sotto un cielo incendiato (1689) e la stupita concitazione della Caduta di Simon Mago (1690) ‒ ne consacrò l’affermazione pubblica con la ricchezza e complessità unitaria del concepimento dell’insieme e la forza della resa pittorica. La stessa data 1690 è poi emersa (Vsevoložskaja, 1981; Ead., 2010; De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, pp. 1132 s., nota 61) anche nella piccola, raffinata Allegoria del regno di Luigi XIV di San Pietroburgo, in rapporto stilistico con i rametti citati di Chatsworth, ma che De Dominici dice recata in dono al re da monsignor Filippo Antonio Gualtieri, inviato come nunzio in Francia nel 1700, con la regale immagine inserita nel medaglione e in seguito ripetutamente sostituita.
Un inciso retrospettivo di De Dominici inserito per due volte nel corso della biografia (pp. 1121 e 1170), dopo aver ricordato il Trionfo di s. Ignazio al Gesù Vecchio del 1692 (Rizzo, 1990, p. 386) e a conclusione dell’intero percorso di Solimena – prima di affrontare le considerazioni sulla sua forte personalità, i suoi avvertimenti di maestro e di giudice, il distacco superbo consentitogli dalla fama e dalle fortune accumulate –, rimanda «all’anno 32 di sua età», e dunque all’aprirsi dell’ultimo decennio del secolo, il definirsi della sua ‘maniera’, «ricca di componimenti di perfetto disegno, di vaghissimo colorito, e forse più di Giordano, di mirabile studio e bellezza nel panneggiare», cioè un’ulteriore maturazione delle proprie scelte formali ed espressive, a cui potrebbe addebitarsi anche l’interruzione dell’affresco della navata di S. Nicola alla Carità di cui parla De Dominici, già citato da Celano nel 1692 (p. 13), ma che Solimena avrebbe voluto buttar giù a lavoro avanzato per liberarsi dei tradizionali spartimenti in stucco, e in effetti portato a compimento per il diniego dei Padri Pii committenti solo tra il 1694 e il 1696 (Strazzullo, 1964, p. 115; De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, p. 1113 e nota 24). La partenza di Giordano convocato a Madrid alla corte di Carlo II (aprile 1692) e l’emergere concorrente del più giovane de Matteis con il suo retroterra romano accompagnano l’orientarsi di Solimena verso una struttura compositiva di maestosa compostezza, assecondata da gesti e tratti fisionomici affinati, cui dà corpo un tessuto pittorico di forti contrasti luministici, attento alle opere che Mattia Preti ancora spediva da Malta a Napoli, onde il titolo affibbiato a Solimena di «Cavaliere calabrese nobilitato» (p. 1123). Il processo emerge già negli altari affrontati con la Madonna con i ss. Agostino e Monica (1690) e la Madonna con i ss. Angelo e Chiara di Montefalco (1696) di S. Maria Egiziaca (p. 1111 nota 22), entro le cui date Solimena assunse anche l’impegno di affrescare la crociera di S. Maria Donnalbina, dalla oggi illeggibile Visione di s. Benedetto della cupola, di cui resta il bozzetto (Pavone, 1990, tav. XIII), alle Sante Vergini collocate tra le finestre del tamburo, alle Virtù dei pennacchi, al di sopra dei quali correvano la firma del pittore e la data 1695 (Rizzo, 1984, p. 316). Alle sottostanti sei tele di tema mariano, tre per parte alle testate del transetto, dovette attendere più tardi, posto che Parrino (1700) non vi fa ancora cenno: il loro calibrato impianto compositivo ha dato argomento a una sintonia con lo spirito del movimento letterario dell’Arcadia presente nella cerchia dei committenti del pittore e nel suo stesso poetare (Bologna, 1994, pp. 202-205). Quell’ultimo lustro del secolo lo vide dipingere anche ai Ss. Apostoli le tele andate a sovrapporsi per ragioni non chiare alle ‘quinte’ da poco affrescate da Giacomo del Po arrivato da Roma – secondo De Dominici (1742-1745 circa, 2008, pp. 945, 1119 s.) giudicate non adeguate al confronto con i sovrastanti affreschi di Lanfranco –, lavorare a più riprese ‘per