TROMBADORI, Francesco
Nacque a Siracusa il 7 aprile 1886, figlio di Antonino Trombatore e di Concetta Randazzo, mutò il cognome in Trombadori nei primi anni Dieci. Il padre, incisore e plasticatore, conduceva a Siracusa la rinomata libreria di famiglia L’Emporio del buon gusto, e dopo la nascita di Francesco ebbe altri tre figli: Vincenzo (1890-1959), Giuseppe (1896-1944) e Gaetano (1900-1994), che sarebbe stato un importante critico letterario e professore universitario.
Dopo aver frequentato la scuola tecnica, nel 1907 Francesco si trasferì a Roma per seguire i corsi dell’Accademia di belle arti tenuti da Giuseppe Cellini e Tommaso Minardi, al fianco di futuri compagni di strada quali Amerigo Bartoli, Mario Broglio e Cipriano Efisio Oppo. La prima mostra personale si tenne nel 1911 a Siracusa, nel foyer del teatro Massimo: le rare recensioni registrano dipinti, acquetinte e studi grafici (un ex libris segnalato in quell’occasione potrebbe essere quello firmato con il nome d’arte di gusto dannunziano Franz Trombadori d’Ortigia, che il pittore mantenne fino al 1917). Fu notata già in quella prima occasione l’adozione programmatica del divisionismo, e i pochi quadri rimasti di questa prima produzione avvertono soprattutto dell’avvicinamento di Trombadori a Enrico Lionne, conosciuto in quel cenacolo, cruciale per il dibattito intellettuale romano tra il secondo e il terzo decennio del secolo, che era la terza saletta del caffè Aragno.
Alla seconda Secessione romana del 1914 Trombadori inviò due quadri in stile diviso e puntinato: un ritratto e l’immagine di un carrettiere siciliano intitolata Canzone siciliana, di cui promosse l’acquisto Margherita di Savoia. Nello stesso anno uscì il testo di Ermanno Amicucci Piccolo mondo dannunziano, per il quale il pittore eseguì sei disegni; ad aprile, realizzò alcune cartoline e affiche di ispirazione Jugendstil per i neonati spettacoli del teatro greco di Siracusa e un ex libris per il loro ideatore, il conte Mario Tommaso Gargallo.
All’ingresso in guerra dell’Italia, Trombadori fu inviato al fronte goriziano come sottotenente di fanteria della brigata Casale. Poco dopo aver sposato a Roma Margherita Ermenegildo, figlia del direttore d’orchestra municipale di Siracusa, il 6 agosto 1916 fu ferito sul monte Podgora e ricoverato prima a Siracusa e poi nella capitale. In convalescenza, espose a Roma, Palermo, Bologna e Forlì, dove aveva sede il deposito della brigata. Il 10 giugno 1917 nacque il figlio Antonello. I contatti con Roma rimasero assidui: Trombadori fece da tramite tra il futurista Balilla Pratella e Broglio in vista dell’uscita della rivista Valori Plastici, e dal 1917 iniziò a partecipare alle esposizioni annuali degli Amatori e cultori.
Alla fine del 1919 ricevette in assegnazione lo studio n. 24 a villa Strohl-Fern, adespota dopo la morte precoce di Umberto Moggioli, e vi si trasferì con la famiglia. Per lui, che aveva intanto iniziato a collaborare con L’Illustrazione di Roma, si aprì così un milieu decisivo di confronto con un gran numero di giovani come Amedeo Bocchi, Ercole Drei, Francesco Di Cocco, Carlo Socrate, Gisberto Ceracchini e i fratelli Bragaglia, con i quali realizzò alcuni scatti fotodinamici. Nel 1921, con un gruppo di artisti romani, per soccorrere Arturo Martini che necessitava di un luogo dove poter lavorare, occupò senza autorizzazione un altro studio non assegnato, e ne dovette rispondere in procura con Armando Spadini, Roberto Melli e Giorgio De Chirico. In quell’anno, inoltre, venne nominato per una cattedra di disegno all’Istituto tecnico di Civitavecchia. Dal 1923 firmò con il nome di Franz d’Ortigia alcuni pezzi di critica d’arte per L’Epoca e Il Mattino.
