TREVISANI, Francesco
Figlio di Antonio, architetto, e di Domenica, nacque a Capodistria il 9 aprile 1656 (Pascoli, ante 1744, 1981, pp. 27, 40) e fu battezzato il 17 aprile successivo (Quarantotto, 1907, p. 49).
Citato dai principali biografi settecenteschi, da Pellegrino Antonio Orlandi (1704 e 1719) a Nicola Pio (1724, 1977), che riportano tuttavia dati spesso imprecisi (indicandone ad esempio la nascita a Treviso), la prima fonte a fornire notizie attendibili fu Lione Pascoli (ante 1744, 1981), che, in rapporto diretto con Trevisani, trasse probabilmente da lui informazioni di prima mano. Altri dettagli si ricavano dal più tardo profilo tracciato dal fiorentino Francesco Moücke (1762), attento in particolare alla narrazione di aneddoti della vita privata del pittore.
Avviato forse alla carriera artistica dal padre, le fonti sono concordi nel riferire che Trevisani si formò a Venezia, dapprima nella bottega locale di Antonio Zanchi, quindi al seguito del tedesco Giuseppe Heintz, «che celebre era in dipingere figure piccole, e da lui apprese il disegno, il colorito ed il nobil, vago e morbido suo impasto» (Pascoli, ante 1744, 1981, p. 28). Poco più che ventenne si spostò a Roma, portando con sé anche gli anziani genitori e il fratello Pietro. In un interrogatorio del 1690 l’artista dichiarò di essere giunto in città nel settembre 1679 (Wolfe, 2010, p. 6), sebbene il suo nome compaia per la prima volta negli Stati delle anime nel 1683 (Roma, Archivio storico del Vicariato, S. Lorenzo in Lucina, Status animarum, 1683, c. 55r), quando risiedeva con la famiglia al Corso «dall’arco di Portogallo a S. Giacomo, mano destra».
La scelta di trasferirsi fu dettata secondo Pio e Pascoli dalla volontà di fare esperienza al di fuori dell’ambiente lagunare e di conoscere così altre scuole pittoriche, mentre Moücke narra che la risoluzione fu presa per sfuggire alla famiglia della nobile «veneziana» che sarebbe divenuta sua sposa. Dai registri romani si apprende che la moglie del pittore si chiamava Girolama Riva ed era originaria di Trieste. I due ebbero tre figli: Antonio e Laura, morti prematuramente, e Domenica, nata il 30 dicembre 1682, battezzata il 19 gennaio 1683 (esatti i riferimenti forniti da Wolfe, 2007, p. 59, n. 50, mentre del tutto impreciso è quanto riportato da Di Federico, 1977, p. 31, n. 9) e andata in sposa a un certo Pietro Rossi di Fiano Romano.
Nella capitale pontificia, dove rimase a vita, oltre a cimentarsi nello studio e nella copia dei capolavori dei grandi maestri, Trevisani entrò al servizio del cardinale Flavio Chigi, suo primo protettore e committente, che servì con regolarità almeno dal 1682 (Golzio, 1939, p. 295) fino alla morte del prelato nel 1693.
Per lui eseguì numerosi dipinti, dalle prime scene 'di genere', ancora in gran parte debitrici al gusto del maestro Heintz (pp. 295-297), a lavori di maggiore rilievo come la grande tela con la Trinità e i ss. Bernardo e Caterina da Siena (1684) destinata alla chiesa della villa Chigi di Cetinale, nel senese, dov’è custodita tuttora, o quella di poco successiva con S. Antonio che predica ai pesci (1687), commissionata dal cardinale per la chiesa di S. Francesco a San Quirico d’Orcia. Se il primo dei due quadri rende evidente rispetto alle prove precedenti l’avvenuta meditazione su modelli romani come la Trinità di Guido Reni nella Trinità dei Pellegrini e la Trinità di Pietro da Cortona nella cappella del Sacramento in S. Pietro in Vaticano, il secondo recupera un gusto luministico pienamente veneto aggiornato sui testi del classicismo – dai Carracci a Sacchi – con un rigoglioso inserto naturalistico consono alla coeva pittura di paesaggio.