devozione’ nella chiesa del Carmine (p. 1114 nota 26), e affrescare nel 1697 l’Entrata di Alessandro de’ Medici a Firenze nel soffitto di una sala del disastrato e a lungo dimenticato palazzo di vico S. Maria Apparente che era stato nella prima metà del secolo precedente dell’umanista Agostino Nifo, i cui legami con Leone X il nuovo proprietario, il mercante Giuseppe Tirone, intendeva così onorare (pp. 1056 e 1169 nota 138). Nello stesso tempo Solimena aveva intrecciato un rapporto anche epistolare con il priore di Montecassino, l’erudito Erasmo Gattola, amico di Jean Mabillon, al quale risultano già inviati nel 1698 i «quattro gran quadroni ad olio» relativi a vicende di S. Benedetto citati da De Dominici (p. 1117, e nota 29; Caravita, 1870) e destinati al presbiterio della chiesa del monastero distrutto nei bombardamenti del febbraio 1944 insieme alle cappelle di S. Giovanni e di S. Carlomanno, eseguite di seguito dallo stesso Solimena a cavallo del secolo, delle quali resta memoria nelle ‘macchie’, di alta qualità e di grande smercio con il crescere della notorietà del pittore, presenti nei musei di Budapest, di Milano (Brera), di Tolone.
Secondo De Dominici fu da Montecassino che Solimena si portò per la prima e unica volta a Roma «per lo spazio di un mese» (nella citata dedica premessa all’Abecedario di Orlandi del 1733 si precisa «l’anno santo del 1701»), cogliendo l’occasione per ammirare di persona ciò di cui aveva solo sentito parlare e rammentando in seguito «l’incomparabile Galleria Farnese, e l’opere del Domenichino, di Guido Reni, del cavalier Lanfranco e di Carlo Maratta». Il biografo aggiunge che per il cardinale Fabrizio Spada, potente primo ministro del napoletano Innocenzo XII Pignatelli, dipinse in quel mese Il ratto di Orizia, ma il dipinto risulta già nel 1699 nella collezione, dove tuttora si trova (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, p. 1118 nota 50), mentre essendo morto Innocenzo XII nel settembre del 1700, l’anno santo fu chiuso effettivamente nel gennaio del 1701 dal successore Clemente XI Albani, al quale si collega un disegno di Solimena nel British Museum di Londra (Bologna, 1958, p. 256 e fig. 143) raffigurante Clemente XI veste monaca una sua nipote, poi tradotto in pittura (Roma, già coll. Nuñes, oggi Firenze, Uffizi), che registra, presumibilmente dal vivo, un avvenimento verificatosi però solo nel marzo del 1703 (Sterzi, 1925, p. 302). Nelle lettere, di tono confidenziale e informativo, inviate a Gattola nel giugno del 1700 e nel maggio del 1701 (Caravita, 1870), mentre attendeva anche al pretiano S. Ruffo in gloria della cappella del palazzo Ruffo di Bagnara, pagato nell’aprile del 1702 (Ruotolo, 1979, p. 261), nessun accenno viene fatto al viaggio a Roma, forse effettivamente avvenuto più tardi, ragion per cui le puntigliose precisazioni sulla brevità e unicità di quel viaggio potrebbero anche spostare nel tempo e oscurare qualche dissapore, magari l’aspettativa di qualche commissione importante andata delusa, riemergente nel disprezzo verso l’Accademia romana espresso nella lettera indirizzata nel 1720 all’allievo Onofrio Avellino trasferitosi a Roma (Loret, 1934, p. 541). In un’altra lettera a Gattola del 10 giugno 1702, Solimena, rientrato da poco da Montecassino a Napoli, racconta invece con molti particolari la sua convocazione a Palazzo Reale in occasione della venuta a Napoli nell’aprile del 1702 di Filippo V, il giovanissimo re da poco salito sul trono di Spagna che voleva essere da lui ritratto, la difficoltà del lavorare in mezzo alla folla che circondava il personaggio, la soddisfazione del risultato, le molte copie che se ne dovevano trarre per vari destinatari prima dell’invio dell’originale alla regina. Oggi la migliore delle versioni note si ritiene la tela ovale ritrovata da Nicola Spinosa (1979, p. 215) nel Palazzo Reale di Caserta.