L’orientamento verso il recupero della tradizione antica e dei ‘valori’ pittorici tradizionali avvenne in questo torno d’anni, ma gradualmente: le illustrazioni comparse nel 1921 per la raccolta di novelle di Henry Barbusse L’uomo e la donna confermarono le eleganze capesarine (in particolare, la grafica di Felice Casorati); e ancora in un ambito secession-divisionista si collocavano i quadri inviati alla prima Biennale romana (1921) e agli Amatori e cultori del 1922 (Siracusa mia!).
L’adozione programmatica di una pittura levigata, dichiaratamente all’antica, emerse così solo alla fine del 1923, alla seconda Biennale romana, quando Trombadori espose nella stessa sala di Socrate e Antonio Donghi, e il suo Ritratto di signorina venne riprodotto sulla rivista Il Secolo XX accanto ad altri magniloquenti quadri di figura di Ferruccio Ferrazzi, Socrate, Oppo e Nino Bertoletti, a illustrare il gruppo dei ‘Neo-classici’. Gran parte del vivace dibattito si risolse nelle recensioni intorno a questa etichetta, scetticamente squalificata da Emilio Cecchi: invece di «macerare i dati della sensibilità nel più vigoroso mordente critico, in modo da esprimerli purificati, essenzializzati», la veste museale di questi quadri rimaneva posticcia, limitata a «certi elementi esteriori: la cosiddetta macchina» (1924, p. 118). Il ritratto di Trombadori fu stroncato a partire dai valori di stesura: nella figura «nera e stucchevole come un cannello di liquirizia [...] tutto affoga e rapprende nello zucchero fuso e nella caramella» (p. 120). La stroncatura ebbe un certo peso, se ancora più di un anno dopo Trombadori prendeva posizione contro «la critica fatta dai letterati» (Trombadori, 1925).
Il confronto fatto dallo stesso Cecchi con un’opera di Giuseppe Carosi esposta nella stessa occasione informava meglio del recupero, intrapreso da quei pittori, dell’Ottocento italiano, e in particolare della ritrattistica purista o romantica. Alla Biennale di Venezia del 1922, la sala retrospettiva dedicata a Francesco Hayez era composta quasi esclusivamente di ritratti, tempestivamente commentati e riprodotti in un articolo su Dedalo: opere come Il ritratto di Matilde Juva Branca suggerivano di calibrare la regia del quadro su pochi elementi luminosi, le mani e il volto, profilati elegantemente su vesti e fondi scuri. Per il quadro di Trombadori posò Richie Remondini, che insieme alla sorella Amelia frequentava il suo studio dai primi anni Venti, diventando amica della moglie dell’artista e prestando le proprie fattezze per alcuni ritratti anonimi.
L’appartenenza del pittore alle ricerche di punta del contesto romano e nazionale fu sancita nel 1924, quando una sua natura morta fu ammessa alla XIV Biennale di Venezia e a dicembre Ugo Ojetti lo reclutò per la «Mostra dei venti artisti italiani», in cui propose di leggere un ritorno all’ordine della giovane pittura nazionale. Ojetti scelse il Ritratto di Giovanna Scotto, che Trombadori inviò poi anche alla terza Biennale romana del 1925, insieme a due nature morte, e che in quell’occasione fu acquistato dal re.
Si era ormai assestata la fisionomia della sua produzione. Da un lato i ritratti congelavano in un purismo neocinquecentesco la committenza altoborghese di regime: dalla Scotto, famosa attrice di prosa, all’ambasciatrice Donna Sofia Cantalupo, a Italo Balbo. Dall’altro le nature morte: in esse, la tipica pittura smaltata e precisionista arrivava, secondo Michele Biancale, «ad un quid nettamente antipittorico. Liscio, colorato e polito, ha del nordico come contraffazione più che come interpretazione della realtà» (1926). La messa a fuoco e la luce chiara sui sobri accrochages di verdure, frutti e cacciagione additavano un’originale ispirazione seicentesca: Roberto Longhi, visitando la Biennale romana del 1925, appuntò di fronte a una di esse «Rachel von Trombadorhuysum» (il riferimento era forse alla pittrice fiorista Rachel von Ruysch) e ne avrebbe ricordato «l’inclinazione nordica, all’olandese» come «resistenza» al più lasco classicismo che stava già sfociando nel Novecento propugnato da Margherita Sarfatti (Longhi, 1964, p. 48).