Prima opera pubblica di rilievo fu la tela, firmata, con il Martirio dei ss. Quattro Coronati, commissionata da Chigi per il duomo di Siena. La pala fu consegnata nel 1687 e il cardinale ne fu entusiasta al punto da volerla esporre nel suo palazzo romano prima di inviarla a destinazione, dove fu messa in opera entro l’anno seguente; in duomo giunse anche il Cristo tra i ss. Filippo e Giacomo, eseguito per l’altare della neorinnovata cappella del cardinale Giacomo Filippo Nini, che Flavio Chigi si era assunto l’onere di ornare alla morte del proprietario.
Tra il 1686 e il 1697, anno in cui l’artista fu ammesso all’Accademia di S. Luca, si colloca l’esecuzione della grande tela con S. Andrea messo in croce per l’abside di S. Andrea delle Fratte, prima pala d’altare realizzata da Trevisani per Roma e parte di un trittico dedicato al santo titolare insieme alle tele di Lazzaro Baldi e Giovanni Battista Lenardi. Ma a portare il pittore alla ribalta nel panorama artistico capitolino fu lo svelamento, nell’inverno del 1696, degli affreschi e delle cinque tele (la Crocifissione con i ss. Maddalena e Giovanni, sull’altare; la Flagellazione di Cristo e il Cristo deriso alla parete sinistra; l’Andata al Calvario e l’Agonia nell’orto dei Getsemani alla parete destra) per la cappella della Crocifissione in S. Silvestro in Capite: un’opera su larga scala, dal retaggio ancora caravaggesco, inserita nel più ampio cantiere decorativo delle cappelle laterali della chiesa, che coinvolse i massimi rappresentanti della pittura romana (Giuseppe Bartolomeo Chiari pupillo di Carlo Maratti, Luigi Garzi, Giuseppe Ghezzi e Ludovico Gimignani) e che «accrebbe applauso e credito al suo valore» (Moücke, 1762, p. 101), consentendogli la definitiva consacrazione tra i virtuosi di chiara fama.
Dal 1698 Trevisani si era nel frattempo spostato a vivere con la famiglia in palazzo della Cancelleria, ospite del cardinale veneto Pietro Ottoboni, nipote di papa Alessandro VIII e da quel momento, morto ormai Flavio Chigi, suo nuovo e potentissimo mecenate. I rapporti con Ottoboni e la sua corte datavano in realtà già a qualche anno prima, con la commissione dei ritratti del cardinale stesso (1692 circa), oggi al Bowes Museum, Barnard Castle (inv. B.M.70), e di Arcangelo Corelli e Bernardo Pasquini, musici e compositori della cerchia ottoboniana (entrambi allo Schloss Charlottenburg di Berlino).
Il soggiorno alla Cancelleria durò un quarantennio e corrispose per Trevisani a un periodo di stabilità finanziaria e prestigio consolidato; il cardinale aveva posto come unica condizione al mantenerlo presso di lui quella di avocarsi la scelta esclusiva su ogni lavoro, ed egli così si ritrovò immerso in un ambiente elitario assai congeniale alle sue inclinazioni – artistiche, certo, ma anche di musico e attore dilettante –, al servizio di un mecenate estremamente colto e raffinato, nella cui orbita gravitavano i personaggi più in vista della Roma di allora. Egli divenne inoltre intimo amico di altri 'protetti' del porporato, come il soprano Andrea Adami, lo scultore Angelo De Rossi e l’architetto Filippo Juvarra.
Tra i lavori eseguiti per il cardinale, il Cristo morto con angeli del 1698 (Stanford University, inv. 1971.75) – tema noto in più versioni, una delle quali già di proprietà di papa Clemente XI (Vienna, Kunsthistorisches Museum, inv. 1564) –, la Strage degli innocenti e il Riposo durante la fuga in Egitto, entrambi alla Gemäldegalerie di Dresda (invv. 445 e 447), e risalenti al 1714 circa.
Ottoboni fu inoltre membro e fervente protettore dell’Accademia dell’Arcadia, fondata nel 1690 da un gruppo di intellettuali già vicini alla regina Cristina di Svezia, e, al pari di molti altri artisti, letterati e nobili del tempo, Trevisani ne entrò a far parte nel 1712 con lo pseudonimo di Sanzio Echeiano.
