Stabili, Francesco (Cecco d'Ascoli)
La vita di S., medico, astrologo, naturalista e poeta (nato nel 1269 ad Ancarano presso Ascoli Piceno, e morto nel 1327 a Firenze, arso vivo insieme alle sue opere) lascia evidenziare soprattutto i momenti di condanna: 1324, in Bologna per opera dell'inquisitore Lamberto da Cingoli con conseguente sospensione dall'insegnamento della medicina; 1327, in Firenze, per opera dell'inquisitore fra Accursio Bonfantini francescano (v.).
Per quanto riguarda le sue opere, c'è da ricordare l'Acerba, poema dottrinale in rozze terzine; il De Principiis astrologiae (commento all'opera dell'arabo Alcabizio) e il De Eccentricis et epicyclis; il Tractatus in sphaeram, commento all'opera di Sacrobosco; le Praelectiones ordinariae astrologiae habitae Bononiae.
Prima di venire al tanto presuntuoso quanto bizzarro suo atteggiamento antidantesco, gioverà brevemente accennare alla sua fortuna, oscillante tra un duro giudizio sul valore della sua opera, e la difesa, sorta in un secondo momento, determinata in buona parte dalla comune origine ascolana di alcuni studiosi di Cecco.
In questo alternarsi di opposte valutazioni particolare importanza, anzitutto, detiene (per il primo indirizzo) Giovanni Villani, al quale - oltre all'accento già chiaramente posto sul Tractatus in sphaeram come causa prima dei tanti guai di Cecco - dobbiamo anche la segnalazione della teoria, da Cecco sostenuta, dell'oroscopo delle religioni, in base alla quale lo stesso avvento di Gesù Cristo, in quanto redentore, soggiacque alle influenze astrali (" venne in terra accordandosi il volere di Dio colla necessità del corso di storlomia " e " come Anticristo dovea venire per corso di pianete in abito ricco e potente ", Cronica X 40). Lungo questa linea avremo, anzitutto, alcuni letterati particolarmente legati a D. (tra i quali G. Quirini) e vari umanisti, concordemente ritornanti sul tema del Cristo astralizzato. Così, ad esempio, oltre il moderato cenno di Marsilio Ficino (" Esculus quidam Astrologus, quamvis parum religiosus, asserit tamen astrologica computatione certum esse ea die qua Christus cruci affixus est Solem in primo Arietis gradu ", De christiana religione X I, in Opera, Basilea 1561, 15), troviamo quello più drastico di G. Pico della Mirandola: " O homines ridiculos et nunquam certe satis irrisos! Esculanus ille superstitiosus, qui fertur magus, natus est, ait, Iesus in stabulo quia imum coeli Capricornus, et alius rex inquit, fuit Iudaeorum quia horoscopus erat Libra " (Disputationes in Astrologiam V 14, in Opera, Basilea 1500, 576).