Ovvia fu tuttavia l’inclusione di Trombadori entro la larga compagine novecentista, alla prima mostra tenutasi alla Permanente di Milano all’inizio del 1926: oltre a due nature morte, egli inviò un nudo, calcato precisamente sulla Venere Landolina notoriamente conservata al Museo archeologico di Siracusa. Un simile omaggio alle proprie origini rispondeva efficacemente al recupero che la Sarfatti caldeggiava dei regionalismi: proprio sul carattere mediterraneo e insulare della sua pittura la critica milanese insistette l’anno dopo introducendolo agli Amatori e cultori, all’interno di una formazione romana di pittori del Novecento. Quando Trombadori rispose al referendum rivolto agli artisti moderni da Giovanni Scheiwiller, ripensò il proprio percorso adeguandosi perfettamente a queste letture correnti: «tra gli artisti antichi preferisce Antonello da Messina, Masaccio, Piero della Francesca, fra i moderni Cézanne. [...] Studi della evoluzione: dal 1911 al 1915 feci una pittura divisionista e impressionista; dal 1917 al 1924 studio dei maestri del ’400 e ’500 con copie in galleria ho fatto una pittura neoclassica; dal 1924 ad oggi pittura realista» (Trombadori, 1927, citato in Francesco Trombadori, 1986, p. 105).
Proprio sull’esempio cézanniano e sull’antico Trombadori rimeditò il paesaggio, su cui tornava dopo un lustro dalla stagione divisionista. Alla Biennale del 1928 inviò un Canale, mentre nel 1929, alla seconda mostra del Novecento italiano, espose L’isola Tiberina, poi inviata a maggio all’Esposizione universale di Barcellona. La sua produzione ottenne finalmente un’attenzione critica circostanziata: Alberto Neppi ne tracciò un lungo profilo nel 1928, e Longhi dimostrò di apprezzarne i «progressi innegabili» alla prima Mostra sindacale del Lazio: «dalla composizione molto ricercata e riprovata di queste due contrade artatamente solitarie, traspira un certo languore, una bava pacifica e tarda; l’impasto ne par molle di sudore» (Longhi, 1929).
Nel 1929 nacque la figlia Donatella. L’attività espositiva si fece intensa negli anni Trenta, tra le mostre sindacali romane e palermitane, le biennali veneziane, le rassegne internazionali novecentiste (Buenos Aires, Stoccolma, Baltimora, Oslo, Vienna) e la prima Quadriennale di Roma del 1931. Sempre nel 1931 il pittore si trasferì nello studio n. 12 di Villa Strohl-Fern, lasciato da Oppo. Con una lettera di apprezzamenti per la Fanciulla con chitarra mandata a Buenos Aires, alla fine del 1931 si attesta la corrispondenza con il giovane Renato Guttuso, uno dei rinnovati contatti siciliani cui Trombadori fungeva da tramite con le iniziative nazionali del Novecento. Alla Biennale del 1932 il pittore ottenne una parete di sette opere e tre anni dopo, alla Quadriennale del 1935, inviò una natura morta, un paese e la Fanciulla nuda, il capolavoro che suggellava una serie di nudi femminili iniziata nel 1928.