Il clima arcadico, improntato al disciplinamento degli estri del barocco seicentesco, tacciati di cattivo gusto, in nome di un ritorno all’essenzialità dei modelli classici, trova eco nei lavori licenziati dal pittore istriano in questi anni, spesso di tema storico-letterario o mitologico e animati da un intenso patetismo teatrale. È il caso, ad esempio, della Messa di Bolsena per la cappella del Miracolo nella cattedrale di Bolsena (1710), del coevo Banchetto di Antonio e Cleopatra commissionatogli da Fabrizio Spada Veralli e tuttora alla Galleria Spada di Roma (inv. 123), o del ciclo di tele per la cappella di S. Lucia nella cattedrale di Narni, eseguito nel 1715 dopo la crisi che aveva scosso l’Accademia stessa portando alla creazione di un nuovo gruppo 'dissidente' da cui l’artista trasse lo spunto per una nuova stretta dottrinale. Così i quadri (Beata Lucia di Narni che riceve le stigmate, sull’altare, sormontata dalla Beata Lucia di Narni bambina che riceve il Bambino Gesù dalla Vergine; la Madonna del Rosario, alla parete destra; la Morte di s. Giuseppe, alla parete sinistra) mettono in scena un gusto pienamente classicista nella loro rigida compostezza e semplicità compositiva e nell’uso di toni freddi e luminosi. Entro il 1712 Trevisani consegnò anche le due tele con la Morte di s. Giuseppe (recuperando il modello marattesco di analogo soggetto oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, inv. 121) e con la Comunione di s. Luigi Gonzaga, destinate ad affiancare gli affreschi di Garzi nella cappella del cardinale Giuseppe Sacripanti nella chiesa romana di S. Ignazio di Loyola.
L’attività al servizio di Ottoboni ebbe modo di spaziare anche in campo diplomatico, in rapporto al nodale ruolo politico ricoperto dal prelato dal 1709 in veste di protettore della corona di Francia presso la S. Sede. Ne è esempio il Martirio dei sette figli di Felicita, omaggio alla moglie del marchese e ministro di Luigi XIV Jean-Baptiste Colbert de Torcy, cui il quadro fu donato dal cardinale come ringraziamento per il supporto ricevuto nell’ottenimento della prestigiosa carica. Ma l’artista aveva raccolto plausi in tutta Europa e intrattenne rapporti di committenza con molti altri personaggi, come il principe-vescovo Lothar Franz von Schönborn o l’inglese John Drummond primo conte di Melfort, realizzando in particolare ritratti (si ricordano quelli del principe Giacomo III Stuart e della consorte Maria Clementina Sobieska, di Henry Somerset terzo duca di Beaufort, del conte James Murray, del capitano John Urquhart di Craigston and Cromarty) e offrendo con questa prolifica attività un fondamentale contributo alla nascita del cosiddetto 'ritratto del grand tour', che trovò poi il suo apice nell’arte di Pompeo Batoni (Wolfe, 2010, pp. 12 s.).
Del resto, lo straordinario virtuosismo ritrattistico di Trevisani fu già elogiato da Nicola Pio (1724, 1977, p. 336), che annotava come egli fosse «singolare nel fare ritratti, e particolarmente per ornarli di abiti, e di ricchi abbigliamenti, gl’esprime così al vivo, che non vi è che l’uguagli». Insieme agli stranieri, molti furono ovviamente anche gli effigiati d’alto rango legati alla Curia romana, tra i quali si possono ricordare, oltre al già menzionato Ottoboni, papa Benedetto XIII, i cardinali Giulio Alberoni, Niccolò Coscia, Alessandro Falconieri, Giuseppe Renato Imperiali e molti altri. Non tutti gli esemplari si sono conservati, ma di certo quella di ritrattista fu una delle virtù più fruttuose per il pittore e contribuì non poco a diffonderne la fama e a procurargli adeguati riconoscimenti economici.