La commissione del regale ritratto, incentivo alle successive richieste del genere da parte di viceré e personaggi della più alta e fastosa nobiltà napoletana (Settecento napoletano, 1994), precedette di pochi mesi il ritorno a Napoli dell’anziano Giordano dal decennale servizio alla corte di Madrid e sancì la già incontestabile posizione preminente di Solimena, a cui il cardinale Giacomo Cantelmo (lettera citata a Gattola del maggio 1701) aveva commissionato, a completamento del restauro dei crolli provocati nella cattedrale dal terremoto del 1688, il rifacimento dei due grandi Santi dottori (Cirillo e Crisostomo), posti alla sommità della parete d’ingresso alla tribuna, e appartenenti alla serie a suo tempo realizzata da Giordano. Secondo le ‘aggiunte’ a Celano (1724, p. 61) Solimena vi avrebbe dato corso solo nel 1703 sotto il successore di Cantelmo Francesco Pignatelli, essendo impegnato a dipingere, a richiesta del nunzio Lorenzo Casoni «suo amicissimo», nativo di Sarzana, e verosimilmente in occasione dell’ambito richiamo a Roma del personaggio disposto da Clemente XI, due tele con protagonista l’antico papa s. Clemente, una, perduta, d’incerta destinazione, l’altra, molto nota, destinata a coprire, lasciando aperto un medaglione all’altezza della testa del Cristo, l’antica venerata Croce di Maestro Guglielmo nella cattedrale di Sarzana con i Ss. Clemente Papa, Filippo Neri, Lorenzo e Lazzaro, di una «gaiezza» coloristica che Bologna confronta non a caso con il brillante soffitto del Tesoro della certosa di S. Martino, affrescato da Giordano (1703). All’inizio del 1704 si avviarono gli impegnativi lavori preparatori (macchie e cartoni) dell’affresco della volta della sagrestia di S. Domenico Maggiore con il Trionfo della fede sull’eresia a opera dei domenicani, entro uno spazio unificato ancorché di sproporzionata lunghezza rispetto alla larghezza, e già delimitato da una cornice di stucco di cui inutilmente Solimena tentò di ottenere l’abbattimento «per allargarsi» e risolvendo otticamente l’ostacolo con il far precipitare nell’abisso gli eretici dal lato dell’ingresso all’ambiente e proiettando in elegante ascesa a spirale verso la luce della Trinità, posta all’altro capo del campo visivo, i campioni della lotta vittoriosa accolti dalla Vergine. L’impresa si sarebbe conclusa solo nel 1707 (Pavone, 1990).
Il problematico ‘unico’ viaggio di Solimena va in ogni caso di pari passo con il trasferimento nel 1702 del suo amico Alessandro Scarlatti da Napoli, dove era dal 1684 maestro di cappella, a Roma, accolto alla corte del munifico e colto cardinale veneziano Pietro Ottoboni, destinatario di due «rametti» e di due dipinti poi donati a Filippo V di Spagna (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, pp. 1131 s., note 59-60), un evento che dovette favorire il rapporto intrecciato poco dopo dal pittore con i suoi importanti committenti veneziani amanti di drammatici e teatrali temi mitologici e biblici, il procuratore di S. Marco Girolamo Canal e il conte Giambattista Baglioni, più tardi con il marchese Raimondo Bonaccorsi di Macerata, e di qui l’esplodere della fama tra le corti d’Europa con pressanti richieste di opere dell’«abate Ciccio», così generalmente noto «vestendo insin da giovane abito clericale» come appare nell’Autoritratto inviato nel 1731 a Firenze su richiesta e sollecito del granduca Giangastone (De Dominici, 1742-1745 circa, pp. 624 e 635; 2008, pp. 1186 nota 172 e 1199), e menando nel contempo vanto di non muoversi mai da Napoli. Porta la data 1704 la Venere e Vulcano dipinta per Canal, cui si accompagnarono almeno altre cinque celebri tele (Aurora e Titone e l’Uccisione di Messalina, oggi come il precedente al Getty