L’anno successivo, tra le mediocri recensioni delle opere di Trombadori esposte alla Biennale veneziana spiccava un’osservazione di Giacomo Etna sul Popolo di Sicilia, forse a parte delle recenti pratiche d’atelier del pittore: «Ha il gusto del fotomontaggio, ama sovrapporre le immagini, mettere dietro alle figure come sfondo la riproduzione di qualche tela sua o di altri, imitare la fotografia con una pedanteria da pittore fiammingo, civettare con gli oggetti del suo studio» (Etna, 1936). Al di là dell’espediente del quadro nel quadro e delle allusioni alla Sicilia tra gli oggetti delle nature morte, l’utilizzo di fotografie per i suoi soggetti è attestato da numerosi materiali d’archivio: positivi autografi o ritagli da riviste quadrettati per l’ingrandimento vanno collocati all’origine dell’Autoritratto del 1931-32 e di molti paesaggi e nudi femminili. Non era facile ammettere un simile strumento d’atelier in quegli anni, come dimostra una dichiarazione dello stesso Trombadori intorno al ‘caso Oppi’ di una decina d’anni prima: il pittore ammetteva «che un artista si ispiri da una fotografia e crei un’opera d’arte», ma criticava i «veri e propri ingrandimenti fotografici dipinti coi quali l’arte non ha nulla da vedere» (Trombadori, 1926, citato in Francesco Trombadori, 1986, p. 102).
Nel 1937 iniziò la collaborazione del pittore con la rivista genovese Circoli, diretta da Adriano Grande e animata tra gli altri da Elio Vittorini, Leo Longanesi, Salvatore Quasimodo, Sandro Penna. Tra le edizioni della rivista uscì l’anno successivo la prima monografia sul pittore, introdotta da Grande, che lungo il percorso delle quaranta tavole illustrate, con opere dal 1919, descriveva una poetica vicina alle posizioni dell’ermetismo.
L’inizio della guerra coinvolse direttamente il pittore tramite il fratello Peppino, comunista e antifascista che morì a Milano nel 1939 per gli stenti cui era stato costretto dopo l’uscita dal confino, e tramite il figlio Antonello. Questi fu chiamato alle armi nel 1940, e alla fine di quell’anno venne ferito a un braccio sul fronte greco-albanese e ricoverato a Roma. Vicino al clandestino Partito comunista e attivo antifascista, l’anno successivo fu arrestato a settembre e condannato al confino a Carsoli in Abruzzo, rifiutando il pubblico pentimento proposto da Mussolini.
Negli anni centrali del conflitto Trombadori continuò a partecipare alle mostre di regime (come al Salone dell’Aeronautica alla Biennale del 1942, dove inviò opere a tema militare, o alla Quadriennale del 1943). Dopo la caduta di Mussolini del 25 luglio 1943, Antonello tornò a Roma in clandestinità e durante l’occupazione fece parte dei comandanti dei Gruppi di azione patriottica della capitale. Sulle sue tracce i nazisti operarono pressioni sulla famiglia, fino all’arresto di Francesco da parte della cosiddetta banda Koch, avvenuto nell’aprile del 1944. Per più di una settimana Trombadori, quasi sessantenne, fu rinchiuso nella pensione Jaccarino in via Romagna, la base segreta dell’efferato reparto speciale capitanato da Pietro Koch, nel periodo in cui anche Luchino Visconti vi fu incarcerato per qualche giorno.
Dopo la liberazione di Roma, la prima mostra cui Trombadori partecipò fu la rassegna «Arte contro la barbarie, artisti romani contro l’oppressione nazifascista» organizzata nell'agosto del 1944 presso la Galleria di Roma dal quotidiano L’Unità. Antonello era nel comitato organizzatore e l’anno successivo, in occasione del premio Galleria di Roma, il pittore si collocò al terzo posto ex aequo con Orfeo Tamburi, il quale rinunciò contestando la faziosità politica dell’assegnazione.
Dal 1947 fino a tutti gli anni Cinquanta Trombadori riprese la sua produzione e la partecipazione a mostre e concorsi, in qualità ormai di maestro della pittura italiana moderna, che aveva mantenuto un’autonomia decisiva rispetto al regime. Le sue opere alle rassegne nazionali di Modena, Catania, Messina, o alle biennali veneziane dal 1948 al 1954, al premio Marzotto del 1954 o al premio Avezzano del 1961, figurarono del tutto avulse dal coevo dibattito sull’arte astratta; e anche sul fronte del realismo impegnato suonava pretestuoso ritrovare i «grigi di Trombadori negli omogenei strati di Muccini o Vespignani» (Ciarletta, 1949).