Impegno capitale nella carriera di Trevisani, che lo coinvolse per oltre un trentennio, fu la preparazione dei cartoni per la decorazione a mosaico, commissionata da Clemente XI, della cappella del battistero nella basilica di S. Pietro in Vaticano. Il papa aveva affidato l’incarico a Giovan Battista Gaulli, che morì però nell’aprile del 1709 lasciando in sospeso il lavoro. Le grandi tele preparatorie per i mosaici delle lunette, eseguite tra il 1732 e il 1737, e per quelli della cupola della cappella, realizzate subito a seguire, tra il 1738 e il 1743, costituiscono il più articolato lavoro del Trevisani maturo.
Esse si caratterizzano per la classica monumentalità delle figure, la solennità dei gesti e il ricorso a una luce diffusa cui si alterna in qualche caso il ritorno a forti contrasti chiaroscurali, più in linea con la sua coeva produzione di pale d’altare. L’impresa di messa in opera dei mosaici, incentrati sul sacramento del Battesimo, fu portata a termine dalle maestranze preposte entro il 1745, con un ultimo saldo al pittore il 22 aprile di quell’anno. La gestione di questo importante cantiere impone una riflessione sul problema degli aiuti, cui Trevisani, allora già anziano, dovette necessariamente ricorrere, sebbene fosse poco incline a lasciare il proprio lavoro ad altri. Pascoli ricorda tra i suoi allievi Claudio Francesco Beaumont, Andrea Casali, Gregorio Guglielmi, Girolamo Pesce, Francesco Bertosi e Filippo Palazzeschi, ma non specifica il nome di chi lo supportò nella preparazione dei cartoni per S. Pietro, tuttora conservati nella basilica di S. Maria degli Angeli ad eccezione di quelli per i pennacchi della cupola, andati distrutti. In essi si rileva comunque una sostanziale uniformità di esecuzione, prova, quindi, di un rigido controllo da parte del maestro e di un intervento di bottega che, se vi fu, dovette rivelarsi del tutto marginale. Stando poi alla testimonianza di Moücke (1762, p. 103), Trevisani non smise mai di dipingere, e anzi la morte lo raggiunse poco dopo aver iniziato a lavorare a una tavola con S. Michele Arcangelo da spedire a Napoli, poi rimasta presso la figlia Domenica, sua unica erede.
In concomitanza con l’ultratrentennale incarico vaticano, l’artista fu attivo in altri importanti cantieri, da S. Giovanni in Laterano (1718) a palazzo De Carolis (1724 circa), ed eseguì varie pale d’altare, le cui componenti stilistiche presentano, come anticipato, non poche tangenze con quanto stava sviluppando per il cantiere petrino. Si trattò per lo più di lavori composti di poche figure e focalizzati sul solo protagonista, spesso di dimensioni monumentali, con esiti più intimisti che magniloquenti. Tra questi il S. Carlo Borromeo che mostra il Sacro Chiodo ai ss. Francesco di Sales e Filippo Neri realizzato intorno al 1725 per la chiesa di S. Carlo a Camerino e oggi nel palazzo vescovile della città, la cui composizione sembra ancora riecheggiare quella della Messa di Bolsena, sebbene le figure siano qui più monumentali e i colori tendenti al pastello. Il S. Francesco che riceve le stimmate, dipinto nel 1719 su commissione di Francesco Maria Ruspoli per l’altare maggiore della chiesa delle Stimmate di S. Francesco a Roma e il S. Francesco in estasi per S. Maria in Aracoeli (1729), opere entrambe celebrate dai contemporanei, rendono evidente lo scarto stilistico avvenuto nel corso del decennio.
In netto contrasto con il dinamismo gestuale tipico dell’interpretazione barocca di questi temi e in parte ancora distinguibile nel primo dei due esemplari, nel secondo l’episodio si riassume ormai in una calma e pacata compostezza di pose (Di Federico, 1977, p. 26). Tra le pale tarde si annoverano poi, sempre negli anni Trenta, la Madonna col Bambino e s. Antonio di Padova per la basilica portoghese di Mafra (1731 circa); il Martirio di s. Lorenzo per la chiesa di S. Filippo Neri a Torino e il Miracolo di s. Antonio di Padova per S. Rocco a Venezia, tutte connotate, rispetto alle prove precedenti, da composizioni di nuovo affollate, dal forte contrasto chiaroscurale e dal recupero di pose e temi utilizzati in lavori giovanili.