Museum di Malibu, Sofonisba riceve il veleno dal messaggero di Massinissa e Giunone, Io e Argo, oggi nel Museo di Dresda; De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, p. 1136 e nota 65); sette dipinti di Solimena entrarono nella collezione di Baglioni (tra i quali Rebecca al pozzo e Rebecca ed Eleazaro oggi nelle Gallerie dell’Accademia; p. 1135 e nota 64); da Venezia proviene anche l’Enea e Didone della National Gallery di Londra; quattro dipinti furono richiesti dal marchese Bonaccorsi per la Galleria dell’Eneide del suo nuovo palazzo di Macerata (post 1711; p. 1134, e nota 63): immagini che trasferiscono nel mito con mirabile eleganza compositiva ideali e modi di vita della più aristocratica società contemporanea. Fin dal 1708 (Caravita, 1870, p. 386) iniziarono le trattative con Genova, tramite Ambrogio Doria, procuratore a Napoli della famiglia Giustiniani, per le grandi tele, distrutte in un incendio del 1777 e documentate solo da superstiti macchie e disegni, che dovevano ricoprire soffitto e due pareti della sala del Minor Consiglio del palazzo ducale di Genova con il Massacro dei Giustiniani a Scio (1713), l’Arrivo delle ceneri del Battista (1717) e, infine, lo Sbarco di Colombo (1727), giunte a compimento tra lunghe discussioni e maggiori compensi via via richiesti (Ghio, 1999; De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, pp. 1124 s., e nota 40). Nel 1719 e nel 1721 Giacomo Filippo Durazzo registra l’arrivo della Giuditta e della Debora per l’arredo del suo gran palazzo acquistato dai Balbi, dipinti oggi a villa Bombrini a Cornigliano (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, p. 1136 s., e nota 66).
Alla morte di Giordano nel gennaio del 1705 fu affidato a Solimena il completamento della commissione dei dodici dipinti destinati alla cappella reale dell’Alcázar di Madrid (pp. 1137 s. e nota 68), mentre, dopo poco, l’occupazione austriaca del Regno nel 1707 gli apriva il vasto scenario delle commissioni per il Nord d’Europa, per il principe elettore di Magonza, Lothar Franz von Schönborn, per le residenze viennesi di Eugenio di Savoia e del viceré conte Daun, che sollecitavano e ringraziavano il pittore nella corrispondenza epistolare pubblicata sia nella dedica a Solimena preposta all’Abecedario di Orlandi del 1733 sia nella vita di De Dominici (pp. 1139-1147). Viceré e nobiltà di corte si rivolgevano a Solimena per farsi ritrarre nel fasto dell’abbigliamento richiesto dal loro rango e dalle loro cariche (pp. 1156 s.; Settecento napoletano, 1994, nn. 46-47). Nel 1720, tramite verosimilmente Filippo Juvarra, che doveva averlo conosciuto durante il suo soggiorno a Napoli nel 1706, Solimena ricevette da Torino la commissione di quattro Storie bibliche per il gabinetto di Vittorio Amedeo II, re di Sardegna, oggi nella Galleria Sabauda, per le quali nel 1723 con i regali ringraziamenti gli fu espressa l’attesa dell’Eliodoro (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, p. 1148 e nota 84), cioè di uno dei vari ‘modelli’ preparatori, già acquistati a caro prezzo da illustri forestieri in visita a Napoli, del grande affresco ancora in corso d’opera per la controfacciata del Gesù Nuovo. Quest’ultimo fu licenziato solo nel 1725 con qualche riserva del pubblico, di cui si fa interprete De Dominici, circa l’«unità della storia», cioè la partecipazione ‘espressiva’ all’evento della folla abilmente distribuita entro l’imponente scenografia classicizzante, sensibile alla ‘svolta purista’ dell’ormai rivale Francesco de Mura, che poi impronta più decisamente anche gli affreschi della cappella di S. Filippo Neri ai Girolamini, avviati da Solimena nel 1726 ma interrotti dalla richiesta della corte viennese della