In senso diametralmente opposto, invece, si muove un più tardo ripensamento nel quale (anche in ragione della zelante presa di posizione di molti ecclesiastici) non è difficile avvertire - oltre al già rilevato zelo patrio - i riflessi di un mutato atteggiamento nei confronti di Dante. Un D. visto non più quale campione di ortodossia da difendere contro gli attacchi di Cecco o, almeno, quale patrimonio letterario, ma specialmente quale arma di guerra già violentemente impugnata dal mondo protestante e, quindi, da ridimensionare il più possibile. Tale atteggiamento è attestato dal ben noto comportamento esegetico, via via consolidatosi, soprattutto all'interno della Compagnia di Gesù. Gesuita, infatti, sarà proprio colui che a questo nuovo indirizzo dà il via: Paolo Antonio Appiani, concittadino di Cecco, amareggiatissimo per il fatto che " omnes adversus Stabilem coniurati, Carolum [Senzaterra] induxerunt ad hominem suo famulatu aulaque Regia amandandum, qui malis geniis familiaris, et a recto fidei dogmate, ut falso aiebant, alienus, suorum errorum lue Florentiam ferme universe polluebat. Votta denique consecutis, in carcerem Cicchus coniicitur, morbi addicitur, in ignem traditur, non sine turpi sempiternaque Caroli atque accusantium infamia " (Bibliotheca ms. Picentium auctore P. Paulo Antonio Appiano Soc. lesu, segnalata da D. Bernini, Istoria di tutte le eresie descritte da D. Bernino compendiata ed accresciuta da G. Laucisi, Venezia 1737). In questa medesima linea troviamo S. Andreantonelli (Historiae Asculanae libri IV, Padova 1673, 143); G.M. Crescimbeni (Historia della volgar poesia, III, Venezia 1730, 126); F.S. Quadrio, per il quale è pacifico che vera causa della condanna fu " lo sprezzar [che fece Cecco] le poesie di Dante e di G. Cavalcanti ", il che infatti " fu principio di sua rovina; imperciocché perseguitato dalle famiglie Cavalcanti ed Alighieri... accusato per mago ed eretico alla fine fu arso " (Della Storia e della ragione d'ogni poesia, IV, Milano 1749, 39); il Mazzuchelli (Gli scrittori d'Italia, I, parte II, Brescia 1753, 1151) e altri.
È possibile, in base ai dati oggi in nostro possesso, far luce sulle vere ragioni della condanna dello Stabili? G. Boffito sconsiglia ogni illusione in merito. Certo non mancano argomenti a chi volesse trovare motivi estranei al puro fatto ereticale. Doveroso è, anzitutto, pensare al poco tatto usato da Cecco nei confronti del suo stesso padrone in Firenze: quel Carlo di Calabria (per dieci anni signore della repubblica fiorentina) del quale era astrologo e medico ufficiale e della cui figlia (la futura Giovanna di Napoli) non ebbe scrupolo di profetizzare le scostumatezze. A ciò si aggiunga forse (oltre al contegno tenuto da Cecco con i propri rivali, tra i quali il notissimo Dino del Garbo, medico lui pure) la mortale offesa fatta a fra Accursio Bonfantini rettore di Santa Croce sin dal 1318 e inquisitore di Firenze, con i sarcastici accenni dell'Acerba alla sodomia dei suoi antenati: Francesco d'Accorso (ricordato anche da D. in If XV 110) e suo padre Accorso da Bagnolo. Né sembra superfluo il rilevare che il medesimo fra Accursio fu " primum delectum... a Florentinis ad explanandam diebus dominicis Sacram Comoediam Dantis in Cathedrali " (cfr. " Miscellanea Francescana di Storia, Lettere Arti " n.s., XXXIII [1933] 383). Primo lettore di D., quindi, e in pari tempo severo giudice del suo nemico.
Tutt'altro che organico è, forse tuttora, il profilo antidantesco di Cecco. In questo senso, infatti, e a scapito di una genuina sua ricostruzione, troppa importanza è sempre stata data alla banalità dell'attacco qual è espressa nel noto finale del libro IV (vv. 4469-4686, ediz. Crespi). Ben altro è il significato dell'Acerba, in cui traspare in controluce un ideale antidantesco, proprio attraverso l'accoglimento e il capovolgimento di una serie di temi e aspetti danteschi, che più ostici dovevano apparire ai suoi avversari.
Notevolissimo, e riccamente allusivo - se letto in questa chiave - diverrebbe senz'altro il numero dei passi in cui è presente lo stimolo di riferimenti indiretti; a volte, ad esempio, avvertibili attraverso il preciso ripetersi di motivi danteschi (come il " Cessa, intelletto, da le rotte vele " stilato, pari pari, sul paradisiaco O voi che siete in piccioletta barca / ... non vi mettete in pelago, Pd II 1-5), ma, non di rado, anche attraverso spunti nei quali oltre al ‛ motivo ' originariamente dantesco, è dato riscontrare il ripetersi dello stesso giro lessicale.