L’illustrissimo «d[omi]nus eques Franciscus Trevisani» morì novantunenne a Roma «in domo propria sita in 2° Vico Coninorum» il 30 luglio 1746 (Roma, Archivio storico del Vicariato, S. Giovanni della Malva, Liber mortuorum, 1746, c. 177v), all’apice del successo. I funerali furono celebrati con «l’assistenza de’ signori virtuosi dell’Accademia di San Luca» (Chracas, II, 1998, anno 1746, n. 4530, p. 60) nella chiesa trasteverina di S. Giovanni della Malva, dove il maestro risiedeva e fu sepolto, e alle sue spoglie furono tributati i massimi onori.
Roma, Archivio storico del Vicariato, S. Lorenzo in Lucina, Status animarum, 1683, c. 55r; S. Giovanni della Malva, Liber mortuorum, 1746, c. 177v; P.A. Orlandi, Abecedario pittorico, Bologna 1704, p. 170, ed. 1719, pp. 177 s.; Chracas, diario ordinario di Roma. Sunto di notizie e indici, I (1718-1736)-II (1737-1750), Roma 1997-1998, ad ind.; N. Pio, Le vite di pittori, scultori et architetti (1724), a cura di C. Enggass - R. Enggass, Roma 1977, pp. 335-337; L. Pascoli, Vita di F. T. (ante 1744), a cura di L. Salerno, in Id., Vite de' pittori, scultori, ed architetti viventi: dai manoscritti 1383 e 1743 della Biblioteca comunale Augusta di Perugia, Treviso 1981, pp. 25-57; F. Moücke, Serie di ritratti degli eccellenti pittori, IV, Firenze 1762, pp. 99-103; G. Quarantotto, La Galleria degli Uffizi e F. T. pittore, in Pagine istriane, V (1907), 2-3, pp. 47-51; H. Bodmer, T., F., in U. Thieme - F. Becker, Allgemeines Lexicon der bildenden Künstler, XXXIII, Leipzig 1939, p. 389 s.; V. Golzio, Documenti artistici sul Seicento nell’Archivio Chigi, Roma 1939, pp. 295-297; D. Gioseffi, L’opera di F. T., in Pagine istriane, I (1950), 4, pp. 107-115; A. Griseri, F. T. in Arcadia, in Paragone, XIII (1962), 153, pp. 28-37; F.R. Di Federico, Studies in the art of F. T.: a contribution to the history of Roman painting 1675-1750, Ph.D. dissertation, New York University 1971; Id., F. T. and the decoration of the Crucifixion chapel in San Silvestro in Capite, in The Art Bulletin, LIII (1971), pp. 52-67; Id., T.'s pictures at Narni and the state of Roman painting in 1715, in Storia dell’arte, 1972, n. 15-16, pp. 307-313; Id., F. T. Eighteenth-century painter in Rome. A catalogue raisonné, Washington D.C. 1977; A. Bacchi, Le tele da soffitto di palazzo De Carolis, in Iriarte. Antico e moderno nelle collezioni del Gruppo IRI (catal., Roma), a cura di I. Faldi, Milano 1989, pp. 91-101; K. Wolfe, F. T. and landscape: "Joseph sold into slavery" in the National Gallery of Melbourne, in Melbourne art journal, 2007, n. 9-10, pp. 44-61; S. Rudolph, Le pale eseguite da F. T. negli anni ottanta del Seicento per i primi due altari nella navata sinistra del duomo, in Le pitture del duomo di Siena, a cura di M. Lorenzoni, Milano 2008, pp. 172-181; F. T. – Autoritratto: palazzo Chigi in Ariccia, 2010, a cura di K. Wolfe, Ariccia 2010; K. Wolfe, Acquisitive tourism. F. T.'s roman studio and British visitors, in Roma britannica, a cura di D.R. Marshall - S. Russel - K. Wolfe, London 2011, pp. 83-101; M.C. Cola, F. T. e Antonio Canevari nella chiesa delle Stimmate di S. Francesco: la committenza di Francesco Maria Ruspoli, in V. Cazzato - S. Roberto - M. Bevilacqua, La festa delle arti. Scritti in onore di Marcello Fagiolo per cinquant’anni di studi, I, Roma 2014, pp. 524-527.