raffigurazione dell’Omaggio a Carlo VI dell’inventario della Pinacoteca di Vienna presentato dal conte Gundaker Althann (1728, Vienna, Kunsthistorisches Museum) e portati a compimento solo successivamente (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, pp. 1146 s., 1150 note 83, 89). Solimena, dice De Dominici, intervenne nella configurazione della cappella anche sul piano architettonico, con una competenza alimentatasi nel rapporto di antica data con Arcangelo Guglielmelli e poi con il suo nobile allievo Ferdinando Sanfelice, e confermata dai disegni per la facciata di S. Nicola della Carità, per la sistemazione della scalinata d’ingresso alla chiesa di S. Paolo, nella ristrutturazione del suo monumentale palazzo alla salita di San Potito, acquistato nel 1710, che al piano inferiore ospitava a pagamento una ‘scuola’ di discepoli di varia estrazione sociale impegnata anche nella copia delle sue opere e delle sue macchie, in effetti innumerevoli in musei e collezioni private. Alla ristrutturazione della pericolante tribuna di S. Gaudioso affidata a Sanfelice, che sacrificò i già ammiratissimi affreschi cinquecenteschi di Andrea da Salerno, Solimena partecipò nel 1733 con una grande tela andata distrutta in un incendio nel 1799 (pp. 1160 s., nota 118), ma già dalla sua superstite macchia (Causa, 1947) Bologna (1958, p. 118) ha rilevato un ritorno del pittore alla sua più antica foga pittorica, che connota l’ultima fase della sua sempre ricercatissima operosità. Essa è ben rappresentata dall’Annunciazione per la chiesa di S. Rocco a Venezia, cui avrebbe dovuto accompagnarsi una Storia di s. Antonio, opere richieste entrambe contemporaneamente a una coppia di dipinti di Sebastiano Ricci, nello spirito di una gara ai massimi livelli di notorietà e di apprezzamento, nella quale però si inserì Francesco Trevisani (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, p. 1162 nota 123). Entro lo stesso orizzonte competitivo Juvarra promosse per la sala del trono del Palazzo Reale della Granja, vicino Segovia, un ciclo di imprese di Alessandro Magno da affidare, secondo la volontà di Filippo V, a pittori di «tutte le scole d’Italia», come precisava l’architetto scrivendo a Solimena, che nel 1735 aderì alla gara con l’animatissima Battaglia di Alessandro contro Dario, oggi nel monastero di S. Lorenzo all’Escorial (p. 1164 e nota 126). Più che ottantenne, Solimena fu in primo piano anche nell’allestimento decorativo dell’appartamento approntato in Palazzo Reale a Napoli per le nozze di Carlo III con Maria Amalia di Sassonia nel 1738 (Bologna, 1979 e 1982; De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, pp. 1162 s. e nota 123), scomposto verosimilmente durante l’occupazione francese. Ancora l’anno successivo la regina di Spagna, Elisabetta Farnese, gli commissionò l’altare maggiore della collegiata di S. Ildefonso a la Granja che arrivò a destinazione due anni dopo (p. 1166 e nota 128), e del quale Bologna (1958, p. 119) ha riconosciuto il bozzetto, violentemente ‘macchiato’, nella chiesa di S. Maria di Piedigrotta, un attestato della furia con cui, indebolito nella vista e con due paia di occhiali uno sopra l’altro, De Dominici lo vedeva ancora dipingere.
Ricchissimo, quasi prigioniero dei gelosi e amatissimi nipoti, figli del fratello Tommaso, nella «deliziosissima» villa di Barra che aveva personalmente decorato di pitture ‘a guazzo’, e della quale, nascosta tra i pini, resta il ricordo in un’incisione del Voyage pittoresque dell’Abbé de Saint-Non (De Dominici, 1742-1745 circa, 2008, p. 1163 e nota 125), Solimena morì il 5 aprile 1747 e venne sepolto nella chiesa di S. Domenico a Barra.
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