Trombadori, che dal 1949 tornava periodicamente a Siracusa, allestì negli ultimi anni alcune personali, tra cui nel 1955 quella alla Tartaruga di Plinio De Martiis a Roma. Libero De Libero collocava l’ultimo tratto della ricerca del pittore siciliano «sempre sul filo morandiano della ‘buona pittura’ – e quell’adorato modello di continuo rimeditando – mostra di avere con molta intelligenza scoperto il remoto antefatto di Corot», e notava «un cenno, qua e là di toscano ottocentismo» (1955, p.n.n.): per l’ultima produzione paesistica il pittore si servì infatti di piccoli formati portabili (con cui partecipò alla «Mostra romana della tavoletta» nel 1953). Le vedute di Roma furono raccolte nel 1958 in una personale alla galleria del Vantaggio di Roma, e due anni dopo al Centro artistico San Babila a Milano, dove furono commentate da Mario De Micheli: «le vie della vecchia Urbe, le piazze famose, gli splendidi palazzi, i monumenti sono elementi di un suo sottile e dolcemente allucinato discorso. Trombadori cioè trova negli elementi architettonici della città, nella sua scenografia, i motivi su cui la sua fantasia s’accende fino a diventare [...] una sorta di stupefatta tensione in cui ogni cosa silenziosamente posa» (De Micheli, 1960).
Quando il pittore morì, a Roma il 24 agosto 1961, la sua figura iniziava già a essere recuperata nella storiografia sugli anni Venti.
La prima antologica postuma a Siracusa del 1976, introdotta da Leonardo Sciascia, e una mostra dei paesaggi romani con uno scritto di Giuliano Briganti nel 1979, assicurarono la sua inclusione negli affondi storiografici del decennio successivo sui realismi del primo dopoguerra. Nel 1985 lo studio di Trombadori, l’unico che a Villa Strohl-Fern conservava la conformazione ottocentesca, venne vincolato dal ministero dei Beni Culturali e Ambientali.
E. Cecchi, La seconda Biennale romana. Artisti italiani, in L’Esame, s. 1, III (1924), 2, pp. 117-134; F. Trombadori, Questioni di pittura, in L’Opinione, 30 ottobre 1925; M. Biancale, Alla mostra del Novecento italiano, in Il Popolo di Roma, 26 febbraio 1926; A. Neppi, Artisti del tempo nuovo. Il pittore F. T., in La Stirpe, VI (1928),11, pp. 673-676; R. Longhi, La mostra romana degli artisti sindacati, in L’Italia letteraria, 7 aprile 1929; G. Etna, Un pittore siciliano: F. T., in Il Popolo di Sicilia, 8 novembre 1936; N. Ciarletta, Tavolozza romana, in Il Momento Sera, 11 ottobre 1949; L. De Libero, T. amabilissimo pittore, in F. T. (catal.), Roma 1955, pp.n.nn.; M. De Micheli, F. T., in L’Unità, 6 maggio 1960; R. Longhi, Ricordo di T., in Paragone. Arte, XV (1964), 169, pp. 47-49; F. T. (1886-1961) (catal. Siracusa), Palermo 1976; F. T. Paesaggi di Roma (catal., Roma), Roma 1979; Gli artisti di Villa Strohl-Fern tra Simbolismo e Novecento (catal.), a cura di L. Stefanelli Torossi, Roma 1983; F. T. (1886-1961), a cura di M. Fagiolo Dell’Arco - V. Rivosecchi, Roma, 1986; F. T. Critica d’arte, Roma 2000; F. T. e la Sicilia (catal. Siracusa), a cura di G.C. De Feo - F. Rovella, Cinisello Balsamo 2007; F. T.: l’essenziale verità delle cose (catal. Roma), a cura di G.C. De Feo, Falciano 2017.