Ma anche a volerci soffermare ai soli passi in cui D. è esplicitamente chiamato in causa, il ricorso che qui suggeriamo all'Acerba come spia dei principali appunti mossi alla Commedia ha di che suffragarsi. La serie è aperta, posto che non si tratti di sestine spurie (come G. Petrocchi ci ha giustamente ricordato), dal cap. II del libro I (vv. 153-164), dove troviamo il presupposto stesso di una possibile esperienza ultramondana di Dante. Un secondo punto nel quale pure esplicita si fa la polemica antidantesca di Cecco è in apertura del libro II (cap. I, vv. 725-736) impegnato sul tema della fortuna. Meglio non potrebbe apparire la grossolanità delle valutazioni cui andava incontro il pensiero di D. a questo proposito, sì da prestarsi a pseudo-rivendicazioni di libertà stranamente annullate, subito dopo, nel ritmo condizionante degli astri. Con il cap. XII di questo medesimo libro (vv. 1439-1450) c'imbattiamo in un tema già ampiamente considerato da D. Guerri: il concetto di nobiltà, legato tra l'altro a un presunto scambio epistolare tra D. e Cecco, sul quale è assai difficile far luce. Il libro III (cap. I, vv. 1935-1940, e vv. 1974-1982, sull'amore) ci pone di fronte un nuovo spunto in cui, con D., è l'intero dolce stil nuovo a vedersi posto sotto accusa. Più sottile (pur nella banalizzazione sarcastica di contorno) è la polemica del cap. IX del libro IV (vv. 4397-4402, questioni morali, invettiva contro le donne) diretta in funzione anti-Beatrice. A tal proposito, forse non a torto, il Crespi ricordava una possibile consonanza petrarchesca: la " vera Beatrice " della canzone alla Vergine starebbe qui cioè polemicamente a escludere ogni altra Beatrice reperibile in terra, soprattutto se rapportata a quel gentil sesso in cui Cecco non seppe vedere altro che " tossico dolce, putrida sentina, / arma di Satanasso e suo flagello ". Un altro punto gioverà, infine, rievocare, pur non trattandosi di passo munito di esplicito richiamo a Dante. Si tratta dell'accenno ai Colonna (libro II, cap. VI, vv. 1091-1096), dove a loro alto titolo di gloria viene ricordato quello schiaffo di Anagni che così aspra condanna riceve, invece, da D.: di qui il chiaro schiudersi di una geografia politica che alle divergenze già esistenti in sede di pensiero, aggiunge altri e non meno decisivi motivi di contrasto.
Bibl. - L'Acerba è stata edita da P. Rosario (Lanciano 1913) e da A. Crespi (Ascoli Piceno 1927), ma assai discutibilmente. Migliore L'Acerba secondo la lezione del codice Eugubino del 1376, a c. di E. Vittori e B. Censori, Ascoli Piceno 1971; G. Castelli, La vita e le opere di Cecco d'Ascoli, Bologna 1892; ID., Cecco d'A. e D., Roma 1903; G. Boffito, Perché fu condannato al fuoco l'astrologo Cecco d'Ascoli, in " Studi e Docum. di Storia e Diritto " XX (1899) 357 ss.; ID., in " La Bibliofilia " V (1903-04) 333 ss.; VI (1904-05) 53 ss., 111 ss., 283 ss.; VII (1905-06) 150 ss.; G. Natali, Per la storia delle relazioni tra D. e Cecco d'A., in " Le Marche " I (1902) 169-172; V. Paoletti, Cecco d'Ascoli, Bologna 1905; D. Guerri, in " Giorn. stor. " LXVI (1915) 128 ss.; M. Alessandrini, Cecco d'Ascoli, Roma 1955; G. Petrocchi, Cultura e poesia del Trecento, in Storia d. letter. italiana, a c. di E. Cecchi e N. Sapegno, II, Milano 1965, 561-718; A. Tartaro, Cecco d'Ascoli, in La letteratura italiana. Storia e testi, II 1, Bari 1971, 472-484.